Il 14 settembre 2009, il ministro Mariastella Gelmini ha inaugurato il nuovo anno scolastico all’istituto penitenziario per minori di Nisida.
Cito da Il Giornale (giusto per farmi male):
«Abbiamo annunciato un provvedimento di cui stiamo studiando gli aspetti tecnici che prevederà un tetto del 30 per cento per favorire le condizioni migliori per un’integrazione anche degli alunni stranieri», ha spiegato il ministro dell’Istruzione nel corso di un’intervista su Canale 5.
«In alcune classi – ha aggiunto – la presenza degli immigrati sfiora il 100%: queste non sono le condizioni adatte per favorire l’integrazione». Un chiaro riferimento alla «Carlo Pisacane», la scuola elementare romana con l’82% di iscritti stranieri […]
Già, “gli aspetti tecnici”. Certo non si può pretendere che il ministro sappia fare 4 conti, e quindi sarà necessario che qualche esperto, magari una commissione istituita all’uopo, studi gli aspetti tecnici.
Ma proviamo a farli noi, questi 4 conti, sul retro di una busta, giusto per ribadire il tormentone che è la “cultura quantitativa” che ci manca. Quanti sono, in Italia, i bambini che frequentano la scuola dell’obbligo? Tra i 550.000 e i 560.000 all’anno, per ogni singola classe d’età (questo dato, e tutti gli altri che cito, li ho presi dal sito dell’Istat). Poiché gli italiani (i residenti in Italia, per essere più precisi) sono 60.000.000, in media i bambini di ogni classe della scuola dell’obbligo sono poco meno dell’1% della popolazione totale. Diciamo l’1% per non complicarci troppo la vita.
La prima conclusione è questa: per fare una classe di 25 alunni ci vuole, mediamente, un bacino di popolazione di 2.500 abitanti. Con meno di 2.500 abitanti o si fanno classi più piccole o, superato un certo limite, si fanno le cosiddette pluriclassi. È quello che succede, molto spesso in montagna (e quando succede, o si costringono i bambini a lunghi spostamenti, o li si disincentiva alla frequenza scolastica, o si spingono i genitori a trasferirsi in centri più popolosi e si contribuisce allo spopolamento delle aree montane…). Trascuriamo il problema delle località abitate e delle frazioni (dove però, spesso, la scuola dell’obbligo c’è o quanto meno c’era) e cerchiamo di capire quanti comuni hanno la dimensione minima che permette di formare almeno una sezione di 25 alunni per ogni classe. Allora, i comuni italiani sono 8.100. Ma soltanto 3.990 comuni hanno almeno 2.500 abitanti; gli altri 4.110 ne hanno meno, e formare classi di 25 alunni sarà presumibilmente difficile.
Ma perché sto ragionando su una classe di 25 alunni? Perché in una classe di 25 alunni (dimensione che mi sembra ragionevole), il “tetto” del 30% proposto da Mariastella Gelmini si traduce in 7,5 alunni stranieri. Anche se siamo di manica larga, e non tagliamo a metà nessun piccolo straniero, vuol dire al massimo 7-8 su 25. E se sono di più dove li mandiamo: a fare scuola in un altro comune? A spese sue o con uno scuola-bus?
I bambini stranieri residenti nell’età dell’obbligo scolastico sono tra i 35.000 e i 45.000 l’anno (qui l’incidenza degli stranieri aumenta al diminuire dell’età, mentre il totale resta abbastanza stabile: il motivo lo vedremo tra un po’). Badate che sto parlando soltanto degli stranieri residenti, cioè iscritti nelle anagrafi comunali. Ma secondo le norme italiane, “tutti gli alunni con cittadinanza non italiana, qualora siano soggetti all’obbligo di istruzione, anche se sprovvisti di permesso di soggiorno, devono essere iscritti presso una istituzione scolastica.” [DPR 31 agosto 1999, n. 394, articolo 45]. Secondo i dati del Ministero dell’istruzione, nell’anno scolastico 2007/2008 l’incidenza di alunni stranieri era del 7,7% nella scuola primaria e del 7,3% nella secondaria di 1° grado: cifre molto lontane dal fatidico 30%, che però nascondono enormi differenze territoriali. In prima elementare e nel Nord-est, per esempio, l’incidenza degli stranieri raggiungeva il 13%. Vi sono già ora comuni in cui l’incidenza degli alunni stranieri si avvicina o supera il 30% e il “rischio” di avvicinarsi o superare la soglia gelminiana è tanto più elevato quanto più il comune è piccolo.
Nel valutare queste cifre, e per non farsi disorientare da un fattore emotivo, occorre ricordare che il 60% di questi alunni stranieri è nato in Italia. Arriva in prima elementare dopo 6 anni in cui è cresciuto in Italia, tra altri bambini italiani, e parla in genere l’italiano come prima lingua. È integrato, mi vien da dire, per nascita. E allora perché li chiamiamo stranieri? Perché per la legge italiana, il nato in Italia da genitori di cittadinanza straniera è straniero. Si chiama ius sanguinis, ed è un retaggio del diritto romano. In altri Paesi, come in Francia, vige lo ius soli: chi è nato sul suolo francese è francese a tutti gli effetti, a prescindere dalla cittadinanza dei suoi genitori.
E allora vuol dire, cara Gelmini, che nella nostra ipotetica prima elementare in cui su 25 bambini 7 sono stranieri, 4 sono nati e cresciuti in Italia. Non vedo nessun problema di integrazione per loro, onestamente. Vedo un problema di razzismo, per chiamare le cose con il loro nome, se li discriminiamo per il colore della pelle o per il nome e cognome “forestieri”.
La soluzione del 30%, dunque, è inapplicabile, sbagliata ed eticamente ripugnante. Resta da aggiungere che è destinata a peggiorare (la soluzione, non il problema!), per il semplice fatto che il numero e l’incidenza degli alunni stranieri è destinata a crescere: i ragazzi stranieri di 13 anni sono meno di 35.000, i bambini di 6 anni 45.000, ma i nati stranieri (in Italia) hanno già superato i 65.000. Tra 6 anni andranno in prima elementare. Il numero di nati di madre italiana, invece, non cresce.
È bene ricordare che questo è l’effetto non tanto di una propensione ad avere figli particolarmente elevata tra la popolazione straniera, ma di quella italiana particolarmente bassa. Le donne italiane hanno, in media, 1,28 figli: un tasso di fecondità particolarmente basso. Le straniere hanno in media 2,4 figli per donna: un tasso di fecondità circa doppio.
“Ma nessuno lo sa”: come di Nisida, che è un’isola, e non solo un penitenziario…
No no no no, quando arriva l’estate
no no no no, non lasciatevi suggestionare
dai cataloghi che vi parlano di isole incantate
e di sirene-e in offerta specialeNo no no no, non cercate lontano
quello che avete qui a portata di mano
a questo punto vi starete certamente chiedendo
chissà stavolta questo dove vuole andare a parare…Venite tutti a Nisida, ya ya ya ya ya Nisida
ya ya ya ya ya Nisida un’isola e nessuno lo sa!…No no no no, niente voli speciali
e neanche traversate intercontinentali
per arrivarci basta solo la Cumana
Nisida così vicina così lontanaCoi suoi giardini e il porto naturale
con l’Italsider alle spalle che la sta a guardare
Nisida sembra un’isola inventata
ma mio padre mi assicura che c’è sempre stata!…Venite tutti a Nisida, ya ya ya ya ya Nisida
ya ya ya ya ya Nisida un’isola e nessuno lo sa!…Non un problema ecologico per carità
Nisida un classico esempio di stupidità!…Venite tutti a Nisida, ya ya ya ya ya Nisida
ya ya ya ya ya Nisida un’isola e nessuno lo sa!…
mercoledì, 16 settembre 2009 alle 20:17
Ma non ci dovevano essere le classi ponte, con il 100% di bambini stranieri? Io mi sono dichiarata a favore delle classi ponte ( http://donnaemadre.wordpress.com/2008/10/17/classi-ponte/ ), ma perché parlare di stranieri e non, più giustamente, di alunni che non hanno una padronanza linguistica che permetta loro di seguire proficuamente il normale svolgimento delle lezioni? Se l’alunno parla sufficientemente bene l’italiano, che ci importa se è straniero? E se l’italiano non lo sa, perché magari viene da un paesello dove ha parlato solo il suo dialetto, che ci importa se è italiano?
Si metta ognuno, potendo, nella classe in cui è in grado di seguire. Se ne ha voglia. Se non ne ha voglia, italiano o straniero, lasci il banco libero e se ne vada a zappare la terra (o a poltrire a casa, se i genitori glielo permettono)
giovedì, 17 settembre 2009 alle 14:34
Naturlamente, come hai notato tu, è definizione stessa di “straniero” che è totalmente priva di senso. Di un senso che non sia demagogico-elettorale, intendo.
giovedì, 17 settembre 2009 alle 22:31
In “Le benevole”, qui già recensito. C’è tutta una parte che si svolge nel Caucaso, nella quale il protagonista, Max Aue, ha a che fare con un linguista che è stato mandato a decidere se i Bergjuden sono di razza ebraica o no.
Un po’ lo stesso problema di definizione, no?
venerdì, 18 settembre 2009 alle 7:12
E come si fa a stabilire se uno è di razza ebraica, visto che mi risulta che non esiste una “razza ebraica”?
Poi un giorno qualcuno mi spiegherà perché si fa sempre un unico fascio di razza, religione, nazionalità. E mi spiegherà pure perché a qualcuno dovrebbe importare fare questo distinguo.
venerdì, 18 settembre 2009 alle 11:51
http://www.census.gov/ ‘U.S. Census Bureau
Question & Answer Center
Race: Why ask about it?
Question
Why does the Census Bureau need to ask about race on its questionnaires?
Answer
Race is key to implementing any number of federal programs and it is critical for the basic research behind numerous policy decisions. States require race data to meet legislative redistricting requirements. Also, they are needed to monitor compliance with the Voting Rights Act by local jurisdictions.
Federal programs rely on race data in assessing racial disparities in housing, income, education, employment, health, and environmental risks.
The Census Bureau has included a question on race since the first census in 1790. The Census Bureau Web site has a race overview page with links to data and substantial reference information. Almost all Census Bureau population and housing data sets include data on race.
venerdì, 18 settembre 2009 alle 14:28
@DM
Infatti non si stabilisce, almeno non in modo univoco e indiscutibile.
Luca Cavalli Sforza ha dimostrato che non si può definire la razza dai dati genetici.
Se sei interessata a questo tipo di problemi ti consiglio di leggere “Geni, popoli e lingue” del succitato e già che ti sei potresti leggere “Le benevole” di cui parlavo sopra.
venerdì, 18 settembre 2009 alle 14:44
Ti ringrazio, ma certe cose mi fanno imbestialire. Sono stata recentemente al vittoriano a vedere una mostra sulle leggi razziali, e mi rendo conto che l’idiozia popolare mi fa uscire di testa più della crudeltà.
Io riconosco solo la razza umana (e poi, c’è quella disumana, ma questo a prescindere dalla genetica).
http://donnaemadre.wordpress.com/2009/01/27/il-giorno-della-memoria-ma-sarebbe-meglio-del-promemoria/
sabato, 26 settembre 2009 alle 9:25
Ottimo esempio di ragionamento sull’uso dell’informazione statistica per le politiche e non, come nel noto aforisma di Lang “He (she, in questo caso) uses statistics as a drunken man uses lamp-posts—for support rather than illumination”!
sabato, 26 settembre 2009 alle 12:36
Anche Prodi nella campagna elettorale del 2006 usò questa citazione: in un faccia a faccia con Berlusconi, mi pare. Mi pare anche di ricordare che tutti si offesero e il professore ci perse un po’ di voti!