Dogman

Dogman, 2018, di Matteo Garrone, con Marcello Fonte, Edoardo Pesce e Alida Baldari Calabria.

Dogman (2018)
imdb.com

Film molto bello, ma durissimo, di una violenza quasi insopportabile.

Mi viene spontaneo il confronto con Sulla mia pelle di Alessio Cremonini. Tuttavia, la scelta stilistica di Cremonini è la freddezza documentaristica, che evita (per quanto possibile) di coinvolgerti emotivamente e rifugge dalla rappresentazione diretta della violenza: il pestaggio di Stefano Cucchi non viene mostrato, ed è in qualche modo la premessa e non il climax del film, mentre si dà molto tempo e ampio spazio alla serie di scaricabarile che conducono inesorabilmente a una morte che si sarebbe potuta evitare, ma non si è voluta evitare per omertà e pusillanimità di tutti quelli che avrebbero potuto farlo e si sono rifugiati nella versione più comoda – “Sono caduto dalle scale” – e nell’alibi del rifiuto delle cure da parte di Stefano – come se le avesse potute chiedere o accettare senza precipitare in una condizione ancora peggiore.

La scelta di Garrone, invece, è quella di umanizzare un protagonista (il Canaro della Magliana? ne parleremo tra poco), e raccontarci l’inevitabilità della violenza finale: nessuna altra via d’uscita era più possibile.

Qui entra in gioco il ruolo del protagonista Marcello Fonte e la sua bravura: ne hanno parlato tutti, con giudizi unanimemente positivi, e quindi non aggiungo altro di mio. Piuttosto, vorrei segnalare la prova magistrale della piccola Alida, che dà spessore al delicatissimo rapporto di Marcello con la figlia. Rapporto delicatissimo, centrale nella rappresentazione della sua umanità, e nel farne una vittima del destino, oltre che di Simoncino. Il clima è quello della tragedia greca.

Il Canaro della Magliana, dunque. Chi era a Roma in quegli anni (era il febbraio del 1988) non può non ricordare il fatto di cronaca e lo scalpore che creò. Fece riemergere una Roma sottoproletaria, che viveva di espedienti in condizioni di estremo degrado e che avevamo tutti dimenticato: morto Pasolini, avevamo voluto credere alla favoletta progressista che – smantellate le baraccopoli più note e visibili – l’umanità che ci viveva si fosse come per incanto trasformata, “risanata” anch’essa dal pur meritorio intervento urbanistico, senza la necessaria azione delle politiche sociali.

Soprattutto, però, la stampa, e in particolare i quotidiani romani, si gettarono sul fatto di cronaca. “Efferato” era l’aggettivo di prammatica. Il colpevole, reo confesso, fu catturato sùbito. E raccontò dettagli assolutamente grand-guignoleschi sulla lenta esecuzione del delitto: catene, gabbie, amputazioni, shampoo per cani, cocaina, cauterizzazioni. Ai cronisti non parve vero: ci sguazzarono allegramente, nascondendosi dietro il dito del “dovere di cronaca” e la foglia di fico della presa di distanza moralistica.

Come sempre accade, la prima notizia (e la prima impressione) sono quelle che si radicano. Non ricordo niente delle indagini, dell’autopsia della vittima, della certezza che le cose peggiori che c’erano state raccontate (e che per primo aveva raccontato il colpevole, forse offuscato dalla cocaina, forse per costruirsi come assassino “più grande del vero” per darsi una dimensione epica e meglio venire a patti con il suo gesto) erano lesioni post mortem, secondo la perizia medico legale. Il colpevole ha scontato la pena e ha chiesto – giustamente – di essere dimenticato.

Garrone ha detto che il suo film non parla del Canaro della Magliana. Per quanto l’ispirazione del fatto di cronaca sia innegabile (secondo me, almeno), Garrone dice il vero: il suo film racconta un ambiente e le sue conseguenze sulle persone che lo abitano, nella tradizione del grande romanzo naturalistico francese; e la vicenda di un uomo buono che, in questo contesto impoverito, viene portato al suo punto di rottura senza che nessuno voglia o possa intervenire a dargli una mano.

Perché le zebre sono bianche e nere?

Non certo perché juventine: per esserlo dovrebbero essere anche gobbe, e dunque un incrocio tra zebre e gnu. In questa foto si vede bene la differenza.

File:Gnu zebre.jpg
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Gnu_zebre.jpg
Attribution: Esculapio [CC BY-SA 3.0]

La risposta che viene sùbito in mente è che le strisce rendono più facile sfuggire ai predatori: un carattere di sopravvivenza differenziale che si consolida evoluzionisticamente. L’ha scritto lo stesso Darwin: “The zebra is conspicuously striped”. Osservazione acuta! E anche un po’ idiota: le strisce bianche e nere possono forse avere una funzione mimetica nella taiga artica o nei pioppeti in riva al Po, ma le zebre vivono nella savana o nel bush, dove di alberi ce ne sono pochini (si vede bene nella foto qui sopra). Quindi le strisce bianche e nere, in quell’ambiente, rendono le zebre particolarmente cospicue, ai turisti dei safari come ai predatori. D’altro canto, se dipingiamo le strisce pedonali in bianco e nero è perché sono ben visibili, no?

Inoltre, per fortuna delle zebre pare che leoni e iene le percepiscano essenzialmente come grigie, a meno che non siano molto vicine. Secondo Amanda Malin dell’Università di Calgary [Melin AD, Kline DW, Hiramatsu C, Caro T (2016) Zebra Stripes through the Eyes of Their Predators, Zebras, and Humans. PLoS ONE 11(1): e0145679. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0145679%5D, gli esseri umani con una acuità visiva perfetta (10 decimi) possono distinguere le strisce dei fianchi delle zebre da circa 180 metri di distanza. Al contrario, i leoni possono farlo solo a 80 metri e le iene a 48. Questo in pieno giorno e in condizioni di visibilità favorevole. La dimensione delle strisce influisce su questi risultati: le strisce più sottili (come quelle sulle zampe o quelle della zebra di Grevy) sono meno visibili. Quando c’è poca luce, all’alba e al tramonto, leoni e iene possono distinguere le striature solo a 46 metri e 26 metri, rispettivamente.

Un’altra ipotesi è che le zone nere si scaldino più rapidamente delle fasce bianche, e quindi creino una microcircolazione d’aria che rinfresca l’animale. Aria condizionata per zebre: mica male.

Figure 1
https://www.nature.com/articles/s41598-018-27637-1/figures/1

Però nemmeno questo è vero, secondo le ingegnose misurazioni sperimentali effettuate da Horváth e dai suoi colleghi [Horváth, Gábor, Ádám Pereszlényi, Dénes Száz, András Barta, Imre M Jánosi, Balázs Gerics, and Susanne Åkesson. 2018. “Experimental Evidence That Stripes Do Not Cool Zebras.” Scientific Reports8 (1): 9351. doi:10.1038/s41598-018-27637-1].

Avrete capito che ci siamo addentrati su un terreno scientifico poco noto ma affascinante e dibattuto. Secondo Horváth sono state proposte almeno 18 possibili spiegazioni del perché le zebre abbiano le strisce, che possono essere ricondotte a quattro gruppi:

  1. disorientare i predatori attraverso il mimetismo
  2. regolare la temperatura corporea
  3. facilitare le relazioni sociali
  4. ostacolare l’attacco degli insetti.

Scartate le prime due ipotesi, valeva la pena di esplorare la quarta, apparentemente la più bizzarra. Lo ha fatto Tim Caro (uno degli autori del primo articolo che abbiamo citato). Le zebre sono particolarmente esposte al morso dei tafani e delle mosche tse-tse: hanno il pelo corto – più corto di quello delle antilopi, ad esempio – il che le lascia esposte al morso degli insetti, che riescono a penetrarne la pelliccia per raggiungere la pelle e i vasi sanguigni sottostanti. Per di più, tafani e mosche tse-tse sono vettori di malattie gravi e potenzialmente mortali: la tripanosomiasi (o malattia del sonno, la peste equina africana e l’influenza equina.

Allora, Tim Caro è andato in Inghilterra, a Hill Livery, dove ci sono numerose cavalli e zebre in cattività. Osservando e filmando questi animali, ha constatato che i tafani avevano maggiori difficoltà a posarsi sulle zebre. Non avevano problemi a trovare le zebre e ad avvicinarsi, ma non riuscivano ad atterrare. “Un quarto degli atterraggi rispetto ai cavalli”, secondo Caro. Come ulteriore esperimento, Caro ha provato a mettere ai cavalli una coperta zebrata: anche in questo caso gli insetti – confusi – non riuscivano a posarsi sulle parti coperte, a differenza che sulla testa o le zampe. Le riprese video mostrano che le mosche “mancano” l’atterraggio, andando a sbattere sui fianchi degli animali o sorvolandoli senza fermarsi [la mia fonte è un articolo di Ed Yong, The Surprising Reason Zebras Have Stripes, pubblicato su The Atlantic il 20 febbraio 2019].

The Surprising Reason Zebras Have Stripes, cit. La foto è di Tim Caro

Insomma, le mosche subirebbero lo stesso effetti di disorientamento di cui abbiamo parlato di recente, su questo blog, a proposito delle lucertole, delle vetture di Formula 1 e delle navi militari.

Il corriere – The Mule

Il corriere – The Mule (The Mule), 2018, di Clint Eastwood, con Clint Eastwood.

Clint Eastwood in The Mule (2018)
imdb.com

Clint Eastwood. Non il suo miglior film. Ma che diamine, ha quasi novant’anni, come il protagonista di questa storia, Earl Stone, un vivaista che ha trascurato la sua famiglia, che si ritrova un fallito e si imbarca in una tardiva carriera da corriere della droga (e in una tardiva riscoperta della famiglia).

Un altro film ispirato a una storia vera e un altro film on the road, come Green Book, che ho recensito qui.

Siamo di fronte a una ricapitolazione di tutto quello che fa di Clint Eastwood (il regista) Clint Eastwood: l’orgoglio americano, i valori americani (di destra: chiama negri i negri, che vorrebbero essere chiamati neri o meglio ancora persone, e va a mignotte – due alla volta – senza battere ciglio), il buonsamaritanismo americano, i buoni sentimenti, i soldi guadagnati a qualunque costo, l’indipendenza delle opinioni e dei comportamenti messa al di sopra di tutto, a costo di essere emarginato dalla moglie e dalla figlia, di essere pestato e minacciato di morte, di farsi condannare all’ergastolo.

Si salva con un bel po’ di autoironia, fino al punto da ispirare il personaggio di Earl Stone anche a un personaggio dei cartoni animati inventato da Ted Avery: il cane Droopy, dall’aria assonnata ma intelligente e astuto. Non lo dico io. Guardate qui.

Dato che non mi lascia incorporare l’intervista a IMDb, provo a mettere il cartone citato, Out-foxed del 1949.

https://www.dailymotion.com/video/x4hp5jd

Tra gli attori, oltre alla figlia di Eastwood Alison (che interpreta la figlia di Stone, Iris), vediamo con piacere alcune vecchie glorie come Laurence Fishburne (il Morpheus di Matrix) e Andy Garcia (che fa, tanto per cambiare, il gangster).

Film piacevole, ma non un must.

Morirò di attacco cardiaco, temo

Alcuni ricercatori dell’Harvard Medical School (tra i quali uno, Andrea Farioli, che a giudicare dal nome è italiano o di origine italiana) hanno pubblicato l’ennesimo articolo che associa forma fisica e rischio di attacco cardiaco (Yang J, Christophi CA, Farioli A, et al. “Association Between Push-up Exercise Capacity and Future Cardiovascular Events Among Active Adult Men.” JAMA Netw Open. 2019;2(2): e188341. doi:10.1001/jamanetworkopen.2018.8341). Quello che è interessante è che propongono un test molto semplice per valutare il rischio di attacco cardiaco fondato su un “semplice” esercizio. Semplice da realizzare per fare uno screening di massa della popolazione, e anche facile da fare a casa somministrandoselo da soli, ma per nulla semplice per chi lo deve fare (almeno nel mio caso).

Three men doing plank pushups on each other.
REUTERS/EDGAR SU, via qz.com

Il test è questo: si prende un metronomo (lo so, non ce lo abbiamo tutti, ma è facile simularlo con uno smartphone) e lo si mette a 80 toc al minuto. Poi si fa una flessione (push-up) a ogni toc fino a raggiungere le 80, oppure fino a quando se ne mancano 3 o più, o più semplicemente non ce la si fa più.

I ricercatori lo hanno fatto seguendo per dieci anni (dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2010) 1.102 pompieri dell’Indiana, e seguendone la storia medica durante l’esperimento. Quelli che ce la facevano sistematicamente a completare almeno 40 flessioni – rispetto a quelli che ne completavano meno di 10 – hanno avuto una riduzione (statisticamente significativa) del 96% dell’incidenza di eventi cardiovascolari gravi.

I pompieri dell’Indiana sono più giovani e più in forma di me. Ma guardo con molta preoccupazione al futuro…

Nuovi multipli di 10 per i big data

L’ufficio internazionale dei pesi e delle misure (BIPM) con sede a Parigi propone due nuovi nomi per multipli (e sottomultipli) di 10 molto grandi (o molto piccoli). L’estensione si rende necessaria per l’esplosione dell’informazione e dei big data. Si tratta di prefissi da far precedere alle unità di misura del sistema metrico decimale (più esattamente il sistema internazionale di unità di misura – SI – Système international d’unités) per denotarne i multipli e sottomultipli.

Sembra complicato, ma lo facciamo quotidianamente: l’unità di misura di lunghezza è il metro (m). Per indicare mille metri, aggiungiamo il prefisso   chilo- e scriviamo per esteso chilometro e abbreviamo in simbolo con km; analogamente, per indicare un centesimo di metro aggiungiamo il prefisso centi- e abbreviamo con cm in simbolo.

I nuovi simboli proposti dal BIPM sono ronna- e quecca- come prefissi per 1027 e 1030, mentre ronto- e quecto- si applicano ai corrispondenti sottomultipli (10-27 e 10-30).

La proposta non è stata ancora approvato e non entrerà in vigore prima del 2022. Era dal 1991 che non venivano introdotti nuovi prefissi.

Fonte della notizia è Science: Adam, David. “Metric prefixes sought for extreme numbers.” Science. 15 febbraio 2019 (VOL 363, ISSUE 6428).

Green Book

Green Book (Green Book), 2018, di Peter Farrelly, con Viggo Mortensen, Mahershala Ali, Linda Cardellini.

Viggo Mortensen and Mahershala Ali in Green Book (2018)
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Non so se questo è quello che adesso si chiama dramedy. So che tratta con estrema leggerezza un argomento difficile e drammatico, quello della segregazione razziale nel sud degli Stati Uniti all’inizio degli anni Sessanta.

Ci sono momenti molto divertenti, che ne alleggeriscono alcuni drammatici. Nel complesso, la vicenda è un crescendo di emozione e di tensione, ma il confronto tra i due protagonisti e le figure tracciate dagli attori (soprattutto da Viggo Mortensen, ma anche Mahershala Ali è bravissimo) garantiscono il sorriso, nonostante qualche caduta nel caricaturale.

Viggo Mortensen è incredibilmente bravo, al limite del virtuosismo. Chi lo ricorda soprattutto per il ruolo di Aragorn (figlio di Arathorn) nella trilogia del Signore degli anelli stenterà a riconoscerlo. Anche ingrassato, invecchiato e spelacchiato, la sua prova è superlativa.

Per chi, come me, ha visto il film in versione originale con i sottotitoli (al Nuovo Sacher di Roma), è ancora più sorprendente che Mortensen – nato a Manhattan da padre danese, e con doppia cittadinanza statunitense e danese – reciti con tanta maestria con uno spiccato accento italo-americano.

Bellissima la colonna sonora.

Anche questo è un film da vedere.

Albert-László Barabási – The Formula: The Universal Laws of Success

Barabási , Albert-László (2018) – The Formula: The Universal Laws of Success. New York NY: Little, Brown and Co. ISBN: 9780316505475. Pagine 321. 9,99 €.

The Formula: The Universal Laws of Success (English Edition) di [Barabási, Albert-László]
amazon.it

Seguo Barabási da quando uscì Linked nel 2003 (il libro mi era piaciuto tantissimo, e ha ispirato un mio duraturo interesse per la network analysis e anche qualche sua applicazione scientifica e analitica). Con un po’ meno di entusiasmo, ma sempre con molto interesse, avevo poi letto Bursts: l’ho recensito qui, dove do conto delle mie perplessità.

Se possibile, questo The Formula mi ha lasciato ancora più perplesso. Barabási e il suo gruppo studiano la scienza del successo (anzi, the Science of Success: proprio così, maiuscole e tutto, e senza nemmeno scoppiare a ridere sùbito dopo). E il libro presenta i risultati cui sono pervenuti: niente meno che le leggi universali del successo. Scusate se è poco.

In effetti, Barabási dice di rifuggere dagli aneddoti e di volersi distaccare dagli innumerevoli libri di self-help che affollano gli scaffali di management delle librerie. È proprio convinto di avere scoperto cinque leggi scientifiche, universali. Ma poi racconta, racconta… Certamente bene: Barabási ha talento per questo. E le leggi le espone, e le commenta, e le arricchisce di aneddoti spesso gustosi. Racconta le ricerche fatte da lui e dal suo gruppo; racconta il quando e il come dei momenti “eureka”, le false partenze e il lieto fine. Quello che non ho trovato è la “divulgazione” o, meglio, la “comunicazione della scienza”. Le 5 leggi universali sembrano davvero “consigli” da libro di self-help, e non leggi scientifiche. E – anche se in nota ci sono riferimenti alla letteratura scientifica a sostegno di queste tesi – la trattazione è esortativa, se non “motivazionale”.

A questo punto vi sarete incuriositi. Eccovi le cinque leggi:

  • Performance drives success, but when performance can’t be measured, networks drive success.
  • Performance is bounded, but success is unbounded.
  • Previous success x fitness = future success.
  • While team success requires diversity and balance, a single individual will receive credit for the group’s achievements.
  • With persistence success can come at any time.

Una curiosità: non sapevo che tandem in inglese si potesse usare anche per più persone, non soltanto due (“[…] six key collaborators: […] They work in tandem” – p. 178)

Barabási è bravo e quindi, nonostante tutto, il libro è ricco di spunti interessanti:

Seemingly, it’s the last person who makes a discovery that really matters, not the first. (p. 24)

Context matters when we assess value. (p. 60)

The Duchampian reality is that these cues shape our perception, frame our understanding, and set the market price. (p. 62)

[…] the bigger the team was, the more lopsided were the individual contributions to the final product. […] The more they were dominated by a single leader, the more successful they were. (p. 184; il corsivo è dell’autore)

[…] female economists pay an enormous penalty for collaborating. To be clear, men pay no price for collaborative work. They can work alone, in partnerships, or in groups, and their chances of tenure will remain the same. Women, on the other hand, collaborate at their own peril. From a tenure perspective, if you’re a female economist publishing with men, you might as well not publish at all. (p. 214; i corsivi sono dell’autore)

Success wanes because everything ages, falling victim to an “attention economy.” (p. 238)

Un meteorite colpisce la luna durante l’eclissi

Durante l’eclissi del 21 gennaio un piccolo meteorite ha colpito la luna, secondo un articolo di Chris Baraniuk pubblicato da NewScientist il 22 (A meteorite hit the moon during Monday’s total lunar eclipse).

The meteorite impact caused a bright flash, indicated by the arrow
Jose M. Madiedo

Il fenomeno è stato osservato altre volte, ma mai durante un’eclissi. Jose Maria Madiedo dell’Università di Huelva in Spagna lo ha confermato e ha pubblicato un filmato che lo documenta. L’impatto è avvenuto alle 4:41:38 UCT. Secondo le prime stime il meteorite pesava un paio di kg (sulla Terra al livello del mare, suppongo) ed era grosso come un pallone da calcio.

Jose M. Madiedo

Le strisce delle lucertole

Gopal Murali, dottorando all’Indian Institute of Science Education and Research di Thiruvananthapuram, ha studiato come gli animali in movimento – e in particolare le lucertole – abbiano colorazioni e “fantasie” che rendono più facile sfuggire ai predatori: un carattere di sopravvivenza differenziale che si consolida evoluzionisticamente.

Lizards-stripes-motion-dazzle-science
Kris Kelley/Wikimedia Commons, CC BY-SA 3.0

L’articolo “An Indian researcher uncovered why some lizards have stripes and others don’t” è stato scritto da Akshai Jain e pubblicato da Quartz India il 21 gennaio 2019.

Che certi disegni geometrici rendano più difficoltoso individuare la posizione e la velocità di un oggetto è noto da tempo.

Durante la Prima guerra mondiale lo zoologo britannico John Graham Kerr suggerì a Winston Churchill di dipingere a strisce le navi da guerra per renderne più difficile l’individuazione e il siluramento da parte dei sommergibili tedeschi. Churchill non gli diede retta, ma gli americani sì. Qui sotto vedete la SS West Mahomet con una bella livrea cubista.

Bureau of Ships Collection in the US National Archives/Wikimedia Commons/Public domain

Più di recente, nel 2015 la scuderia di Formula 1 Red Bull ha usato uno stratagemma simile per rendere più difficile copiare le caratteristiche aerodinamiche della carrozzeria.

Michael Elleray/Wikimedia Commons, CC BY 2.0

Le strisce disorientano il predatore e spostano la sua attenzione sulla coda, che le lucertole possono perdere senza troppo danno (come ben sanno i gatti e i monellacci).

I maschi delle rane che vivono in città sono più attraenti

I maschi delle rane che vivono in città fanno un richiamo per l’accoppiamento più complesso di quello dei maschi della stessa specie che vivono nella foresta, e questo li rende molto più attraenti per le femmine.

tungara frog
Olivier DIGOIT / Alamy Stock Photo

Sam Wong su NewScientist (qui l’articolo) spiega il perché: l’ambiente urbano è più rumoroso, e farsi sentire e capire più difficile.

Giudicate voi stessi la differenza tra i due richiami (entrambi bellissimi.

Verso del maschio della rana Tungara nella foresta pluviale di Panama.

http://www.newscientis.com

Verso del maschio della rana Tungara nella città di Panama.

http://www.newscientis.co

La ricerca è stata pubblicata su Nature: Nature Ecology & Evolution, DOI: 10.1038/s41559-018-0751-8