Jethro Tull – 7 novembre 2019 (e 1° febbraio 1971 o 31 gennaio 1972 o 20 marzo 1973)

Un concerto piuttosto brutto, a mio modesto parere.

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Ralf Schulze (rs-foto.de) [CC BY-SA 3.0]

Jethro Tull – o meglio Ian Anderson – ha deciso di celebrare i 50 dalla fondazione del gruppo (1967) con una tournée.

Problemi: il primo e principale è che i JT sono stati un gruppo eclettico, che ha cambiato molte volte genere nel lungo periodo di attività. Wikipedia dice che hanno iniziato suonando blues rock e jazz fusion, evolvendosi verso l’hard rock e il folk rock. Poi hanno avuto una (tardiva) fase prog, protrattasi fino al 1976-77 (ben dopo l’inizio del punk: i Ramones nascono nel 1974 e i Sex Pistols l’anno dopo). A quel punto io avevo già smesso di seguirli, ma Wikipedia ci racconta che hanno continuato a vagare, prima verso il folk, poi verso l’elettronica, ancora l’hard rock e persino la world music. Riassumere in un concerto di un paio d’ore tutta questa roba non è certo facile. Tanto più che, direi, il pubblico del concerto romano era grosso modo mio coetaneo (e infatti nell’intervallo si è di nuovo verificato il curioso fenomeno delle file ai bagni maschili più lunghe che a quelli femminili, che avevo già notato in un concerto dei King Crimson) e quindi legato al periodo che va da Stand Up a A Passion Play, passando per Benefit, Aqualung e Thick as a Brick. Cioè, per capirci, dal 1969 al 1973.

Il secondo, legato a questo, è che i JT hanno cambiato formazione una miriade di volte, con la sola costante di Ian Anderson. Ed è così anche ora: la band è costituita da quattro giovanotti, sconosciuti anche se tecnicamente rispettabili, più il solito Ian Anderson. Band, peraltro, costituitasi dal nulla in occasione della tournée, fortemente voluta, come abbiamo detto, proprio da Ian Anderson.

Terzo: tournée è la parola giusta se la definiamo, con il Vocabolario Treccani, come una “serie di spettacoli o di esecuzioni musicali effettuata da compagnie teatrali o di rivista, o da singoli artisti, in varie località secondo un itinerario e un programma stabiliti”, ma non se ce la immaginiamo come una serie di concerti che cambiano – quanto meno dei dettagli – a seconda dei tempi, dei luoghi e delle circostanze. Per i concerti, soprattutto per quelli jazz o rock, ma in misura minore anche per quelli di musica “colta” o “seria” o “classica” (o chiamatela come vi pare, che tanto nessuna di queste etichette è difendibile), io mi aspetto cambiamenti della scaletta, improvvisazioni, o almeno diversi accenti nelle interpretazioni. Qui, niente di tutto questo. La scaletta è fissa, scandita com’è dagli intermezzi audiovisivi, peraltro piuttosto stucchevoli, accompagnati dalla recitazione enfatica solito Ian Anderson.

E qui siamo all’ultimo punto, forse decisivo. Non era la prima volta che sentivo dal vivo i Jethro Tull. Li avevo sentiti a Milano, in uno dei tre concerti che fecero tra il 1971 e il 1973, probabilmente nell’ultimo. Ma il fatto che non riesca neppure a ricordare né la data esatta né che cosa avessero suonato la dice lunga. Ricordo soltanto, e benissimo, che ero rimasto negativamente impressionato dagli atteggiamenti da guitto di Ian Anderson, un po’ buffoneschi, un po’ volgari, un po’ da vaudeville. E che me ne ero tornato a casa molto deluso: e che diamine, allora pensavo che il rock e il prog fossero una cosa seria, da ascoltare e apprezzare senza troppi fronzoli (mi infastidivano anche gli eccessi e le fumisterie di Emerson Lake & Palmer, se è per questo). E, per la verità, lo penso ancora.

E così, il concerto è finito che non avevo più voglia di sentire quella musica e avevo già guardato di nascosto l’orologio nella speranza che la smettessero… Un giudizio negativo senza appello.

Crimson ProjeKCt – 1° aprile 2014

I Crimson ProjeKCt non sono una tribute band, ma sono – quanto meno al 50% – un pezzo di storia dei King Crimson: ne fanno parte Adrian Belew (attivo nella band dal 1981 al 2013), Tony Levin (dal 1981 all’attuale annunciato ottavo line-up) e Pat Mastellotto (dal 1994 a oggi). Completano il quadro alcuni talenti (relativamente) giovani: il chitarrista Markus Reuter, la bassista Julie Slick e il batterista Tobias Ralph. Il gruppo si configura così come un doppio trio (una formula già sperimentata dai King Crimson nel periodo 1994-1997) e in effetti risulta composto dal trio capeggiato da Adrian Belew (Adrian Belew Power Trio) e da quello guidato da Tony Levin (The Stick Men): durante il concerto i due trii suonano, separatamente, parte del loro repertorio.

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Il concerto è stato bello e tirato (e pensare che sul palco e tra il pubblico prevalevano gli ultra-sessantenni: pochi i renziani presenti). La sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica si è dimostrato perfetta per la resa sonora, anche se il volume era molto alto e le luci a volte fastidiose. La scenografia – ma ci ho impiegato un po’ a capirlo – era una corona stilizzata: la corona del re Cremisi, decisamente.

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Peter Gabriel – Back to Front – 7 ottobre 2013

Un concerto di Peter Gabriel è sempre un evento, per la qualità del musicista e dei gruppi che riesce a mettere insieme, ma anche per la cura della musica, degli arrangiamenti e dello spettacolo. Per me è stata la quarta volta, e prometto di raccontarvi le altre occasioni e anche di come sono diventato, assai tardivamente, un ammiratore di PG (si dice così, ma non esprime bene il mio rapporto con l’uomo e la sua musica).

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Avevo un’occasione speciale da festeggiare e per questo ho comprato, per me e mia moglie, un pacchetto vip. Il che, in parole povere, significa che arriviamo al Forum di Assago quasi 6 ore prima del concerto e assistiamo alle prove e al sound-check. Saremo stati in 40, seduti su 5 file di sedie a ridosso del palco. L’acustica non era certo delle migliori (un palazzetto dello sport di cemento, quando è vuoto, rimbomba di echi soprattutto sulle frequenze più alte, rimandando alle tue spalle una sorta di bordone metallico) ma il processo delle prove è davvero interessante, non poi così diverso (per chi ha avuto occasione di seguirle) dalle prove di un concerto classico, con il direttore che spiega che cosa vuole esattamente e che cosa si può migliorare. Il resto – le photo-opportunity alla fine del sound-check e una specie di happy hour nella saletta vip – si può tranquillamente dimenticare.

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