Il mistero della vita e della morte

Vorrei dire, sommessamente, in questa serata di prese di posizione estreme e di estrema retorica, che per alcuni di noi – non penso di essere solo – “vita” e “morte” sono due parole imprecise. Poetiche, certamente, ma imprecise. Cariche di emozione, certamente, grumi di sentimenti, ma imprecise.

Imprecise, e di qui viene il senso di mistero (e, certo, anche di poesia: ma non è dalla poesia – chi mi segue lo sa – che ci dobbiamo fare guidare al momento delle scelte importanti).

Mistero: “fatto, fenomeno che non si riesce a spiegare chiaramente e razionalmente o che è tenuto nascosto: l’origine di quella malattia è ancora un mistero. […] nella teologia cristiana, verità di fede che trascende i processi conoscitivi e intuitivi dell’uomo” (De Mauro online).

Ecco, la morte non è un mistero: è una certezza. Dice mia sorella, medico, che nonostante i grandi successi della medicina, il tasso di mortalità umana è ancora al 100%. La morte, comunque vogliamo definirla, è una certezza. La sconfitta della morte è il sogno, la speranza di molte religioni: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” [Corinzi I, 15, 55]. Per chi non “crede”, per chi non aderisce a queste religioni, la morte è una delle poche certezze (Benjamin Franklin: “in this world nothing can be said to be certain, except death and taxes”, Letter to Jean-Baptiste Leroy, 13 November 1789).

Quanto alla vita, il suo “mistero” è stato svelato 150 anni fa da Charles Darwin e confermato ad abundantiam. Il meccanismo dell’evoluzione è, appunto, un meccanismo. Un meraviglioso meccanismo. Cieco e progressivo. Io sono felice, godo ogni singolo minuto, che tra gli “effetti collaterali” di questo meccanismo ci sia la mia coscienza, la mia capacità di godere degli altri esseri umani e di questo piacevole pianeta. E quando le cose vanno storte, porto pazienza. Pazienza e gratitudine.

E accetto sereno il mio destino. Che comporta la morte e Berlusconi e la Binetti. Ma anche, per fortuna, la musica e le persone che amo.

Il lavoro culturale

Bianciardi, Luciano. (1957). Il lavoro culturale. Milano: Feltrinelli. 2007.

Abbiamo già parlato su questo blog de La vita agra (del film, per la verità, ma anche del libro), e dei molti motivi per cui Luciano Bianciardi mi è caro. Il Luciano Bianciardi milanese, che abitava a pochi passi da casa mia.

Per tutt’altri motivi, anche Grosseto è una città che mi è cara. Bianciardi qui racconta, nel suo modo dolceamaro, ma con trasparenza e una sincerità più immediata di quella che pure percorre La vita agra, la sua formazione di “intellettuale organico” nella provincia dell’immediato dopoguerra.

Si respira, a tratti, l’aria di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, che però è del 1974: quasi 20 anni, in cui la nostalgia sostituisce l’amarezza del fallimento. Non so come il PCI di allora accolse il libro, anche se posso immaginarlo: silenzio pubblico, stizzito fastidio interno.

Dopo di lui l’hanno fatto in molti (io ricordo Camilla Cederna su L’Espresso negli anni Settanta, ma in qualche misura lo ha fatto anche Nanni Moretti in Palombella rossa), ma penso che Bianciardi sia stato il primo a mettere alla berlina i tic e i luoghi comuni del linguaggio ritualizzato:

Per comodità di chi voglia fruttuosamente dedicarsi al lavoro culturale, sarà opportuno racco­gliere, a questo punto, tutta una serie di indicazioni circa il problema del linguaggio. C’è infatti un lessico, una grammatica, una sintassi e una mi­mica che il responsabile del lavoro culturale non può ignorare.
Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva, indifferentemente; ma c’è una sfumatura di significato, perché por­si è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è ve­nuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il pro­blema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere.
Quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora, di estremo interesse, purché siano, ovviamente, concreti. Sul problema si apre un dibattito. Dibattito è ogni discorso, scrit­to o parlato, intorno a un certo argomento (cioè a un certo problema) in cui intervengono due o più persone. Il dibattito, oltre che concreto, e più spes­so che concreto, è ampio e profondo, anzi, appro­fondito, e quasi sempre si propone un’analisi (ap­profondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabil­mente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con o dopo.
Al dibattito gli interventi portano un utile con­tributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni par­te d’Italia. Dal dibattito scaturiscono, oppure emergo­no o anche, più semplicemente, escono, alcune in­dicazioni.
Le indicazioni sono anch’esse utili. Se possono esprimersi in una breve frase, allora si chiamano parole d’ordine. Per esempio: Per un / per una (cinema, teatro, romanzo, arte, cultura, scuola, pittura, scultura, architettura, poesia) nazionale e popolare. In caso contrario quando cioè le indi­cazioni non abbiano questo potere di contrazione espressiva, si parlerà di tutta una serie di inizia­tive, utili, naturalmente, e concrete, ma di mas­sima, suscettibili cioè di elaborazione.
Concreto, come si è visto, è il problema, il di­battito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, di­battito ecc. che si sia potuto definire astratto. Co­me non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro.
La scelta dei problemi si chiama problematica quella dei temi, tematica. Ricordo che una volta, a Firenze, discussero tre ore su questo problema concreto; se fosse necessario porsi prima il pro­blema della problematica oppure quello della te­matica. Un problema è anche, spesso, di fondo. Esso si adeguerà alle prospettive, nuove e concre­te, di lotta, per o contro.
Lotta, anzi lotte, è l’azione quando incontra un ostacolo, altrimenti l’azione è pura e semplice at­tività. Ma tanto per le lotte che per l’attività si mobilitano tutte le forze, si toccano larghi strati, o larghe masse, si estende l’influenza, ci si pone alla testa e ci si lega anche strettamente. Al servizio della lotta si pongono le proprie capacità.
A volte le cose non sono così semplici; ma il di­battito ha appunto l’ufficio di indicare gli inevitabili difetti, determinati dalla situazione. I difetti consisto­no quasi sempre nel non aver sufficientemente utilizzato, elaborato, applicato le indicazioni emerse da un esame autocritico. Ogni dibattito assolve an­che a questa funzione.
Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza, si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esi­genza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.
Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accom­pagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali. Gli intellettuali possono esse­re: illuminati, democratici, avanzati, molto vicini a noi, al servizio della classe operaia; la serie è in crescendo. Pseudo-intellettuali sono invece gli al­tri, quelli che si sono posti al servizio del padrona­to, della reazione, del grande capitale, dell’imperia­lismo.[pp. 82-84]

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