Traffic: Why We Drive the Way We Do (and What it Says About Us)

Vanderbilt, Tom (2008). Traffic: Why We Drive the Way We Do (and What it Says About Us). London: Allen Lane. 2008.

Ho la tentazione di scrivere che questo libro è un esempio pressoché perfetto di come non si dovrebbe fare divulgazione scientifica. È un libro documentatissimo: delle sue 400 e passa pagine, 110 sono di note. Ma, forse proprio per questo l’autore si disperde in una miriade di argomenti senza approfondirne nessuno, presenta decine di teorie e ci racconta dozzine di incontri con esperti di ogni materia e nazionalità. Un sacco di aneddoti, ma nessuna presa di posizione convincente. Troppa carne al fuoco e nemmeno cucinata troppo bene. Per di più, l’aneddotica è infarcita di luoghi comuni: basta vedere quello che si dice del traffico romano. E allora come fidarsi delle altre “evidenze aneddotiche” che ci presenta?

Bene. Fine della stroncatura. Passiamo ai lati positivi, che non possono non esserci in un libro così ricco e documentato. Alcune illustrazioni di teorie mi sono sembrate ben riuscite: ma si trattava in genere di cose che conoscevo già, e la mia ammirazione va soltanto a qualche esempio o spiegazione illuminante. Ad esempio, che il traffico non va modellato sul comportamento di un fluido, ma di una sostanza granulosa: versate in un imbuto alternativamente dell’acqua o del riso e capirete subito la differenza. E anche la storia del traffico a Pompei, ricostruito a partire dai solchi sul basolato, non è male.

Forse avrei imparato qualcosa di più se guidassi: ma non ho la patente. La cosa più divertente che ho imparato è che, contrariamente a quanto pensavo, è più razionale chi – di fronte a un cartello che segnala una riduzione di carreggiata in autostrada – non rientra subito ma aspetta l’ultimo momento. Questo comportamento non è vantaggioso soltanto per lui, ma anche per la fluidità del traffico nel suo insieme.

Ma forse sono troppo severo. fatevi un’idea da soli seguendo questo lungo intervento dell’autore alla “scuola” di Google a Mountain View.

Rufus Thomas – The Funky Chicken

Che cosa c’è di meglio, per scacciare l’abulia di un grigio e freddo pomeriggio romano di lavoro (è sabato!), che l’irresistibile hit del 1969 (in Italia lo trasmetteva ossessivamente Renzo Arbore a Per voi giovani).

Se volete imparare anche voi, si fa così:

You may have heard of THE FUNKY CHICKEN – the craziest dance ever. Now it is possible for you to learn this dance in the privacy of your own home. With these careful instructions, you should be able to master this fine art within days.

Look cool and relax, concentrating on the thumping beat of the bass drum. Tapping toes or nodding the head helps. Beginners are advised to count from 1 to 4. Do not move lips.

Stand with feet slightly apart. Both hands are tucked under the armpits to make wings. Flap down on every beat, and back up in time for the next. Practice for ten minutes.

Kick one foot out and back a little on 1, placing it back on 2. The other foor is kicked out on 3, to be back on 4.

Combine the two basic moves. After a while, you should be able to do this without much thought.

Both arms are held up across the face. Wiggle knees as if they are made of rubber.

Imagine you are a crazy chicken. Scratch the floor while making clucking sounds.

E se non bastasse, un’informazione veramente inutile: Rufus Thomas è (ma è morto a 84 anni nel 2001) il papà di Carla Thomas (Queen of Memphis soul e interprete di storici duetti con Otis Redding)

Cause naturali [2]

Un aggiornamento (tardivo, e me ne scuso). Il manifestante morto per cause naturali durante il G20 di Londra il 1° aprile “Non è morto per un attacco di cuore, ma per un’emorragia interna”. Ce lo rivela la Repubblica.it.

Anche se non capite l’inglese del commento, le immagini pubblicate dl Guardian sono piuttosto chiare.

In questo servizio di SkyNews si vede, più tardi, la sequenza della sua morte e il percorso che aveva fatto quella mattina. So benissimo che post hoc non implica propter hoc, ma penso che ci siano molte domande cui la polizia inglese deve dare risposte convincenti.

Quello che certo è che anche la “mano poliziotta” è una causa naturale.