Non sono un grande frequentatore di occasioni mondane, eppure 26 anni fa ero lì, in piazza del Duomo a Spoleto, per il concerto di chiusura del Festival dei due mondi, insieme ad altre 7.000 persone. Era domenica 10 luglio 1988.
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Ero stato anche l’anno precedente, su invito di un amico e mentore più grande di me, e volentieri avevo accettato l’invito anche per quell’anno. C’era anche mia madre. Ci eravamo mossi con largo anticipo nel primo pomeriggio, lasciando agli altri nonni i bambini (avevano 5 e 3 anni non ancora compiuti, nitroglicerina pura). Rientrammo la sera stessa.
Per la cronaca musicale mi affido alla recensione di Landa Ketoff su la Repubblica:
FINALE CON BRAHMS
SPOLETO
Sembrava che la festa spoletina non potesse concludersi con i soliti fantasmagorici fuochi, invece anche questo rito si è compiuto per la gioia dei cittadini e dei turisti, chiudendo in bellezza un’ edizione del Festival dei Due Mondi che si farà ricordare per alcuni spettacoli assai pregevoli come, per la musica, l’ opera Jenufa di Janacek, e per il gran numero di presenze: più di 101 mila spettatori per 81 produzioni con 187 rappresentazioni.
Il primo Festival del quarto decennio è dunque riuscito finalmente a superare la soglia delle centomila presenze, mostrando ancora una volta la vitalità della propria formula. E gli applausi che gli oltre settemila spettatori del Concerto in Piazza hanno rivolto a Giancarlo Menotti affacciato a una finestra della sua casa che domina la piazza erano profondamente sentiti e grati.
È questo un festival che, nonostante il proliferare delle manifestazioni estive in tutta la penisola, rimane unico, per la varietà e originalità delle proposte e per la capacità che ha di immergere chiunque si trovi in città in qualunque giorno in un bagno di spettacoli di ogni genere che iniziano alle 10.00 di mattina e terminano quasi alle due di notte giustapposti e in parte sovrapposti in modo da offrire un’ ampia possibilità di scelta. È un festival che riesce ad essere insieme elitario e popolare e che, stando alle cifre, non è neppure tra i più costosi (7 miliardi di spesa e 1 miliardo di incassi), quando sappiamo di altri festival che si avvicinano a questa cifra offrendo solo quattro o cinque produzioni e con incassi minimi.
Il più popolare tra i vari momenti del Festival è certamente il concerto finale nella piazza del Duomo. Un rito al quale hanno partecipato oltre settemila persone stipate nella piazza trasformata in enorme auditorio, davanti all’ immensa conchiglia in cui domenica avevano preso posto la Spoleto Festival Orchestra, il Coro Filarmonico di Colonia formato da circa 150 elementi, i due solisti (il soprano Maria Spacagna e il baritono Victor von Halem), l’ organista Paolo Carignani e il direttore Kenneth Montgomery.
Come è quasi sempre accaduto e in fondo questo rito lo esige è stata scelta un’ opera sinfonico-corale, il Requiem tedesco di Brahms (sebbene la scelta iniziale fosse la Missa Solemnis di Beethoven, poi sostituita per motivi legati alla diretta della Rai).
Meno grandioso della Messa beethoveniana, il Requiem brahmsiano non ha un carattere liturgico ma è un’ esortazione rivolta all’umanità di qualsiasi fede (e non è un caso che non vi si nomini mai il Cristo) a riflettere sulla morte. Di proposito vi mancano accenti tragici e scoppi di gioia, ma vi si avverte piuttosto l’ invito a una serena accettazione di un destino comune. Scritto in tempi diversi fra il 1857 e il 1868, il Requiem è costruito su un libero adattamento di testi biblici scelti da Brahms stesso. Lungo tutto il pezzo predomina il coro, mentre i solisti, che pure hanno un ruolo determinante nel significato del lavoro, sono limitati a interventi del baritono nel terzo e nel sesto dei sette numeri che lo compongono, e del soprano nel quinto, aggiunto nel 1868 in memoria della madre dell’ autore. Splendida la parte strumentale, con un linguaggio ricco di contrappunto, mai magniloquente e privo di sentimentalismi ma tutto soffuso di tenerezza.
Una tenera elegia della quale Massimo Mila ebbe a dire, quando nel 1961 Thomas Schippers ne dette, sempre a Spoleto, un’ esecuzione memorabile: «Se la musica avesse nella cultura il posto che le spetta, questo capolavoro verrebbe citato accanto alle opere di Proust e di Joyce, di Freud, di Kafka, di Musil e di Thomas Mann, come un documento fondamentale della crisi dell’ anima moderna da cui esce la civiltà contemporanea.»
L’ interpretazione che domenica ne ha dato Kenneth Montgomery è stata decorosa anche se non memorabile. I tempi sono parsi un po’ troppo lenti specialmente nella prima parte, e tutto l’ insieme un po’ monotono. Anche il coro, che pure è assai buono, non aveva quell’ incisività che si richiede nel Requiem brahmsiano. Molto bravo il soprano, l’ italo-americana Maria Spacagna, dalla voce chiara e pura, e bravo anche Victor von Halem, già apprezzato, senza microfoni e al chiuso, nella Petite Messe rossiniana.
Pubblico nell’insieme soddisfatto, il concerto in piazza è più uno spettacolo che un vero concerto.
Per quello che ricordo, avevo trovato la musica tutt’altro che straordinaria. Da pochi anni (mi pare fosse il 1983) un Giuseppe Sinopoli non ancora quarantenne si era rivelato al mondo con una sua incisione del Requiem tedesco profondamente innovativa e vigorosa. Al confronto, questa di Spoleto mi era sembrata enervata.
Ricordo piuttosto la straordinaria scenografia del concerto. Il palco è situato davanti al portico del Duomo e circondato da una grande (e bellissima) conchiglia di legno per migliorare l’acustica (non mi pare che ci fosse amplificazione, nonostante l’affermazione difforme di Landa Ketoff, e a differenza di quanto ormai accade surrettiziamente in molte sale, anche di grande reputazione).
Il concerto inizia all’imbrunire, direi alle 19:00. Fa ancora un caldo brutale (il termometro aveva raggiunto i 32 °C nel pomeriggio). Siamo stipati su seggiolette di paglia che riempiono la bella piazza in discesa, quasi un teatro naturale. Stormi di piccioni e voli di rondoni riempiono con i loro gridi la piazza, a volte sommergendo la musica.
Molte le signore in abito da sera. Davanti a me un’ampia schiena femminile quasi nuda. Durante tutto il concerto, molte zanzare si avvicendano su quelle belle spalle e tra le scapole per un banchetto ininterrotto. A tratti sono due o tre contemporaneamente. La signora, una vera signora (non certo la moglie di un politico o di un palazzinaro, ma probabilmente una discendente della danese principessa del pisello), non ha mai mosso una mano per scacciarle. Non ha nemmeno mai contratto i muscoli delle spalle, neppure involontariamente. Ne ho sinceramente ammirato l’eleganza e l’autocontrollo.
Sicuramente il Concerto in piazza è un’occasione mondana anche per l’alta società dei culicidi:
– Allora, che mi dici?
– Straordinario. Mi aspettavo molto, ma è stato al di sopra di tutte le mie aspettative. Squisitezze. E poi, non quelle porzioncine da nouvelle cuisine …
– Sai, dipende tutto dalla tracciabilità della filiera. Non è mica sangue qualunque o, peggio, roba d’importazione. Qui la qualità è controllata. Sono le grandi razze italiane: la piemontese, la chianina, la bufala campana. E non stiamo certo parlando di vacche …
– Sì, ma non è solo quello. Anche l’apparecchiatura è raffinatissima. E tutto il contorno. Un posto di gran classe.
– Allora, spero di vederti l’anno prossimo.
– Certamente, all’anno prossimo. E se non potrò venire io, verranno le mie figlie: corro subito a deporre le uova.
– Vedrai come cresceranno belle e sane, dopo questa scorpacciata.

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