Aver suonato da piccoli aiuta ad apprezzare meglio la musica da grandi

Sono uno di quei genitori che ha imposto ai propri figli alcuni anni di lezioni di pianoforte. Anche se nessuno dei due ha proseguito gli studi oltre l’adolescenza, entrambi amano e apprezzano la musica.

Del resto, io stesso ho iniziato e poi abbandonato della musica e la mia storia l’ho raccontata qui.

Soldi buttati? Ho sempre pensato di no, ma adesso una ricerca scientifica offre sostegno alla mia opinione epidermica.

Trombone

smithsonianmag.com / Photo by Brian Ambrozy

Finora la maggior parte delle ricerche sugli effetti dello studio della musica sul funzionamento del cervello si erano concentrati sulla minoranza di individui che hanno iniziato a studiare musica da piccoli e hanno continuato da grandi, spesso diventando musicisti di professione.

Questi studi – tutti condotti da un gruppo della Northwestern University – avevano mostrato che l’educazione musicale comporta una serie di benefici nello sviluppo cerebrale: i musicisti appaiono in grado di distinguere meglio le parole in un ambiente rumoroso, di cogliere diverse emozioni all’interno di un discorso e di mantenere una buona acutezza nell’elaborazione dei suoni anche invecchiando.

Una nuova ricerca, pubblicata il 22 agosto 2012 sul Journal of Neuroscience (Skoe, Erika e Nina Kraus, A Little Goes a Long Way: How the Adult Brain Is Shaped by Musical Training in Childhood: purtroppo è necessario l’abbonamento per leggerlo integralmente), illustra come anche un’educazione musicale di 1-5 anni in giovane età si associ all’elaborazione di suoni complessi da adulti.

Anche in questo caso il gruppo della Northwestern University ha usato la tecnica applicata negli esperimenti citati in precedenza : esporre i soggetti a diversi suoni e misurare accuratamente i segnali elettrici della loro corteccia auditiva con elettrodi applicati al cuoio capelluto. Come avevano scoperto nelle ricerche precedenti, questi segnali elettrici cerebrali rispecchiano accuratamente le onde sonore udite e dunque, osservando i segnali di diversi partecipanti, è possibile determinare quanto ciascuno è abile nell’ascoltare e interpretare mentalmente i suoni. I soggetti venivano collocati in una cabina individuale, con una cuffia alle orecchie e vari elettrodi in testa, ed esposti a suoni polifonici complessi.

I 45 partecipanti all’esperimento sono stati divisi in 3 gruppi:

  1. quelli con 1-5 anni di studi musicali alle spalle (blu)
  2. quelli con 6-11 anni di istruzione (rosso)
  3. quelli senza educazione musicale (nero).

Per i primi 2 gruppi, l’età media di inizio degli studi musicale era di 9 anni.

Risultati

smithsonianmag.com
Musicians with more than six years experience (red) showed the greatest mental response to the tones, but those with one to five years (blue) still did better than those with none (black)
Image via Northwestern UniversityNina Kraus

Anche senza entrare nei dettagli tecnici, la figura mostra chiaramente che il gruppo dei musicisti più istruiti (in rosso nel grafico) manifesta la risposta mentale più grande, ma anche quelli con un’istruzione più limitata conseguono comunque una abilità cognitiva ben superiore a quella dei soggetti senza studi musicali di sorta. I ricercatori della Northwestern University sostengono che la risposta mentale misurata dall’esperimento corrisponde alla capacità di estrarre da un suono complesso la frequenza più bassa, e che questa abilità è fondamentale per la comprensione della musica, ma anche del parlato, in ambienti rumorosi.

Sono abbastanza pacifiche le conseguenze di policy che se ne possono trarre, sia per i programmi scolastici, sia per le scelte integrative dei genitori.

Ho trovato la notizia sullo Smithsonian Magazione: Playing Music as a Child Leads to Better Listening as an Adult | Surprising Science.

Un articolo che nega il rapporto tra HIV e AIDS: un aggiornamento

Abbiamo dato conto della vicenda in un post dal titolo “Una rivista scientifica italiana pubblica un articolo che nega il rapporto tra HIV e AIDS“.

Ora Nature (“Inquiry launched over AIDS contrarian’s teaching“) racconta ulteriori sviluppi della vicenda: l’Università di Firenze ha avviato un’indagine sul professor Ruggiero (quello che sostiene che l’AIDS si cura con lo yogurt probiotico, se avete letto la prima puntata).

L’8 febbraio 2012 HIVForum.info, un gruppo di pressione, ha scritto una lettera aperta in cui manifesta “estrema preoccupazione per la disattenzione con cui l’Università di Firenze appare affrontare le teorie insegnate e le attività poste in essere dal professor Marco Ruggiero, ordinario presso il Dipartimento di Patologia e Oncologia Sperimentali” sul tema “dell’HIV quale causa dell’AIDS.”

Mario Ruggiero

nature.com

Ben consapevoli della protezione che l’articolo 33 della Costituzione della Repubblica italiana offre alla libertà di ricerca e d’insegnamento, gli estensori della lettera aperta ritengono che “per non svilire l’importanza della libertà accademica, sia necessario che il metodo scientifico trovi sempre rigorosa applicazione” e informano di avere scritto al Rettore dell’Università di Firenze per chiedergli “di dissociare pubblicamente e nella maniera più netta l’istituzione da lui guidata da questa cattiva scienza.”

Secondo quanto afferma ora Nature, il rettore, dell’Università di Firenze prof. Alberto Tesi, ha dato risposta alla lettera il 29 febbraio, incaricando una commissione speciale interna di valutare “responsabilità e comportamenti nell’insegnamento” del biologo molecolare Marco Ruggiero.

Il portavoce dell’Ateneo Duccio Di Bari ha dichiarato a Nature che la commissione – che condurrà le sue audizioni a porte chiuse e che sanzionerà internamente ogni eventuale comportamento reprensibile – è formata da Elisabetta Cerbai (prorettore alla ricerca scientifica), Paola Bruni (professore ordinario di biochimica), Sergio Romagnani (professore emerito di immunologia) e Massimo Benedetti (responsabile dell’area ‘Affari generali, contenzioso e relazioni esterne’). La commissione “esaminerà se il comportamento del professor Ruggiero rispetta le linee-guida istituzionali sui contenuti dell’insegnamento e aderisce agli obiettivi del curriculum ufficiale delle scienze biologiche.” La conclusione dei lavori della commissione è attesa per il prossimo 15 aprile.

Dal canto suo, il professor Ruggiero si è dichiarato fiducioso nelle decisioni dell’ateneo fiorentino, simbolo della libertà di ricerca e d’insegnamento fin dai tempi di Galileo Galilei.

Verso una rivoluzione delle peer review?

Nell’ambito della ricerca scientifica [sto riprendendo quasi letteralmente da wikipedia] la valutazione tra pari (comunque meglio nota con il termine inglese di peer review) indica la valutazione esperta eseguita da specialisti del settore intesa ad attestare l’idoneità alla pubblicazione scientifica su riviste specializzate.

La ragione principale della peer review sta nel fatto che è spesso molto difficile per un singolo autore, o per un gruppo di ricerca, riuscire a individuare tutti gli errori o i difetti di un proprio studio. Questo perché l’autore può essere vittima di bias o perché in un prodotto intellettuale innovativo un possibile miglioramento può essere proposto da persone con conoscenze molto specifiche. Di conseguenza mostrare il proprio lavoro ad altri ricercatori dello stesso campo di studi aumenta la probabilità che eventuali debolezze vengano identificate e, grazie anche a consigli e incoraggiamenti da parte del revisore stesso, corrette. Così la revisione raggiunge lo scopo ultimo di filtro delle informazioni e delle ricerche realmente affidabili ovvero verificabili e degne quindi di pubblicazione, scartando spesso quelle non originali, dubbie ovvero non convincenti, false o addirittura fraudolente. L’anonimato (quasi sempre garantito) e l’indipendenza dei revisori hanno poi lo scopo di incoraggiare critiche aperte e scoraggiare eventuali parzialità nelle decisioni sulla accettazione della pubblicazione o suo rifiuto o rigetto.

Il problema è che il processo di peer reviewing è oneroso (soprattutto per i referee, che in genere non sono retribuiti) e spesso estremamente lento.

Peer review

wikipedia.org

Ora – segnala The Scientist (A Peer Review Revolution? | The Scientist) – un gruppo di ricercatori finlandesi propone un servizio online, Peerage of Science. Non è più il comitato di redazione di una rivista scientifica che individua i referee e chiede loro di valutare l’articolo. Sono gli stessi ricercatori che fanno un upload del loro manoscritto, che viene automaticamente reso anonimo e reso disponibile per la valutazione soltanto ai membri registrati. Sulla base delle keyword dell’articolo, gli esperti della materia sono avvertiti e possono assegnare un punteggio da 1 a 5. Soltanto gli articoli che superano una soglia predefinita sono avviati alle riviste scientifiche del settore, che possono invitare l’autore a pubblicare l’articolo presso di loro (l’autore, ovviamente, può declinare l’invito).

A me pare un’idea promettente (anche se attualmente opera prevalentemente in ambito biologico e ambientale). Voi che ne dite?