I morti non muoiono (The Dead Don’t Die), 2019, di Jim Jarmusch, con Bill Murray, Adam Driver, Tom Waits e un sacco d’altra bella gente.

A me piace Bill Murray. Di più: per me è un mito. Un mostro sacro. Lo andrei a vedere recitare anche se facesse la pubblicità di un whisky giapponese (e infatti…). Quindi, ovvio che sia andato a vedere questo film di Jim Jarmusch e abbia trovato esilaranti la maschera eternamente perplessa e sorpresa, ma impassibile, del Capo Cliff Robertson e i suoi duetti con un altrettanto bravo Ufficiale Ronnie Peterson (Adam Driver: chissà se il riferimento al grande campione automobilistico è voluto, anche perché il poliziotto guida un’improbabile Smart decappottabile).
Di Jarmusch sono un fan meno estremo. Jarmusch alterna film molto belli a film così così. Questo, a parer mio, appartiene alla seconda categoria.
La favola ecologica raccontata nel film è poco più di un pretesto: il fracking polare ha cambiato l’orbita terrestre, l’alternanza tra giorno e notte è andata fuori fase, i morti si svegliano. Un pretesto per rappresentare l’ennesima zombie apocalypse, la mania e la metafora del momento negli Stati Uniti.
I non morti sono doverosamente cannibali. Chi è ucciso da loro si trasforma irrimediabilmente a sua volta in zombie. Non c’è speranza di sopravvivere (a meno che tu non sia un giovane delinquente e fugga dal riformatorio, pare di capire): “This is definitely going to end badly” è un tormentone di Ronnie Peterson.
Jarmusch si diverte, e noi con lui: mette insieme un cast di cameo con tutti i suoi amici e i suoi attori (da Tom Waits a Iggy Pop a Steve Buscemi), riempie il film di citazioni che manco Quentin Tarantino (Guerre stellari, Nosferatu, Il signore degli anelli…), prende in giro i neo-con (il pastore tedesco del farmer razzista Frank Miller-Steve Buscemi risponde al nome di Rumsfeld), sfonda la quarta parete (“He only gave me our scenes. I never saw a complete script. After all I’ve done for that guy, and it’s a lot that you don’t even know about. What a dick.”), ci mette i dischi volanti (anche qui, si chiede il cinefilo occulto che alberga in me: la scozzese Zelda Winston-Tilda Swinton è un richiamo, oltre alla Uma Thurman di Kill Bill, alla Scarlett Johansson di Under The Skin?), ci propina anche una canzoncina che perseguita noi e il cast per tutto il tempo, l’appropriata The Dead Don’t Die (l’autore e cantante Sturgill Simson naturalmente compare come zombie che si trascina una chitarra).
Il piccolo colpo di reni di Jarmusch è che gli zombie sono ossessionati da morti (o, più esattamente, da non-morti) da ciò che li ossessionava in vita: lo chardonnay nel caso della vecchia ubriacona, il caffè nel caso dello zombie interpretato da Iggy Pop, i telefonini… Non sono un esperto di zombie, che ho sempre considerato inferiori ai vampiri e ai lupi mannari, ma mi sembra che questa trovata di Jarmusch possa aiutare a dare spessore alla loro mitologia. I vampiri sono la metafora vivente (oddìo, vivente…) dell’amore che vuole rendere il suo oggetto identicamente eguale a sé stesso (ne ho parlato molte volte e mi permetto un’auto-citazione con riferimento è a Miriam si sveglia a mezzanotte):
L’immortalità non c’entra nulla. È una parabola dell’amore, invece. Dell’amore distruttivo, naturalmente. Perché i vampiri sono inevitabilmente una coppia, tenuta insieme non dall’attrazione sessuale, ma da un’aspirazione al possesso assoluto dell’altro, dall’aspirazione a rendere l’altro identico a sé. E questo implica che per vivere, per durare, ogni membro della coppia debba divorare l’altro, succhiarne il fluido vitale. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, era dopo era. “Forever and ever.” E che poi questo non basti ancora, a che si debbano immolare e consumare tutte le persone che si incontrano, perché l’esistenza dell’altro, di qualunque “altro” da sé non è tollerabile. Il vampiro è solo, di una solitudine peggiore della morte. Il non-morto è anche inevitabilmente non-vivo.
Gli zombie invece – suggerisce Jarmusch – sono non-morti perché non riescono a separarsi dall’accumularsi di desideri che ha caratterizzato la loro vita: la brama di possesso (possesso fisicissimo, che porta a divorare) rende loro impossibile morire, perché la morte è distacco. Al tempo stesso sono non-vivi, perché l’ossessione del possesso e del consumo impedisce loro di vivere compiutamente (oltre a portare alla distruzione del pianeta).
Se per caso a qualcuno fosse sfuggita la morale della parabola, ci pensa l’eremita Tom Waits a sottolinearlo nel suo monologo finale.
Bah, ho pensato io, che pistolotto finale banale.
Poi sono uscito dal cinema – era a Trastevere in un sabato sera d’estate alle 23:30 – e mi sono sentito anch’io assediato dagli zombie…
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