Perché non ci sono molti economisti al governo? Perché tutti li odiano!

Il quotidiano online Salon si chiede, in un articolo pubblicato il 18 febbraio 2013 a firma di Alex Pareene (Why don’t people want to elect economists to run stuff? Because everyone hates them), perché non siano molti gli economisti che guidano o fanno parte di un esecutivo, soprattutto in tempi di crisi, e si dà la risposta che leggete nel titolo. E poi articola la sua analisi.

Because honestly? This job is kind of a pain.
Italian Prime Minister (and economist) Mario Monti.
AP / washingtonpost.com

L’analisi di Pareene prende le mosse da uno studio di Mark Hallerberg e Joachim Wehner, che hanno pubblicato i loro risultati su Vox il 14 febbraio 2013 (The technical competence of economic policymakers). Anche se a prima vista appare ragionevole incaricare del governo dell’economia, soprattutto in tempi di crisi, un economista di vaglia (come Monti in Italia e Papademos in Grecia), questa soluzione è tutt’altro che frequente, non solo con riferimento ai Capi di governo, ma anche ai ministri dell’economia e delle finanze e ai governatori delle banche centrali. Ecco l’abstract dell’articolo su Vox di Hallerberg e Wehner, se non vi va di leggerlo integralmente al link che ho riportato sopra:

The appointments of Papademos in Greece and Monti in Italy in 2011 are examples of leadership changes meant to bring more competent people into government. This column aims at understanding why governments sometimes appoint economic policymakers with economics training but often do not. It suggests that levels of economics education among finance ministers are substantially higher in new democracies than in old ones and that the appointment of an economics PhD as a central bank president is 22% more likely during a banking crisis.

L’articolo completo, pubblicato da SSRN, si può scaricare in .pdf a partire da qui: The Technical Competence of Economic Policy-Makers in Developed Democracies.

Comparison of the economic training of economic policymakers / voxeu.org

Sempre il 18 febbraio 2013, sull’argomento interviene anche Brad Plumer, reporter del Washington Post, su un blog del suo quotidiano (Wonkblog) per chiedersi:

«Why aren’t more countries run by economists?»
«Why governments sometimes appoint economic policymakers with economics training but often do not?»

Plumer non ha una risposta definitiva, ma sottolinea alcune conclusioni del paper di Hallerberg e Wehner:

  1. Sono le giovani democrazie dell’Europa dell’Est, più del club dei padri fondatori dell’Unione europea, ad avere una più elevata propensione a collocare degli economisti a capo dei governi, dei ministeri economici e delle banche centrali
  2. Gli Stati membri dell’Eurozona, al contrario, sono particolarmente restii a fare questa scelta («We had presumed that membership in an economic union, in particular the Eurozone, would increase the demand for more competent economic policymakers», scrivono i due).
  3. La probabilità di vedere un economista di professione alle leve del comando aumenta sensibilmente in tempi di crisi, e questo era abbastanza prevedibile.
  4. Ma anche quando hanno la maggioranza partiti o coalizioni di sinistra (per tranquillizzare i mercati, ipotizza Brad Plumer).

Sì, ma poi – ci chiediamo tutti, immagino – avere un economista al timone conduce a risultati migliori di quelli che si ottengono quando al timone c’è uno Schettino qualunque?

Hallerberg e Wehner rispondono in modo paludato e sibillino, come si confà a degli economisti accademici: «The truth of such assertions is – at least on average – an empirical question. After all, it is not a priori clear that technical competence in itself is a desirable trait.»

Brad Plumer è un po’ più coraggioso ed esplicito (ma la sua è una spiegazione che, sia pure in modo più cauto, avanzano anche Hallerberg e Wehner): i ranghi della tecno struttura dei ministeri economici e delle banche centrali sono già affollati di tecnici competenti. Potrebbe essere molto più importante per un leader essere un manager competente e dotato di saggezza politica che avere enormi capacità tecniche («It might be far more important for a leader to be a competent manager with political savvy than to have a lot of technical expertise»).  Le democrazie mature questo lo sanno, e preferiscono quelle vecchie volpi dei politici di professione…

Alex Pareene è più coraggioso e pensa di avere la risposta alla domanda: «Why aren’t more countries run by economists?«

Here’s why: Because everyone hates economists. Economists are the worst. They’re usually very convinced of their own genius, though. And they act like because they use math, their “science” is more sciencey than sociology or whatever, but it is still mostly just a bunch of made-up stuff. If a bunch of economists had been running the world prior to the 2008 financial crisis the 2008 financial crisis would not have been averted because almost no one predicted it.
But the most important reason there aren’t a ton of economist prime ministers is that economists disdain politics. Economists tend to get a great deal of pleasure out of loudly attacking very popular policies (higher minimum wage! tax code giveaways to the upper-middle-class!) and they generally talk about normal people as little mindless “economic units” or something awful and dehumanizing like that. Economists don’t want to “campaign” and convince people to vote for them, they just want to be appointed to positions of power by people who actually did shake a bunch of hands and tell people what they wanted to hear. An economist doesn’t want to be an elected official who answers to voters, because that sucks.
Conveniently, the researchers did not bother to answer the question of whether countries that put economists in charge of stuff actually have better economic outcomes. But the economist in charge of Europe’s central bank is currently purposefully imposing disastrous austerity on a bunch of countries that did not elect him, so really if you want to know why we don’t let economists run stuff look at Spain’s youth unemployment rate.

Eh sì, ce l’ha proprio con il nostro Mario Draghi…

salon.com

A me non pare che il Financial Times abbia fatto marcia indietro

Oggi, molti giornali italiani scrivono che – dopo la lettera al Financial Times di Mario Monti (che si firma in qualità di presidente del consiglio, e non di “candidato premier”, quale che sia il significato di quest’ultima espressione) – il quotidiano inglese avrebbe fatto marcia indietro (Italy’s crucial vote – FT.com).

123people.it

A me non pare, né nella forma né nella sostanza.

Non lo ha fatto nella forma, perché l’articolo di ieri era firmato da un editorialista (Wolfgang Münchau) mentre quello di oggi non è firmato e dunque attribuibile alla direzione (avendo avuto occasione di leggere in altre occasioni le opinioni di Münchau, non mi aspetto nessuna sua ritrattazione, né ora né mai).

Non nella sostanza, perché l’editoriale di oggi si limita a mettere in positivo ciò che ieri Münchau giudicava con scetticismo: che i due candidati credibili potenzialmente (Bersani e Monti, perché il giudizio su Berlusconi è negativo al limite dell’irrisione) hanno un mese di tempo per delineare una linea di politica economica credibile. Giudicate da soli:

Pier Luigi Bersani, candidate for the centre-left Democrats, and Mario Monti, who is heading a centrist coalition, both have personal credibility. […]
However, neither leader has yet to set out a convincing economic vision for the country. The Democrat leader has to prove he will not be taken hostage by the leftwing of his party, which opposes reforms to an inefficient labour market. Mr Monti is right to argue for tax cuts but must spell out where he will find the savings needed to deliver them.
With a strong, export-oriented manufacturing sector and a highly educated labour force, Italy has the potential to return to sustainable growth. Mr Monti and Mr Bersani should use next month’s vote to make the case for a fresh start. This will allow voters to make a real choice about Italy’s future.

Pier Luigi Bersani, candidato per i Democratici di centro-sinistra, e Mario Monti, che guida la coalizione centrista, hanno entrambi credibilità personale. […]
Tuttavia, nessuno dei due ha ancora delineato una visione economica convincente. Il leader democratico deve provare che non si darà prendere ostaggio dall’ala sinistra del partito, che si oppone alle riforme dell’inefficiente mercato del lavoro italiano. Monti ha ragione a proporre tagli delle tasse ma deve dire chiaramente dove intende operare i risparmi che li renderebbero possibili.
Con un settore manifatturiero forte e orientato alle esportazioni e una forza lavoro altamente istruita, l’Italia ha il potenziale per tornare a una crescita sostenibile. Monti e Bersani dovranno utilizzare il voto del mese prossimo per chiarire da dove intendono ripartire. Soltanto questo permetterà agli eklettori di operare una vera scelta sul futuro dell’Italia. [la traduzione è mia]

Quanto al giudizio su Berlusconi, mi sembra tutt’altro che compassato…

[…] Silvio Berlusconi, the plutocrat-cum-politician who is planning a comeback after taking his country to the edge of the fiscal precipice. Some elements of his election manifesto, such as steep cuts to government spending that would finance a reduction in business taxes, are sensible in principle. But we have heard it all before. In his nine years in power, Mr Berlusconi, the laughing cavalier, promised much but delivered nothing. Italians should not be beguiled again.

[…] Silvio Berlusconi, il plutocrate/politico che medita di tornare al potere dopo aver portato il suo paese sull’orla del precipizio fiscale. Alcuni elementi del suo manifesto elettorale – come la proposta di drastici tagli alla spesa pubblica per finanziare le tasse sulle imprese – sono condivisibili in linea di principio. Ma gliel’abbiamo già sentito dire. In nove anni al governo, Berlusconi, l’ilare cavaliere, ha promesso molto senza mantenere niente. Gli italiani non si devono far abbindolare di nuovo. [la traduzione è mia]

wikimedia.org/wikipedia/commons

Sul ruolo del parlamento, Monti ha ragione o torto?

Cercherò di rispondere alla domanda. Ma va da sé – e ad ogni buon conto lo ribadisco – che la mia risposta sarà personale e fortemente idiosincratica.

Il che non toglie che, in questa vicenda, ci sia più di un elemento oggettivo, che oggettivamente dunque – e non solo soggettivamente – può essere trattato.

Il primo elemento oggettivo è che, se non mi sbaglio e se non sono stato troppo superficiale, nella stampa italiana online è pressoché impossibile trovare il testo integrale dell’intervista rilasciata da Mario Monti a Der Spiegel. Un problema per chi, come me, non legge correntemente il tedesco. Si è costretti a fare riferimento alle sintesi pubblicate dai nostri quotidiani (per esempio, quella di La Repubblica è qui), che però non avevano ritenuto essenziale il passo che ha provocato tante reazioni. Per fortuna, Der Spiegel ha anche un’edizione inglese, in cui l’intervista è pubblicata integralmente (Interview with Italian Prime Minister Mario Monti | ‘A Front Line Between North and South’). Penso che Mario Monti non parli neppure lui correntemente il tedesco: perciò c’è qualche speranza che il testo inglese sia quello realmente originale, almeno per quanto riguarda le risposte di Monti.

Naturalmente, quando ieri (6 agosto 2012) si sono scatenate le reazioni tedesche (bipartisan) alle dichiarazioni di Mario Monti e le contro-reazioni italiane (altrettanto bipartisan), le pagine dei giornali si sono riempite della polemica, senza che si sentisse la necessità di (ri)proporre l’intervista ai lettori, possibilmente nella sua integrità.

E questa è la mia prima considerazione “oggettiva”: il governo Berlusconi è caduto, ma nei mezzi di comunicazione è rimasto il brutto vizio di dare più spazio alle reazioni, cioè alle dichiarazioni contro-dichiarazioni e prese di posizione delle diverse parti, che alla fonte alla base della polemica. L’effetto è che il lettore o spettatore – non essendosi potuto fare un’opinione di prima mano sull’oggetto del contendere – è automaticamente e inconsapevolmente portato a trovarsi d’accordo con lo schieramento d’appartenenza o di riferimento, che parla un linguaggio che gli suona familiare e immediatamente comprensibile. È un effetto di framing che non ha neppure bisogno di stabilire preliminarmente l’ordine del giorno del dibattito (agenda setting): si discute, semplicemente, su un oggetto assente, e ognuna delle parti “crea” il proprio oggetto secondo la propria convenienza (è quello che accade continuamente nelle cosiddette “trasmissioni di approfondimento”, in cui l’assenza di una materia condivisa di discussione consente di rendere di parte i fatti stessi, o la rappresentazione che – latitando i fatti – ne prende il posto). Qui è sparito il testo delle affermazioni di Monti, e ognuno lo ricostruisce come gli fa più comodo (come è più funzionale alla propria argomentazione) senza che nessuno dei giornalisti che raccolgono le “reazioni” si senta in dovere di chiedere: «Scusi, ma di che stiamo parlando, esattamente?». Italiani, non potendovi anch’io esortare alle storie, vi invito almeno a consultare le fonti. Nell’era dell’informazione non dovrebbe comportare uno sforzo sovrumano.

Secondo punto “oggettivo” e inquietante. In questa lunga e preoccupante crisi europea, non c’è maître à penser (italiano o d’oltralpe) che non ci abbia detto e autorevolmente ammonito che da questa crisi si esce in piedi soltanto se si costruisce più Europa, un’Europa oltre che monetaria anche bancaria e fiscale, e infine politica. Salvo poi, al minimo screzio, alla prima divergenza d’opinione, strepitare che noi italiani non prendiamo ordini di politica economica né lezioni di democrazia da nessuno. Al che osservo 2 cose:

  1. Che la costruzione dell’Europa come la vorremmo (o, quanto meno come la vorrei io), cioè come aggregazione di volontà politiche in direzione federalista, non potrà che passare attraverso compromessi, cessioni volontarie non soltanto di sovranità ma anche di convincimenti, consuetudini e istituzioni più o meno radicati. La politica, la politica democratica e liberale, si fa così. L’alternativa è una qualche forma di conquista imperiale e imperialistica, che l’Europa ha sperimentato fin troppe volte nella sua lunga storia, con conseguenze in genere disastrose per i popoli e le persone (sì, anche per i nostri avi quando comandavano i Romani: siete sicuri che se foste vissuti allora sareste stati ricchi patrizi e non poveri schiavi? e lo sapete che, in ogni caso, avreste goduto di un benessere, di possibilità di scelta e di prospettive di vita incomparabilmente minori di quelle che oggi considerate il minimo vitale?)
  2. Le lezioni di democrazia le possono dare tutti: è proprio questa l’essenza della democrazia. E non volersi far dare lezioni da nessuno, invece, è proprio tipico di un atteggiamento profondamente anti-democratico. E la finisco qui perché non mi va di essere predicatorio.
Mario Monti

spiegel.de

Veniamo piuttosto al passo incriminato dell’intervista di Mario Monti:

Monti: [… T]here are a few countries — and they lie to the north of Germany — who every time we have reached a consensus at the European Council (the EU body representing the leaders of the 27 member states) then say things two days later that call into question this consensus.

SPIEGEL: You are now referring to the Finns as well as others?

Monti: I can understand that they must show consideration for their parliament. But at the end of the day, every country in the European Union has a parliament as well as a constitutional court. And of course each government must orient itself according to decisions made by parliament. But every government also has a duty to educate parliament. If I had stuck to the guidelines of my parliament in an entirely mechanical way, then I wouldn’t even have been able to agree to the decisions that were made at the most recent (EU) summit in Brussels.

SPIEGEL: Why not?

Monti: I was given the task of pushing through euro bonds at the summit. If governments let themselves be fully bound by the decisions of their parliaments without protecting their own freedom to act, a breakup of Europe would be a more probable outcome than deeper integration. [i corsivi sono miei]

Qui, come annunciato, usciamo dal terreno “oggettivo” ed entriamo in quello delle opinioni personali e idiosincratiche. Ecco, secondo me la reazione tedesca a difesa del parlamentarismo è comprensibile, giusta e storicamente fondata. La reazione italiana sproporzionata e, come cercherò di spiegare, in una certa misura incostituzionale. Provo a spiegarmi. Il signore che vedete qui sotto è Hans Kelsen, un padre del diritto moderno.

Hans Kelsen

wikipedia.org

Kelsen è considerato il capostipite novecentesco della dottrina liberal-democratica del diritto su base giuspositivista. Nel 1920 Kelsen partecipò alla scrittura della Legge costituzionale federale per la Repubblica austriaca, che sarà poi un modello per la Legge fondamentale della Repubblica federale di Germania del 1949 e anche per la Costituzione della Repubblica italiana del 1946.

Per Kelsen, democrazia e parlamentarismo sono inscindibili:

La lotta combattuta alla fine del secolo XVIII ed al principio del XIX contro l’autocrazia fu essenzialmente una lotta in favore dell’istituto parlamentare, […] una costituzione che accorda alla rappresentanza popolare una parte decisiva nella formazione della volontà statale e mette fine alla dittatura del monarca assoluto o ai privilegi di un ordinamento giuridico per caste.

[… Il parlamentarismo è] formazione della volontà normativa dello Stato mediante un organo collegiale eletto dal popolo in base al suffragio universale ed uguale per tutti, cioè dunque democraticamente, secondo il principio della maggioranza.

[…] il principio della restrizione dei poteri governativi [è] il principio fondamentale del liberalismo politico. La democrazia moderna non può essere separata dal liberalismo politico. Il suo principio è che il governo non deve interferire in certe sfere di interessi proprie dell’individuo. [Hans Kelsen, La democrazia]

Per Kelsen, cioè, non si può «mettere seriamente in dubbio che il parlamentarismo non sia l’unica possibile forma reale in cui nella realtà sociale odierna possa attuarsi l’idea della democrazia.» Ne consegue che «la condanna del parlamentarismo [sarebbe] al tempo stesso la condanna della democrazia».

La cultura democratica e giuridica tedesca è fortemente impregnata del pensiero di Kelsen, che viene studiato non soltanto come un maestro della filosofia del diritto, ma anche come un padre della costituzione e un artefice della rinascita post-nazista e post-bellica. Non è un caso che Kelsen, ebreo di famiglia, sia dovuto fuggire davanti all’espansione del Reich millenario, prima da Colonia e poi da Praga.

Al pensiero di Hans Kelsen si era storicamente opposto, già all’inizio degli anni Trenta, quello di Carl Schmitt, per il quale il parlamento è legato a un sistema sostanzialmente oligarchico: «da teatro di una discussione libera e costruttiva dei liberi rappresentanti del popolo […] diventa il teatro di una divisione pluralistica delle forze sociali organizzate», mentre «le decisioni essenziali vengono prese fuori dal Parlamento.» [le citazioni di Carl Schmitt sono tratte da un articolo di Roberto Di Maria, “La vis expansiva del Governo nei confronti del Parlamento: alcune tracce della eclissi dello Stato legislativo parlamentare nel “ruolo” degli atti aventi forza di legge”].

Insomma, avete capito dove voglio andare a parare: in Italia nel dibattito politico (e implicitamente costituzionale) da oltre 20 anni, in nome della governabilità, ci si è allontanati dal quadro di riferimento kelseniano e avvicinati a quello schmittiano: si è cercato di risolvere il problema della frammentazione delle forze politiche rappresentate in parlamento abbandonando il sistema proporzionale (senza riflettere, se non tardivamente, che in Germania un sistema proporzionale ancorché con sbarramento ha garantito per 60 anni un bipartitismo pressoché perfetto); si è mutato l’equilibrio dei poteri a vantaggio dell’esecutivo e a scapito del legislativo (e, in prospettiva, del giudiziario); la stessa democrazia ha teso a perdere i caratteri di democrazia rappresentativa (come la intendeva Kelsen) per farsi democrazia identitaria (come la intendeva Schmitt).

Monti non è un giurista ma nemmeno uno sprovveduto. Non posso quindi pensare a una gaffe quando afferma che i governi non possono essere rigidamente vincolati alle decisioni dei parlamenti senza spazi di manovra (governments [cannot] let themselves be fully bound by the decisions of their parliaments without protecting their own freedom to act). Non di questo si tratta: i governi hanno questi spazi di manovra, ma devono riferirne e renderne conto ex post in parlamento, che in ultima istanza (e in ultima istanza solamente) ha l’arma della fiducia. E l’affermazione che i governi abbiano il dovere (assegnatogli da chi?) di educare i parlamenti (a duty to educate parliament) lo trovo peggio che insultante: manco i parlamenti fossero gattini da educare alla cassettina sfregandogli il nasino nella cacca.

E pensare che Monti aveva esordito, come presidente del consiglio dei ministri, richiamando le istituzioni europee a più metodo comunitario e meno decisioni del Consiglio europeo (che è composto dagli esecutivi degli Stati membri).

Sospetto, a questo punto, che Kelsen sia del tutto estraneo alla cultura e alla Weltanschauung di Monti: non per quel po’ d’ignoranza sugli altri campi del sapere che ogni specializzazione comporta, ma per il baratro che separa il Kelsen relativista nell’etica e “proceduralista” nella concezione della democrazia dal Monti legato al mondo cattolico e dunque diffidente verso ogni relativismo e portatore di valori “oggettivi”. Non penso sia un caso che Jacques Maritain, il filosofo cattolico caro a papa Montini, abbia scritto polemizzando proprio con Kelsen:

[N]on c’è tolleranza reale e autentica se non quando un uomo è fermamente e assolutamente convinto di una verità, o di quella che ritiene una verità, e quando, nel medesimo tempo, riconosce a quelli che negano questa verità il diritto di esistere e di contraddirlo, non perché siano liberi nei confronti della verità, ma perché cercano la verità a modo loro e perché rispetta in essi la natura umana e la dignità umana. [il corsivo è mio]

È in affermazioni come queste, temo, che Monti scopre il suo dovere di educare i parlamenti.