Cause naturali

“Il manifestante morto ieri è deceduto per cause naturali.” [iphone.repubblica.it 2 aprile 2009 ore 10:06]

Si escludono dunque le cause soprannaturali. Meno male.

Si resta in attesa, però, della reazione del Vaticano.

Il passero solitario

D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

Exit Ghost

Roth, Philip (2007). Exit Ghost. London: Vintage Books. 2008.

In questi tempi di crisi finanziaria e di incertezza economica, siamo più che mai avidi di previsioni. L’incertezza ci dà ansia, ci atterrisce, ci spinge tra le braccia degli equivalenti moderni dei lettori del volo degli uccelli, delle viscere fumanti degli animali sacrificati, dei fondi di caffè.

Su una cosa, paradossalmente, non chiediamo ci sia rivelato il futuro: sul futuro più certo (insieme alle tasse, secondo Benjamin Franklin), sulla nostra morte (o sulla fine della vita, per usare un eufemismo tutto sommato recente). La nostra morte la teniamo, di norma, al di fuori dell’orizzonte delle nostre speranze e dei nostri timori, che sono invece il regno dell’incertezza. E anche la morte altrui la esorcizziamo finché ci è possibile, e quando non possiamo più negarla, non possiamo fare a meno di riconoscerla – perché colpisce un nostro affetto, uno di famiglia, un amico, un collega di lavoro che magari conoscevamo a stento – allora reagiamo con l’incredulità (spesso con un’incredulità e un dolore in qualche misura socialmente ostentati, e sproporzionati al nostro legame affettivo con la persona scomparsa). Parlare di morte è un tabù, che spesso produce negli altri reazioni scandalizzate; non è di buon gusto; è riprovato certamente più che parlare di sesso o di deiezioni corporee.

Exit Ghost – come, ma diversamente da Diary of a Bad Year di J. M. Coetzee – è la meditazione di uno scrittore anziano sulla propria morte, attesa e temuta (Roth è del 1933, Coetzee del 1940). I due romanzi, al di là di questi punti di contatto, sono molto diversi. Quello che Roth ci racconta è che la morte non è un istante, non è l’attraversare una porta (anche se questa immagine è presente nel libro), ma è un lungo e doloroso processo. È la decadenza fisica, la perdita di funzioni corporali che diamo quotidianamente per scontate: nel caso di Nathan Zuckerman, l’impotenza e l’incontinenza. È la perdita non della capacità d’innamorarsi e d’amare, ma di essere creduti nella “verità” del proprio innamorarsi e amare: Zuckerman scopre di non essere percepito più come un possibile oggetto d’amore, ma ancora più di non essere percepito come un possibile soggetto d’amore. Ma più di tutto, è la perdita delle capacità intellettive, della capacità di dare un ordine coerente, una narrazione alla propria esistenza a segnare la fine dell’esistenza di Zuckerman (“I vecchi subiscon le ingiurie degli anni, / non sanno distinguere il vero dai sogni, / i vecchi non sanno, nel loro pensiero, / distinguer nei sogni il falso dal vero…”, canta Guccini). Zuckerman non muore, si dissipa con il perdere di coerenza del proprio sé.

La paura della morte come evento – evento che percepiamo sempre come traumatico, anche quando non lo è, perché nella nostra cultura che nega la morte, la morte è sempre percepita come traumatica e prematura – è sostituita dalla paura del processo di progressivo annientamento che la precede. In questo, Exit Ghost prosegue la riflessione di Everyman: invecchiare è un massacro (“Old age isn’t a battle; old age is a massacre”), la morte una liberazione.

Non è certo un libro consolatorio, questo (Everyman, dedicato alla morte del padre, in qualche modo lo era: la delicatezza ne attenuava la lucida spietatezza): quando comincia questo processo di perdità di sé? Zuckerman non è “vecchio” secondo i parametri di oggi: ha 71 anni, 2 meno di Berlusconi che proprio qualche giorno fa si è dichiarato “giovane”; è diventato impotente e incontinente a 62 anni, dopo una prostatectomia. Quando ha cominciato a perdere la memoria, e poi la capacità di “distinguer nei sogni il falso dal vero”, non lo sa neppure lui. La sua capacità d’amare è apparentemente intatta, sia che si tratti della devastata Amy Bellette che ritorna dal passato remoto, sia che si tratti dell’amante immaginaria Jamie Logan: ma Zuckerman attraversa le vite delle persone ormai come un fantasma (“muti i suoi occhi all’altrui core”, per parafrasare Leopardi).

Inevitabile pensare, e chiedersi: e noi? da quando è cominciato questo processo per noi, che non siamo più giovani e ci percepiamo sempre adolescenti (la verità universale scoperta da Douglas Coupland in The Gum Thief)? dobbiamo smettere di innamorarci per non sembrare ridicoli o patetici?

La risposta di Roth/Zuckerman è questa:

Rapture. Yes, I remember rapture. It comes at a very high price. [p. 152]