In una tiepida domenica sera di maggio, in una pausa di un lavoro che mi aveva impegnato per settimane senza pause nemmeno nei week-end e che avrebbe continuato a impegnarmi ancora per una quindicina di giorni, lo stacco di questo gioiello di concerto, cui sono andato, ancora una volta, con mio figlio. Auditorium Parco della musica, sala Santa Cecilia, Roma.
Il jazz, almeno per me, è stata una conquista lenta e graduale, una manovra d’accerchiamento a tenaglia, partita da un lato dal rock (via il Miles Davis della prima metà degli anni Settanta, per capirsi, e i Weather Report), dall’altro dal blues (via Il popolo del blues di LeRoj Jones – poi islamizzatosi come Amiri Baraka – e il blues-rock degli inglesi, tutti figli dei Bluesbreakers di John Mayall). Ornette Coleman, in questa metafora, è stata una delle roccaforti espugnate da ultimo: ho e ho molto amato e amo tuttora la coppia di album del 1996 Sound Museum, Hidden Men e Three Women, in cui Coleman e il suo gruppo eseguono le stesse 13 composizioni del nostro, ma in diverse versioni. Una coppia fondamentale – a parer mio – per capire il significato profondo dell’improvvisazione nel jazz. Di seguito, la doppia recensione di Scott Yanow su allrovi.com:
Hidden Men. For this project, altoist Ornette Coleman made one of his very few recordings with a pianist. On a vacation from his electrified Prime Time group, the innovative saxophonist (who also plays a bit of trumpet and his percussive violin) teams up with a purely acoustic trio (pianist Geri Allen, bassist Charnett Moffett and drummer Denardo Coleman) to perform 13 of his originals, plus the traditional “What A Friend We Have In Jesus.” Most unusual is that another CD released at the same time (Three Women) has different versions of the exact same Coleman originals (plus one other song). Ornette Coleman shows throughout that he had not mellowed with age, and his concise yet adventurous improvisations (which are full of pure melody) are quite intriguing.
Three Women. In 1996, altoist Ornette Coleman simultaneously released a pair of 14-song CDs; 13 of his pieces are heard in different versions on both releases. Joined by a particularly stimulating rhythm section (pianist Geri Allen, bassist Charnett Moffett and drummer Denardo Coleman), Coleman (who also contributes some trumpet and violin) is in superior form throughout the performances. On “Don’t You Know By Now” (the one tune that is only heard on this CD), Lauren Kinhan and Chris Walker take passionate vocals. Otherwise, this is an excellent showcase for Ornette’s searching and emotional (yet melodic) improvisations, one of the very few occasions since 1958 when he can be heard using a conventional three-piece rhythm section.

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Un Ornette Coleman (in parte/ben) diverso quello di quasi 10 anni dopo. Intanto, sempre un quartetto, ma non il classico quartetto jazz (come era quello di Sound Museum) in cui il solista è accompagnato da pianoforte, basso e batteria; ma un quartetto anomalo, con 2 contrabbassi (uno pizzicato e uno suonato con l’archetto) e una percussione (il figlio Denardo, che compare anche in Sound Museum). E poi – lasciatemi essere frivolo – non avevo alcuna idea del modo di vestire di Coleman: per me era puro suono e andava bene così. Invece il 75enne Coleman, all’apparenza fragile e un po’ traballante sulle gambe, si è presentato vestito, se non proprio così, nello stile documentato dalla foto qui sotto:

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Ma appena ha cominciato a suonare tutta l’attenzione, di tutte le persone presenti nella sala grande dell’Auditorium di Renzo Piano a Roma, si è concentrata sulla musica, compattissima, mai banale. Noi eravamo molto avanti, sulla destra. Vedevamo molto bene la concentrazione di Ornette Coleman, il suo affiatamento con il trio, i suoi rari cenni con il capo o con lo strumento. L’unico rammarico, che abbia suonato così poco.
Non sono riuscito a trovare molta documentazione in rete su questo concerto, ma l’album Sound Grammar (il primo in 10 anni, dopo Sound Museum – appunto – cui il titolo si riconnette), registrato dal vivo in Germania nell’ottobre del 2005 con il medesimo quartetto, dovrebbe darvi un’idea abbastanza precisa della musica che abbiamo sentito noi quella sera. Provo a ricostruirlo per voi:
I brani sono:
- Jordan
- Sleep Talking
- Turnaround
- Matador
- Waiting for You
- Call to Duty
- Once Only
- Song X
Questa la recensione di Thom Jurek su allrovi.com:
Sound Grammar was recorded in Germany in front of a live audience in October of 2005 with his new quartet — Greg Cohen (bass), Denardo Coleman (drums and percussion), Tony Falanga (bass), and Ornette (alto, violin, trumpet) — it’s the first “new” product from Coleman in ten years. That said, with the exception of “Song X,” the last song on the program, the other five tunes are new, seemingly written just for this band. The use of two bassists here is not only a rhythmic consideration, but a sonorous one. Cohen picks his bass, while Falanga bows his. This heavy bottom and full middle, as it were, leave room for Denardo to interact with his father. While one can make somewhat logical comparisons to Coleman’s At the “Golden Circle” in Stockholm recordings on Blue Note from four decades ago with Charles Moffett and David Izenzon, these are only logistical. This time out, Coleman’s band is rooted deeply in modal blues — check the slow yet intense “Sleep Talking.” The intensity level is there but it’s far from overwhelming, since this band plays together as one. Nothing is wasted, either in the heads of these pieces or in the solos. This band plays together literally as one, no matter what’s happening. Listen to the interplay between the basses on “Turnaround,” as Coleman finds his unique place in blowing the blues and melding harmolodically with his instantly identifiable lyric sound. As all these sounds blend together, they become, in their order to one another, grammar. And each member finds a unique place in the conversation in this ordered sonic universe.
The playfulness in “Matador” is infectious as the entire band walks through a sideways version of “Mexican Hat Dance” along with the sound of the crowd at a bullfight. As the work unfolds, it becomes clear that the struggle of species, blood, and passion is taking place in the ring of death and victory. The work ends back on the theme, with the crowd cheering (one assumes the matador won?). The rhythmic/melodic approach to improvising and timekeeping the bassists take is one of close listening, and carrying Coleman’s harmolodic theory to its most beautiful and lyrical extreme. The place the blues inhabit in this working order is a special one, as Coleman is able to engage them at any time, pull them out, speak from them, and turn them inside out with his own linguistic and playfully melodic method of playing. This is no less so when he pulls out his trumpet, as he does on “Jordan,” with the hardest-driving rhythmic setting of the disc. This also happens on “Call to Duty,” where Coleman once again plays both instruments. The bassists push one another incessantly here — and Cohen with this rhythmic attack can push any musician to his best performance — while Denardo steps back and folds into the middle; he actually allows Ornette to slow time down somehow, no matter the pace. The deep blues are expressed in Falanga’s solo in “Once Only,” as he plays a doleful melodic line and moves off from it in bits and pieces. The violin comes out again in a ten-and-a-half-minute “Song X,” which closes the concert. The playing is out and edgy, but never goes to the extremes it once did, in part due to Falanga’s ability to create harmolodic counterpoint and pace Coleman’s solo on the instrument into a great lyric context. Sound Grammar is one of those records that makes the listener realize just how much Ornette Coleman means to jazz, and how much he is missed as he releases something new only once a decade.
Infine, 2 bonus. Primo, la presentazione del concerto che ne fece all’epoca l’ufficio-stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma:
Musica per Roma presenta:
Ornette Coleman
Ornette Coleman Quartet
Ornette Coleman sassofono
Tony Falanga contrabbasso
Greg Cohen contrabbasso
Denardo Coleman percussioniOrnette Coleman è uno dei più grandi sassofonisti viventi. All’inizio della sua carriera, a ventinove anni, incise “The shape of jazz to Come” (“La forma del jazz che verrà”): poteva sembrare una forma di arroganza giovanile ma non lo era. Quel titolo fu profetico. Pochi come lui sono stati in grado di modificare completamente il nostro modo di sentire la musica. Coleman ha indicato al mondo una nuova strada: le sue idee musicali sono state controverse ma oggi il contributo innovativo è riconosciuto in tutto il mondo. Nato a Fort Worth in Texas nel 1930, ha cominciato da solo a suonare il sassofono. Suo padre morì quando aveva sette anni, sua madre lavorò sodo per comprargli il primo sassofono a quattordici anni. Un anno dopo formò la sua prima band e cominciò la ricerca di un suono che esprimesse la realtà come lui la percepiva. “Potevo suonare Charlie Parker nota per nota ma stavo solo riproducendo qualcosa. Così ho cominciato a cercare la mia strada”. A causa della segregazione razziale e della povertà in cui viveva a diciannove anni partì per Los Angeles. Ma negli anni ’50 a Los Angeles le sue idee musicali controverse non gli permettevano di tenere frequenti concerti. Ciò nonostante riuscì a circondarsi d’una serie di musicisti che condividevano le sue idee: Don Cherry, Bobby Bradford, Ed Blackwell e Blilly Higgins, e Charlie Haden. Nel 1958 l’uscita del suo primo album “Something else” rese immediatamente chiaro che Coleman aveva inaugurato una nuova era del jazz. L’energia e l’elettricità che il sassofonista aveva costruito insieme ai suoi musicisti, esplose durante la leggendaria stagione in cui Coleman suonò al Five Spot Jazz club di New York nel novembre del ’59. La sua musica era priva delle convenzioni prevalenti sull’armonia, il ritmo, la melodia e Coleman per definirla la chiamò Harmolodic. Dal 1959 fino a tutti gli anni ’60, Coleman realizzò più di cinquanta dischi considerati classici del jazz. Negli anni ’70 il sassofonista viaggiò attraverso il Marocco e la Nigeria suonando con i musicisti locali e nel 1975 costituì un nuovo ensemble chiamato Prime Time. Negli anni ’90 Coleman realizzò anche le colonne sonore dei film “Il pasto nudo” e “Philadelphia”. Nel 1997 il New York City Lincoln Center presentò la musica di Ornette Coleman in tutte le sue forme nell’arco di quattro giorni, incluso il concerto con la New York Philarmonic Orchestra diretta da Kurt Masur, “Skies of America”.
Secondo, la recensione del “nostro” concerto pubblicata da Marco Maimeri su Livecity.it del 22 maggio 2007 (non proprio a caldo, cioè, ma abbastanza fedele):
“Oggi, che non è più possibile inventare nulla, la sua musica viaggia su lidi più sicuri, non può fare scandalo, perché nulla più fa scandalo, ma nel suo modo di improvvisare c’è, intatto, quel senso di mobilità costante, quel modo di essere stabilmente oltre l’ovvio, il segno nobile del genio, del guerriero che, anche quando riposa, preserva la dignità dell’avventura”. Con queste parole Gino Castaldo presentava sulle pagine del “TrovaRoma” de “La Repubblica” il concerto che si sarebbe tenuto l’8 maggio 2005 all’Auditorium: di scena, l’Ornette Coleman Quartet.
Il noto sassofonista texano, padre di una delle correnti più rivoluzionarie e controverse della musica afroamericana, il free jazz, si è presentato al Parco della Musica con il suo altrettanto straordinario, quanto atipico e “libero” quartetto. Un sassofono, Ornette Coleman, due contrabbassi, Tony Falanga e Greg Cohen, una batteria, Denardo Coleman. Una formazione dalla struttura quantomeno particolare, in cui i due contrabbassi procedevano l’uno archettato (Falanga), l’altro pizzicato (Cohen), mentre la batteria dissertava amabilmente con il sax del leader, colorando la scena in modo ricco e brillante, con matura proprietà d’idee.
Ornette Coleman, in questo modo, era libero di dettare il suo passo con il sax contralto, con il violino e con la tromba. Le parole di Gino Castaldo, infatti, sono una sorta di manifesto culturale della musica odierna di Ornette, il quale, benché faccia meno scalpore di una volta e i critici di jazz, almeno quanto gli appassionati tradizionalisti, si siano ormai abituati e non storcano più il naso davanti alla sua arte e al suo genio, continua a suonare il “suo” free jazz. Un free particolare, un free argilloso e magmatico, che caratterizza qualsiasi brano da lui interpretato, rendendolo unico ed inimitabile.
Su brani malinconici, aperti spesso dal contrabbasso “archettato” di Falanga, una sorta di violoncello a (quasi) tutti gli effetti, il sax di Ornette fluttua mieloso, ma di quel miele selvatico ed amaro. L’interplay del quartetto prevede che il leader funga da motore trainante, ma allo stesso tempo la loro compatta intesa evidenzia un’atmosfera scostante e lacunosa.
Si tratta di un concerto a 4 voci. Ma quattro voci in “libertà condizionata”. Dal sax del leader escono spesso suoni convulsi e il gruppo interpreta ciò come l’avvio di un motore a reazione, suonando in contrappunto, creando melodie-armonie parallele, suonando contro, suonando appresso, suonando per il leader, di modo che il fraseggio che parte dal suo strumento coinvolga a reazione l’intero ensemble.
Altrettanto spesso, poi, Ornette intervalla linee di sax alto con interventi di tromba, inserendo nello spettro sonoro del quartetto anche il suono squillante dell’ottone. Se volessimo azzardare una metafora, la sua musica assomiglierebbe ad una conserva con tanti “pezzettoni”, una conserva densa e coesa, costituita da molti ingredienti, sapori e odori diversi, ma decisamente ben amalgamata.
Su brani più concitati e dal ritmo nervoso meglio si può cogliere la tecnica espressiva di Ornette Coleman e del suo quartetto. Spesso Ornette ripete una cadenza, un pattern, una frase tipica del suo vocabolario espressivo, una “frasetta blues” accattivante, una sorta di piccola ancora all’interno del mare musicale da lui creato. Quando, invece, passa al violino, un violino amplificato, la musica si trasforma, assume un quid di zigano, di balcanico, che ricorda le evoluzioni di Bregovic.
Ma con Coleman i paragoni stanno a zero: tutto viene “harmolodicizzato”, da “harmolodic”, parola con cui Ornette quasi subito definì la sua musica, totalmente priva di convenzioni armoniche, ritmiche e melodiche, ma basata su un armonia-melodia parallela e alternativa, detta appunto “armolodia”. All’orecchio “nuovo” di quasi tutti i suoi primi ascoltatori la sensazione fu – e spesso rimase – un crogiuolo di suoni allo stato puro, senza alcuna relazione con l’armonia e la melodia. E in massima parte è così, l’unica cosa da aggiungere è l’aggettivo “convenzionale” ai sostantivi “armonia” e “melodia”.
Spesso poi i suoi primi ascoltatori non apprezzarono molto questo “magma sonoro”, oggi, invece, ogni volta che si esibisce, il pubblico va in delirio. Un delirio spesso derivato dai picchi espressivi particolarmente ostici tecnicamente raggiunti da Ornette o dagli assoli/intermezzi caleidoscopici, scatenati, euforici di Denardo Coleman, figlio ormai totalmente emancipato dalla pesante eredità paterna, in grado di affrontare il repertorio e la concezione armolodica del padre con la consapevolezza, la grazia e l’eleganza espressiva di un maturo jazzman colemaniano.
Su brani più delicati, come le ballad, vivo è l’amore di Ornette per le cadenze blues, che rendono maggiormente intenso, sentito, simbolico ed evocativo il suo fluttuare in “liberi pensieri”. Tali pensieri partono di solito per la tangente così la musica si affolla di immagini sonore dai cromatismi magici e cangianti.
Questa delicatezza espressiva si contrappone però all’irruenza di altri brani, mossi invece da corse e rincorse fra leader e ritmica, con pause, blocchi, sbalzi, scatti improvvisi e frasi magicamente all’unisono. Pratica questa non certo facile in un contesto free. Immaginate la scena: ognuno suona delle linee rapide, in contrappunto, l’una contro l’altra, l’una per l’altra; all’improvviso, ci si ferma; neanche un gesto, l’intesa è cerebrale; una veloce frase all’unisono; poi si riparte, divisi e liberi. Spettacolare.
In questo clima di “libertà condizionata”, come l’ho chiamata, Ornette passa senza problemi da sax a tromba e viceversa, per brevi intermezzi di ottone per poi riprendere il sax e continuare con un similare fraseggio energico, irruente, straripante, scomposto, spesso rotto da una frase blues. Sempre la stessa. Un pattern. Un breve riff. Tutto questo adagiato sul tappeto sonoro variabile, coeso e denso della ritmica, ove il contrabbasso di Falanga fraseggia sotto l’impeto dell’archetto, il contrabbasso di Cohen avanza in pizzicato con colpi cadenzati su un registro medio-alto, spesso – quando il ritmo cambia – in walking bass swing, e la batteria di Denardo Coleman sfrigola delicatamente sullo sfondo.
Altro che ritmica, melodia e armonia convenzionale, qui “appaiono” solo 4 voci, legate certamente da un’armolodia alternativa, ma anche da un dialogo costante e continuo senza “apparenti” regole, se non quelle conversazionali, di griceana memoria, o semplicemente quelle del bon-ton estetico-linguistico, di guida per una giusta conversazione.
Tra i tanti brani anche un calypso (Long Time No See), caratterizzato da uno splendido e articolato assolo del contrabbasso/violoncello. Un calypso free, spigoloso, suonato dal leader sia con il sax sia con la tromba, mantenendo sempre un blowing, un soffio deciso, irruente, ritmico e colorato. Il contrabbasso è lamentoso sotto il pungolo dell’archetto, il suo fraseggio è sofferto, romantico e arioso. Si apre per poi chiudersi su se stesso, con lente frasi prima ascendenti e poi inesorabilmente discendenti. Il contrabbasso pizzicato dapprima procede tamburellando, in seguito puntella arioso la scena sonora. Qui il sax, coadiuvato dal timing preciso e colorato della batteria, è più lirico e anche leggermente più melodico e narrativo.
Ornette Coleman e il suo quartetto, però, oltre a suonare con il contagiri, suonano anche con il contagocce. Permettetemi questo piccolo, innocuo screzio da innamorato: è passata poco più di un’ora e già i quattro abbandonano il palco per ritornarvi solo per due bis. Si sa che i concerti free jazz non possono durare molto, vista l’intensità con cui i musicisti suonano e il pubblico ascolta, ma Ornette ne deve essere consapevole: l’amore è ingordo!
Su un tappeto delicato e morbido, eppur a tratti agitato e frastagliato, il sax del leader si staglia con un fraseggio deciso, intenso, tenue e sentito. Su Turnaround, poi, suonato non in maniera lineare, concitata e tipicamente blues, ma confusa, scostante, “melmosa”, la ritmica si “adagia” – si fa per dire – su un tappeto sonoro multicolorato, multiritmico, multisfaccettato, multistriato, multistoriato. Una musica guizzante, animata e sgusciante.
La batteria “cicaleggia”, il contrabbasso con il suo omologo suonato a violoncello si integra perfettamente e Ornette vola come un novello Icaro vincente, senza avvicinarsi mai troppo al sole caldo costituito dalla ritmica. L’atmosfera – per concludere – è decisamente da jazz club, un po’ per l’atteggiamento, le movenze, l’abito dei musicisti – Ornette sfoggia un cappello anni ’50 che gli nasconde la faccia quando si china sullo strumento – un po’ per questo sound frastagliato, confuso, ambiguo, in una parola free.
Con le dovute differenze, sembra di rivivere il clima della leggendaria stagione in cui Ornette Coleman suonò al Five Spot Jazz Club di New York nel novembre del 1959. Non so dire perché, ma l’immaginò così: con quelle luci soffuse, con il pubblico che a bassa voce si scambia opinioni, impressioni, stupore, meraviglia davanti al genio di quest’artista così rivoluzionario da non essere apprezzato e capito subito, se non dagli addetti ai lavori, da quei musicisti che condivisero le sue idee, circondandolo d’affetto e ammirazione e collaborando con lui.
Mi riferisco a Don Cherry, Billy Higgins, Charlie Haden e molti altri… Grazie a tutti voi e grazie ad Ornette e al suo nuovo quartetto free!
Marco Maimeri
giovedì, 11 giugno 2015 alle 23:29
L’ha ribloggato su Sbagliando s'imperae ha commentato:
RIP, con affetto e gratitudine