La lugubre gondola

Ormai dovrebbero saperlo anche i sassi: nel 2013 si celebra il duecentesimo anniversario della nascita di Giuseppe Verdi (nato il 10 ottobre 1813) e dui Richard Wagner (22 maggio). Wagner è stato onorato (tra l’altro) con l’inaugurazione della stagione scaligera 2012-2013, aperta da un Lohengrin con qualche polemica (più sulla regia che sul vulnus all’italianità). Verdi addirittura con l’apertura del Festival di Sanremo sulle note di Va, pensiero, sull’ali dorate: ecco, si temeva un festival dell’Unità e invece abbiamo subito avuto un’atmosfera da salsicciata celtica sul pratone di Pontida.

Ma non è di questo che volevo parlare. Verdi, certamente, ha battuto Wagner in longevità, arrivando ai rispettabili traguardi del nuovo secolo e della veneranda età di 87 anni compiuti (è morto il 27 gennaio 1901: non che sia una data che so a memoria, l’ho letta su Wikipedia). Wagner invece non ha nemmeno raggiunto i 70 anni, ed è morto a Venezia il 13 febbraio 1883. Eh, già: quindi ricorre oggi il centotrentesimo anniversario della sua morte.

Wagner in famiglia, 2 anni prima della morte / wikimedia.org/wikipedia/commons

Abbiamo già ricordato 5 anni fa, in questo post, che l’amico Franz Liszt aveva scritto alcuni brani (La lugubre gondola I e II, R.W. – Venezia), lamentando che su YouTube non ci fossero le interpretazioni di Maurizio Pollini, che le esegue di frequente. Fortunatamente, nel frattempo uno del pubblico è riuscito a catturare l’audio dell’interpretazione polliniana del 6 marzo 2012 al Southbank Centre di Londra:

Maurizio Pollini, piano
Fryderyk Chopin:
Fantasia in F minor, Op.49
Fryderyk Chopin: 2 Nocturnes, Op.62
Fryderyk Chopin: Polonaise-Fantaisie in A flat, Op.61
Fryderyk Chopin: Scherzo No.1 in B minor, Op.20
Interval
Franz Liszt: Nuages gris, S.199
Franz Liszt: Unstern! sinistre, disastro, S.208
Franz Liszt: La lugubre gondola for piano, S.200 (vers.1)
Franz Liszt: R.W. – Venezia, S.201
Franz Liszt: Sonata in B minor

As the great Italian pianist celebrates his 70th birthday in 2012 his unique artistic stature seems more widely acknowledged than ever. Pollini returns to Royal Festival Hall in a concert that follows last season’s celebrated series of five recitals.
In this classic programme Pollini takes on one of the iconic works of the Romantic repertoire – Liszt’s B minor sonata, alongside some other Liszt favourites. The Liszt throws new light on the music of his contemporary Chopin in the first half. In a recent interview Maestro Pollini said ‘Chopin is obviously a very strong lyrical composer; there is absolutely no doubt about it. But the dramatic element in his music is also very powerful and there are elements where you might look a little more deeply within his work.’
‘Pollini has few pianistic peers in the world today.’ (The Guardian)

Qui ascoltiamo i primi 4 brani della 2ª parte del recital:

Gabriele D’Annunzio, wagneriano convinto, racconta dei funerali nella scena finale de Il fuoco, in cui il suo alter ego Stelio Èffrena è uno dei 6 portatori del feretro:

Parve a Stelio di riconoscere presso la porta della sua casa, su la Fondamenta Sanudo, la figura di Daniele Glàuro.
— Ah, Stelio, t’aspettavo! — gli gridò nel turbine dei suoni la voce affannosa. — Riccardo Wagner è morto! [pos. Kindle 5574]

Il mondo pareva diminuito di valore.
Stelio Èffrena domandò alla vedova di Riccardo Wagner che ai due giovani Italiani i quali avevano trasportato una sera di novembre dal battello alla riva l’eroe svenuto, e a quattro loro compagni, fosse concesso l’onore di trasportare il feretro dalla stanza mortuaria alla barca e dalla barca al carro. Tanto fu concesso.
Era il 16 febbraio: era un’ora dopo il mezzogiorno. Stelio Èffrena, Daniele Glàuro, Francesco de Lizo, Baldassare Stampa, Fabio Molza e Antimo della Bella attendevano nell’atrio del palazzo. L’ultimo era giunto da Roma avendo ottenuto di condurre seco due artieri, addetti all’opera del Teatro d’Apollo, perché portassero al funerale i fasci dei lauri còlti sul Gianicolo.
Attendevano senza parlare e senza guardarsi, ciascuno essendo vinto dal palpito del suo proprio cuore. Non s’udiva se non uno sciacquio fievole su i gradini di quella grande porta che nelle candelabre degli stipiti recava scolpite le due parole: DOMVS PACIS.
L’uomo del remo, che era stato caro all’eroe, discese a chiamarli. Egli aveva gli occhi bruciati dalle lacrime sul viso maschio e fedele.
Stelio Èffrena andò innanzi; i compagni lo seguirono. Salita la scala, entrarono in una stanza bassa e poco illuminata ov’era un odore triste di balsami e di fiori. Attesero alcuni istanti. L’altra porta s’aprì. Entrarono a uno a uno nella stanza attigua. Tutti divennero pallidi, a uno a uno.
Il cadavere era là, chiuso nella cassa di cristallo; e accanto, in piedi, era la donna dal viso di neve. La seconda cassa, di metallo forbito, brillava sul pavimento aperta.
I sei portatori si disposero innanzi alla salma, aspettando un cenno. Altissimo era il silenzio, ed essi non battevano palpebra; ma un dolore impetuoso investiva le loro anime come una raffica e le squassava fin nelle radici profonde.
Tutti erano fissi all’eletto della Vita e della Morte. Un infinito sorriso illuminava la faccia dell’eroe prosteso: infinito e distante come l’iride dei ghiacciai, come il bagliore dei mari, come l’alone degli astri. Gli occhi non potevano sostenerlo; ma i cuori, con una meraviglia e con uno spavento che li faceva religiosi, credettero di ricevere la rivelazione di un segreto divino.
La donna dal viso di neve tentò un lieve gesto, rimanendo rigida nella sua attitudine come un simulacro.
Allora i sei compagni si mossero verso la salma; tesero le braccia, raccolsero il vigore. Stelio Èffrena ebbe il suo posto a capo e Daniele Glàuro l’ebbe a piede, come quel giorno. Sollevarono il peso concordi, a una voce sommessa del conduttore. Tutti ebbero negli occhi un barbaglio, come se a un tratto una zona di sole traversasse il cristallo. Baldassare Stampa ruppe in singhiozzi. Uno stesso nodo serrò tutte le gole. La cassa ondeggiò; poi calò; entrò nell’involucro di metallo come in un’armatura.
I sei compagni rimasero prostrati intorno. Esitarono, prima d’abbassare il coperchio, affascinati dall’infinito sorriso. Udendo un fruscio leggero, Stelio Èffrena alzò gli occhi: vide la faccia di neve inclinata sul cadavere, apparizione sovrumana dell’amore e del dolore. L’attimo fu eguale all’eternità. La donna scomparve.
Abbassato il coperchio, essi risollevarono il peso cresciuto. Lo trasportarono fuori della stanza, poi giù per la scala, con lentezza. Rapiti da un’angoscia sublime, nel metallo del feretro vedevano riflettersi i loro volti fraterni.
La barca funebre attendeva dinanzi alla porta. Su la cassa fu distesa la coltre. I sei compagni attesero a capo scoperto che la famiglia discendesse. Discese, insieme stretta. La vedova passò velata; ma lo splendore della sua sembianza era nella memoria dei testimoni per sempre.
Il corteo fu breve. La barca mortuaria andava innanzi; seguiva la vedova con i cari; poi seguiva il drappello giovenile. Il cielo era ingombro su la grande via d’acqua e di pietra. L’alto silenzio era degno di Colui che aveva trasformato in infinito canto per la religione degli uomini le forze dell’Universo.
Una torma di colombe, partendosi dai marmi degli Scalzi con un fremito balenante, volò sopra la bara a traverso il canale e inghirlandò la cupola verde di San Simeone.
All’approdo uno stuolo taciturno di devoti attendeva. Le larghe corone odoravano nell’aria cineree. S’udiva l’acqua sbattere sotto le prue ricurve.
I sei compagni tolsero il feretro dalla barca e lo portarono a spalla nel carro che era pronto su la via ferrata. I devoti appressandosi deposero le loro corone su la coltre. Nessuno parlava.
Allora s’avanzarono i due artieri con i loro fasci di lauri còlti sul Gianicolo.
Membruti e possenti, eletti tra i più forti e tra i più belli, parevano foggiati nell’antica impronta della stirpe romana. Erano gravi e tranquilli, con la libertà selvaggia dell’Agro nei loro occhi venati di sangue. I loro lineamenti risentiti, la fronte bassa, la chioma corta e crespa, le mascelle salde, il collo taurino, ricordavano i profili consolari. La loro attitudine scevra d’ogni ossequio servile li faceva degni del carico.
I sei compagni a gara, divenuti eguali nel fervore, prendendo i rami dai fasci li sparsero sul feretro dell’eroe.
Nobilissimi erano quei lauri latini, recisi nella selva del colle dove in tempi remoti scendevano le aquile a portare i presagi, dove in tempi recenti e pur favolosi tanto fiume di sangue versarono per la bellezza d’Italia i legionarii del Liberatore. Avevano i rami diritti robusti bruni, le foglie dure, fortemente innervate, con i margini aspri, verdi come il bronzo delle fontane, ricche d’un aroma trionfale.
E viaggiarono verso la collina bavara ancóra sopita nel gelo; mentre i tronchi insigni mettevano già i nuovi germogli nella luce di Roma, al romorio delle sorgenti nascoste. [5638-5664]

*Settignano di Desiderio:
li XIII di febbraio MDCCCC. [5683]

Mamma mia, che pesantezza. Liberiamoci delle greve atmosfera dannunziana con una lepidezza. Dissipiamo le nubi come nel temporale alla fine del Rheingold.

Wagner morì, pare, per attacco cardiaco. Ma in un universo parallelo, frutto probabilmente di un esperimento schrödingeriano ante litteram, Wagner morì forse di colera, come il Gustav von Aschenbach di Thomas Mann e Luchino Visconti. In quel mondo, il brano che Franz Liszt scrisse per commemorare il tragico evento si chiamava La lugubre vongola.

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