Bianciardi, Luciano. (1957). Il lavoro culturale. Milano: Feltrinelli. 2007.

Abbiamo già parlato su questo blog de La vita agra (del film, per la verità, ma anche del libro), e dei molti motivi per cui Luciano Bianciardi mi è caro. Il Luciano Bianciardi milanese, che abitava a pochi passi da casa mia.
Per tutt’altri motivi, anche Grosseto è una città che mi è cara. Bianciardi qui racconta, nel suo modo dolceamaro, ma con trasparenza e una sincerità più immediata di quella che pure percorre La vita agra, la sua formazione di “intellettuale organico” nella provincia dell’immediato dopoguerra.
Si respira, a tratti, l’aria di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, che però è del 1974: quasi 20 anni, in cui la nostalgia sostituisce l’amarezza del fallimento. Non so come il PCI di allora accolse il libro, anche se posso immaginarlo: silenzio pubblico, stizzito fastidio interno.
Dopo di lui l’hanno fatto in molti (io ricordo Camilla Cederna su L’Espresso negli anni Settanta, ma in qualche misura lo ha fatto anche Nanni Moretti in Palombella rossa), ma penso che Bianciardi sia stato il primo a mettere alla berlina i tic e i luoghi comuni del linguaggio ritualizzato:
Per comodità di chi voglia fruttuosamente dedicarsi al lavoro culturale, sarà opportuno raccogliere, a questo punto, tutta una serie di indicazioni circa il problema del linguaggio. C’è infatti un lessico, una grammatica, una sintassi e una mimica che il responsabile del lavoro culturale non può ignorare.
Cominciamo subito, perciò, con il nocciolo della questione, con il termine problema. Nonostante la differenza spaziale (alto-basso) dei due verbi, il problema si pone o si solleva, indifferentemente; ma c’è una sfumatura di significato, perché porsi è oggettivo, cioè sta a dire che il problema è venuto fuori da sé, mentre sollevare è attivo; il problema, in questo caso, non ci sarebbe stato se non fosse intervenuto qualcuno a farlo essere.
Quasi sempre il problema, posto o sollevato che sia, è nuovo; e si dà gran merito a chi, accanto agli antichi e non risolti, solleva problemi nuovi e interessanti o meglio ancora, di estremo interesse, purché siano, ovviamente, concreti. Sul problema si apre un dibattito. Dibattito è ogni discorso, scritto o parlato, intorno a un certo argomento (cioè a un certo problema) in cui intervengono due o più persone. Il dibattito, oltre che concreto, e più spesso che concreto, è ampio e profondo, anzi, approfondito, e quasi sempre si propone un’analisi (approfondita anch’essa) della situazione. La giustezza della nostra analisi sarà poi confermata, invariabilmente, dagli avvenimenti. La situazione è sempre nuova e creatasi (da sé, parrebbe) con o dopo.
Al dibattito gli interventi portano un utile contributo. Esso può assumere anche la forma di convegno: in questo caso è parlato, gli interventi sono numerosi, e gli intervenuti sono giunti da ogni parte d’Italia. Dal dibattito scaturiscono, oppure emergono o anche, più semplicemente, escono, alcune indicazioni.
Le indicazioni sono anch’esse utili. Se possono esprimersi in una breve frase, allora si chiamano parole d’ordine. Per esempio: Per un / per una (cinema, teatro, romanzo, arte, cultura, scuola, pittura, scultura, architettura, poesia) nazionale e popolare. In caso contrario quando cioè le indicazioni non abbiano questo potere di contrazione espressiva, si parlerà di tutta una serie di iniziative, utili, naturalmente, e concrete, ma di massima, suscettibili cioè di elaborazione.
Concreto, come si è visto, è il problema, il dibattito, l’intervento e l’indicazione. A memoria d’uomo non si è mai saputo di un problema, dibattito ecc. che si sia potuto definire astratto. Come non si è mai saputo di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro.
La scelta dei problemi si chiama problematica quella dei temi, tematica. Ricordo che una volta, a Firenze, discussero tre ore su questo problema concreto; se fosse necessario porsi prima il problema della problematica oppure quello della tematica. Un problema è anche, spesso, di fondo. Esso si adeguerà alle prospettive, nuove e concrete, di lotta, per o contro.
Lotta, anzi lotte, è l’azione quando incontra un ostacolo, altrimenti l’azione è pura e semplice attività. Ma tanto per le lotte che per l’attività si mobilitano tutte le forze, si toccano larghi strati, o larghe masse, si estende l’influenza, ci si pone alla testa e ci si lega anche strettamente. Al servizio della lotta si pongono le proprie capacità.
A volte le cose non sono così semplici; ma il dibattito ha appunto l’ufficio di indicare gli inevitabili difetti, determinati dalla situazione. I difetti consistono quasi sempre nel non aver sufficientemente utilizzato, elaborato, applicato le indicazioni emerse da un esame autocritico. Ogni dibattito assolve anche a questa funzione.
Accanto al problema, ma un po’ più sotto, c’è l’esigenza. L’esigenza, si sente, anzi, si è sentita. A volte sorge, o meglio, è sorta, ed in ambedue i casi occorre andarle incontro. Problema ed esigenza riguardano a volte i rapporti con. Con gli intellettuali, per esempio.
Gli intellettuali possono incontrarsi da soli o accompagnati ad operai e contadini. In questo secondo caso la successione di rigore è la seguente: operai, contadini, intellettuali. Gli intellettuali possono essere: illuminati, democratici, avanzati, molto vicini a noi, al servizio della classe operaia; la serie è in crescendo. Pseudo-intellettuali sono invece gli altri, quelli che si sono posti al servizio del padronato, della reazione, del grande capitale, dell’imperialismo.[pp. 82-84]