Un concerto piuttosto brutto, a mio modesto parere.

Ralf Schulze (rs-foto.de) [CC BY-SA 3.0]
Jethro Tull – o meglio Ian Anderson – ha deciso di celebrare i 50 dalla fondazione del gruppo (1967) con una tournée.
Problemi: il primo e principale è che i JT sono stati un gruppo eclettico, che ha cambiato molte volte genere nel lungo periodo di attività. Wikipedia dice che hanno iniziato suonando blues rock e jazz fusion, evolvendosi verso l’hard rock e il folk rock. Poi hanno avuto una (tardiva) fase prog, protrattasi fino al 1976-77 (ben dopo l’inizio del punk: i Ramones nascono nel 1974 e i Sex Pistols l’anno dopo). A quel punto io avevo già smesso di seguirli, ma Wikipedia ci racconta che hanno continuato a vagare, prima verso il folk, poi verso l’elettronica, ancora l’hard rock e persino la world music. Riassumere in un concerto di un paio d’ore tutta questa roba non è certo facile. Tanto più che, direi, il pubblico del concerto romano era grosso modo mio coetaneo (e infatti nell’intervallo si è di nuovo verificato il curioso fenomeno delle file ai bagni maschili più lunghe che a quelli femminili, che avevo già notato in un concerto dei King Crimson) e quindi legato al periodo che va da Stand Up a A Passion Play, passando per Benefit, Aqualung e Thick as a Brick. Cioè, per capirci, dal 1969 al 1973.
Il secondo, legato a questo, è che i JT hanno cambiato formazione una miriade di volte, con la sola costante di Ian Anderson. Ed è così anche ora: la band è costituita da quattro giovanotti, sconosciuti anche se tecnicamente rispettabili, più il solito Ian Anderson. Band, peraltro, costituitasi dal nulla in occasione della tournée, fortemente voluta, come abbiamo detto, proprio da Ian Anderson.
Terzo: tournée è la parola giusta se la definiamo, con il Vocabolario Treccani, come una “serie di spettacoli o di esecuzioni musicali effettuata da compagnie teatrali o di rivista, o da singoli artisti, in varie località secondo un itinerario e un programma stabiliti”, ma non se ce la immaginiamo come una serie di concerti che cambiano – quanto meno dei dettagli – a seconda dei tempi, dei luoghi e delle circostanze. Per i concerti, soprattutto per quelli jazz o rock, ma in misura minore anche per quelli di musica “colta” o “seria” o “classica” (o chiamatela come vi pare, che tanto nessuna di queste etichette è difendibile), io mi aspetto cambiamenti della scaletta, improvvisazioni, o almeno diversi accenti nelle interpretazioni. Qui, niente di tutto questo. La scaletta è fissa, scandita com’è dagli intermezzi audiovisivi, peraltro piuttosto stucchevoli, accompagnati dalla recitazione enfatica solito Ian Anderson.
E qui siamo all’ultimo punto, forse decisivo. Non era la prima volta che sentivo dal vivo i Jethro Tull. Li avevo sentiti a Milano, in uno dei tre concerti che fecero tra il 1971 e il 1973, probabilmente nell’ultimo. Ma il fatto che non riesca neppure a ricordare né la data esatta né che cosa avessero suonato la dice lunga. Ricordo soltanto, e benissimo, che ero rimasto negativamente impressionato dagli atteggiamenti da guitto di Ian Anderson, un po’ buffoneschi, un po’ volgari, un po’ da vaudeville. E che me ne ero tornato a casa molto deluso: e che diamine, allora pensavo che il rock e il prog fossero una cosa seria, da ascoltare e apprezzare senza troppi fronzoli (mi infastidivano anche gli eccessi e le fumisterie di Emerson Lake & Palmer, se è per questo). E, per la verità, lo penso ancora.
E così, il concerto è finito che non avevo più voglia di sentire quella musica e avevo già guardato di nascosto l’orologio nella speranza che la smettessero… Un giudizio negativo senza appello.