Nell’archivio della mia memoria (è soltanto un modo di dire: lo so che la nostra memoria non funziona come un archivio) c’è una vivida immagine mentale: quella di Galileo Galilei che, dalla cima della torre pendente di Pisa, lascia cadere due oggetti di peso diverso per dimostrare che raggiungono il suolo contemporaneamente. Contrariamente a quanto pensava Aristotele, che era convinto che il più pesante toccasse terra per primo. A me questa storia l’hanno insegnata a scuola e non dubito che molti di voi abbiano la stessa memoria.
C’è anche un quadro, esposto a Palazzo Pitti a Firenze, che commemora l’evento:

L. Catani, “Galileo effettua alla presenza del Granduca l’esperimento della caduta dei gravi dalla torre di Pisa”, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze. © Istituto e Museo di Storia della Scienza / Eurofoto. Fonte: vitruvio.imss.fi.it/foto
Una storia affascinante. L’esperimento era al tempo stesso semplice e ingegnoso. Galileo confermava con questo esperimento di essere uno dei padri della rivoluzione scientifica, e forse di essere l’antidogmatico per eccellenza. Aristotele non ci faceva certo una bella figura: ma come? Sei il più influente pensatore dell’antica Grecia, il maestro di generazioni di filosofi in epoca romana e nel Medioevo e non hai nemmeno provato a verificare quanto affermavi? Non ti è passato nemmeno per la testa? Capisco che ad Atene non c’era la torre di Pisa, ma sarebbe bastato un modesto balconcino …

wikimedia.org/wikipedia/commons
Eppure tu eri quello che estendeva la mano verso terra, verso le cose concrete, quando il mio amato Platone indicava il cielo …

wikimedia.org/wikipedia/commons
Peccato che le cose non stiano esattamente così. Tanto per cominciare, forse quell’esperimento non è stato mai condotto:
La torre di Pisa è spesso associata alle prime esperienze sul moto dei gravi che Galileo Galilei vi avrebbe condotto, tra il 1590 e il 1591, alla presenza di allievi e insegnanti dello Studio di Pisa. La veridicità storica del fatto, tuttavia, appare perlomeno dubbia, anche se un’iscrizione latina, posta all’ingresso della torre, ricorda che fu dalla sommità del Campanile che Galileo condusse i celebri esperimenti sulla caduta dei gravi. «Et allora, – scrive l’allievo Vincenzo Viviani nel Racconto istorico della vita di Galileo (1654) – con gran sconcerto di tutti i filosofi, furono da esso convinte di falsità, per mezzo d’esperienze e con salde dimostrazioni e discorsi, moltissime conclusioni dell’istesso Aristotele intorno alla materia del moto, sin a quel tempo state tenute per chiarissime et indubitabili; come, tra l’altre, che la velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, assegnatali da Aristotele, anzi che si muovon tutti con pari velocità, dimostrando ciò con replicate esperienze, fatte dall’altezza del Campanile di Pisa con l’intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca». [Scheda a cura di di Graziano Magrini]
Certamente Luigi Catani, pittore pratese neoclassico e autore del dipinto di Palazzo Pitti. vissuto tra il 1762 e il 1840, non ne è stato testimone oculare. Ma non ne è stato testimone oculare neppure Vincenzo Viviani che – pur essendo stato allievo di Galileo Galilei tra il 1639 e la morte del maestro nel 1642 – all’epoca degli esperimenti pisani (1590-1591) non era ancora nato (nacque nel 1622).
Ma la circostanza più interessante è che lo stesso Galileo, quando deve spiegare perché è impossibile che un oggetto più pesante cada più velocemente di un oggetto più leggero, smentendo Aristotele, non fonda la sua argomentazione sull’evidenza fornita dall’esperimento, ma ricorre a un ragionamento esclusivamente logico, che affonda le sue radici negli Analitici primi dello stesso Aristotele.
Andiamo con ordine. Galileo pubblica le sue conclusioni sul moto e sulla meccanica molti anni dopo i presunti esperimenti pisani, nel 1638. Viviani – che su questo è un po’ più credibile perché gli eventi raccontati sono soltanto di poco antecedenti la sua presenza nella villa di Arcetri – la racconta così:
Aveva già il Sig.r Galileo risoluto di mai più esporre alle stampe alcuna delle sue fatiche, per non provocarsi di nuovo quelli emuli che per sua mala sorte in tutte l’altre opere sue egli aveva sperimentati; ma ben, per dimostrar gratitudine alla natura, voleva comunicar manuscritte quelle che gli restavano a varii personaggi a lui ben affetti et intelligenti delle materie in esse trattate. E perciò avendo eletto in primo luogo il Sig.r Conte di Noailles, principalissimo signor della Francia, quando questi nel 1636 ritornava dall’ambasciata di Roma, gli presentò una copia de’ suoi Dialogi o pur Discorsi e Demonstrazioni matematiche intorno a due nuove scienze della meccanica e del moto locale; i fondamenti del quale, insieme con moltissime conclusioni, acquistò sin nel tempo che era in Padova et in Venezia, conferendole a’ suoi amici, che si trovarono a varie esperienze ch’egli di continuo faceva intorno all’esamine di molti curiosi problemi e proposizioni naturali. Accettò il Sig.r Conte come gioia inestimabile l’esemplare manuscritto del sig.r Galileo; ma giunto a Parigi, non volendo defraudare il mondo di tanto tesoro, ne fece pervenir copia in mano alli Elsevirii di Leida, i quali subito ne intrapresero l’impressione, che restò terminata nel 1638.
Insomma, secondo Viviani, Galileo aveva deciso di non dare più opere alle stampe, per evitare nuovi guai con la censura pontificia e l’inquisizione, ma il Conte François de Noailles – destinatario del manoscritto e ambasciatore di Francia presso la Santa Sede – lo aveva fatto stampare dagli editori Elzeviri di Leida senza che Galileo lo sapesse. A sua insaputa, già all’epoca.
Quanto a me, mi arrogo il privilegio di non credere che Galileo Galilei fosse all’oscuro della pubblicazione olandese, perché proprio in quegli anni erano fitti i suoi rapporti con gli intellettuali di lassù e c’era addirittura un progetto per il trasferimento ad Amsterdam dello scienziato italiano, frustrato soltanto dalle sue declinanti condizioni di salute e dalla volontà di restare vicino alla figlia Suor Maria Celeste (ne ho parlato su questo blog in questo post).

wikimedia.org/wikipedia/commons
L’opera – Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali – è ritenuta una pietra miliare nel cammino verso la scienza moderna e ha avuto una lunga e perdurante fortuna (da Isaac Newton a Leonhard Euler, da Evangelista Torricelli a Giuseppe Luigi Lagrange, da Pierre Simon Laplace a Claude-Louis Navier, fino a Ludovico Geymonat – di cui ho frequentato le lezioni ai tempi dell’università). Come il precedente Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, è scritta in volgare e in forma di conversazioni, che si svolgono nel palazzo veneziano sul Canal Grande di Sagredo. I protagonisti sono quelli che già conosciamo dall’opera precedente: Filippo Salviati, personaggio realmente esistito anche se morto nel 1614, fiorentino, che interpreta il ricercatore innovatore e progressista; Giovanni Francesco Sagredo, nobile veneziano (morto nel 1620), mediatore tra i diversi orientamenti e interessato agli aspetti tecnici ed economici delle nuove scienze; Simplicio, personaggio di fantasia, accademico dotto ma ancorato alla tradizione.
La discussione sulla caduta dei gravi si sviluppa nel corso della prima giornata.
Simplicio: [Aristotele] suppone che mobili diversi in gravità si muovano nell’istesso mezzo con diseguali velocità, le quali mantengano tra di loro la medesima proporzione che le gravità; sì che, per esempio, un mobile dieci volte più grave di un altro si muova dieci volte più velocemente.
Salviati: [I]o grandemente dubito che Aristotele non sperimentasse mai quanto sia vero che due pietre, una più grave dell’altra dieci volte, lasciate nel medesimo instante cader da un’altezza, v. g., di cento braccia, fusser talmente differenti nelle lor velocità, che all’arrivo della maggior in terra, l’altra si trovasse non avere né anco sceso dieci braccia.
Simplicio: Si vede pure dalle sue parole ch’ei mostra d’averlo sperimentato, perché ei dice: Veggiamo il più grave; or quel vedersi accenna l’averne fatta l’esperienza.
Sagredo: Ma io, Sig. Simplicio, che n’ho fatto la prova, vi assicuro che una palla d’artiglieria, che pesi cento, dugento e anco più libbre, non anticiperà di un palmo solamente l’arrivo in terra della palla d’un moschetto, che ne pesi una mezza, venendo anco dall’altezza di dugento braccia.
Attenzione: Simplicio (che ormai ha capito come argomentano i suoi interlocutori) suppone che l’affermazione di Salviati sia basata su un’osservazione sperimentale, ma curiosamente è Sagredo che afferma d’aver fatto la prova. Al contrario, Salviati risponde con un’argomentazione logica.
Salviati: Ma, senz’altre esperienze, con breve e concludente dimostrazione possiamo chiaramente provare, non esser vero che un mobile più grave si muova più velocemente d’un altro men grave, intendendo di mobili dell’istessa materia, ed in somma di quelli de i quali parla Aristotele. Però ditemi, Sig. Simplicio, se voi ammettete che di ciascheduno corpo grave cadente sia una da natura determinata velocità, sì che accrescergliela o diminuirgliela non si possa se non con usargli violenza o opporgli qualche impedimento.
Simplicio: Non si può dubitare che l’istesso mobile nell’istesso mezzo abbia una statuita e da natura determinata velocità, la quale non se gli possa accrescere se non con nuovo impeto conferitogli, o diminuirgliela salvo che con qualche impedimento che lo ritardi.
Salviati: Quando dunque noi avessimo due mobili, le naturali velocità de i quali fussero ineguali, è manifesto che se noi congiugnessimo il più tardo col più veloce, questo dal più tardo sarebbe in parte ritardato, ed il tardo in parte velocitato dall’altro più veloce. Non concorrete voi meco in quest’opinione?
Simplicio: Parmi che così debba indubitabilmente seguire.
Salviati: Ma se questo è, ed è insieme vero che una pietra grande si muova, per esempio, con otto gradi di velocità, ed una minore con quattro, adunque, congiugnendole amendue insieme, il composto di loro si moverà con velocità minore di otto gradi: ma le due pietre, congiunte insieme, fanno una pietra maggiore che quella prima, che si moveva con otto gradi di velocità: adunque questa maggiore si muove men velocemente che la minore; che è contro alla vostra supposizione. Vedete dunque come dal suppor che ’l mobile più grave si muova più velocemente del men grave, io vi concludo, il più grave muoversi men velocemente.
Simplicio: Io mi trovo avviluppato, perché mi par pure che la pietra minore aggiunta alla maggiore le aggiunga peso, e aggiugnendole peso, non so come non debba aggiugnerle velocità, o almeno non diminuirgliela.
Salviati: Qui commettete un altro errore, Sig. Simplicio, perché non è vero che quella minor pietra accresca peso alla maggiore.
Simplicio: Oh, questo passa bene ogni mio concetto.
Salviati: Non lo passerà altrimente, fatto ch’io v’abbia accorto dell’equivoco nel quale voi andate fluttuando: però avvertite che bisogna distinguere i gravi posti in moto da i medesimi costituiti in quiete. Una gran pietra messa nella bilancia non solamente acquista peso maggiore col soprapporgli un’altra pietra, ma anco la giunta di un pennecchio di stoppa la farà pesar più quelle sei o dieci once che peserà la stoppa; ma se voi lascerete liberamente cader da un’altezza la pietra legata con la stoppa, credete voi che nel moto la stoppa graviti sopra la pietra, onde gli debba accelerar il suo moto, o pur credete che ella la ritarderà, sostenendola in parte? Sentiamo gravitarci su le spalle mentre vogliamo opporci al moto che farebbe quel peso che ci sta addosso; ma se noi scendessimo con quella velocità che quel tal grave naturalmente scenderebbe, in che modo volete che ci prema e graviti sopra? Non vedete che questo sarebbe un voler ferir con la lancia colui che vi corre innanzi con tanta velocità, con quanta o con maggiore di quella con la quale voi lo seguite? Concludete pertanto che nella libera e naturale caduta la minor pietra non gravita sopra la maggiore, ed in consequenza non le accresce peso, come fa nella quiete.
Simplicio: Ma chi posasse la maggior sopra la minore?
Salviati: Le accrescerebbe peso, quando il suo moto fusse più veloce: ma già si è concluso che quando la minore fusse più tarda, ritarderebbe in parte la velocità della maggiore, tal che il loro composto si moverebbe men veloce, essendo maggiore dell’altra; che è contro al vostro assunto. Concludiamo per ciò, che i mobili grandi e i piccoli ancora, essendo della medesima gravità in spezie, si muovono con pari velocità.
In estrema sintesi, e riportata dal volgare di Galilei all’italiano moderno (traggo questo riassunto da un articolo di Mauro Dorato, Dalla freccia di Lucrezio all’argomento EPR: alcune considerazioni sul ruolo degli esperimenti mentali in scienza):
[S]e due sfere di massa diversa e composte di ugual materiale (una palla di cannone e un proiettile) cadessero come dice Aristotele con velocità diversa, sarebbe possibile legarle una all’altra e ricavare la seguente contraddizione anche senza fare l’esperimento [il corsivo è di Dorato]. In base alla teoria di Aristotele, seguirebbe infatti sia che (i) la sfera leggera, essendo più lenta dell’altra, dovrebbe rallentare quella pesante perché è ad essa legata, sia che (ii) le due sfere legate insieme dovrebbero cadere più rapidamente della sfera pesante considerata da sola, dato che le due sfere legate pesano di più di quella pesante. Si esce dalla contraddizione generata dall’esperimento mentale negando la premessa aristotelica che la velocità di caduta dipenda dal peso.
L’argomentare di Salviati (e implicitamente di Galileo) era ben noto ad Aristotele e va comunemente sotto il nome di reductio ad absurdum. Lo stesso esempio lo fa anche Daniel Dennett nel suo recente Intuition Pumps and Other Tools for Thinking:
Thought experiments are among the favorite tools of philosophers, not surprisingly. Who needs a lab when you can figure out the answer to your question by some ingenious deduction? Scientists, from Galileo to Einstein and beyond, have also used thought experiments to good effect, so these are not just philosophers’ tools. Some thought experiments are analyzable as rigorous arguments, often of the form reductio ad absurdum,in which one takes one’s opponents’ premises and derives a formal contradiction (an absurd result), showing that they can’t all be right. One of my favorites is the proof attributed to Galileo that heavy things don’t fall faster than lighter things (when friction is negligible). If they did, he argued, then since heavy stone A would fall faster than light stone B, if we tied B to A, stone B would act as a drag, slowing A down. But A tied to B is heavier than A alone, so the two together should also fall faster than A by itself. We have concluded that tying B to A would make something that fell both faster and slower than A by itself, which is a contradiction. [pos. Kindle 219]
Per tirare le somme: quando Galileo Galilei ha dovuto illustrare, contro l’opinione consolidata di Aristotele, che i gravi cadono alla medesima velocità non è ricorso all’esperimento pisano (reale o virtuale che fosse) perché esso avrebbe soltanto mostrato un’evidenza empirica, ma ha preferito ricorrere a un’argomentazione logica in grado di fornirgli una prova il più possibile assimilabile a una dimostrazione matematica.
Il bello è – e per questo parlo della rivincita di Aristotele – che la formalizzazione di questo modo di argomentare (che Aristotele chiama reductio ad impossibile) la si trova nel primo libro degli Analitici primi (I, 23). Ve la riporto qui sotto, se vi va di leggerla, ma vi avverto che è abbastanza ostica.
Ora, necessariamente ogni dimostrazione e ogni sillogismo dimostra o alcunché di contingente o di non contingente, e questo è o universale o particolare; inoltre procede o dimostrativamente o a partire da un’ipotesi. La dimostrazione mediante riduzione all’impossibile costituisce una parte della dimostrazione a partire da un’ipotesi.
In primo luogo diciamo dunque dei sillogismi dimostrativi: ché, se questi sono stati mostrati, ci sarà evidenza anche nel caso di quelli per riduzione all’impossibile e, in generale, dei sillogismi a partire da un’ipotesi.
[…]
In senso complessivo, infatti, abbiamo detto che non vi sarà mai sillogismo di una cosa intorno a un’altra se non è stato assunto un qualche medio, il quale si relaziona per le predicazioni con ciascuna delle due cose.
[…]
Se dunque è necessario assumere qualcosa di comune rispetto ad entrambe, e ciò può capitare in tre modi (infatti o predicando A di C e C di B, o C di entrambi, o entrambi di C), e queste sono le figure che abbiamo enunciato, è evidente che necessariamente ogni sillogismo procede in forza di qualcuna di queste figure.
[…]
Che dunque i sillogismi dimostrativi giungano a conclusione mediante le figure che abbiamo detto, è evidente; che vi giungano anche quelli per riduzione all’impossibile, sarà chiaro mediante queste considerazioni.
Infatti tutti i sillogismi per riduzione all’impossibile provano per via dimostrativa il falso, però dimostrano ipoteticamente la proposizione iniziale quando, essendo stata posta la contraddizione, ne derivi qualcosa d’impossibile: per esempio, che la diagonale è incommensurabile mediante il diventare uguale il pari al dispari, se si è posto che è commensurabile.
Dunque, il diventare uguale il pari al dispari viene provato per via dimostrativa, mentre l’essere la diagonale incommensurabile si dimostra per ipotesi, poiché in forza della contraddizione deriva una falsità.
Questo è, infatti, come si diceva, «provare per via argomentativa mediante la riduzione all’impossibile»: dimostrare che deriva qualcosa di impossibile per via dell’ipotesi iniziale. Di conseguenza, poiché nei sillogismi che riducono all’impossibile si realizza un sillogismo capace di dimostrare il falso, mentre ciò che è stabilito all’inizio si dimostra ipoteticamente, e prima abbiamo detto che i sillogismi dimostrativi giungono a conclusione mediante queste figure, è evidente che anche i sillogismi per riduzione all’impossibile avranno luogo mediante queste figure. [Aristotele. Opere filosofiche II. Torino: UTET. Pos. Kindle 6863]
sabato, 8 febbraio 2014 alle 23:07
[…] Le palle di Galileo e la rivincita di Aristotele […]