Keith Jarrett – Roma, 11 luglio 2014 (e 5 novembre 1993)

Quando vado a un concerto e poi ne scrivo sul blog, la mia massima aspirazione sarebbe quello di parlare di musica. Non sempre è possibile, però, perché a volte gli aspetti extra-musicali prendono il sopravvento.

È successo, a mio parere, con il concerto di Keith Jarrett alla Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della musica di Roma l’11 luglio 2014, nell’ambito dell’ormai classica e meritoria rassegna Luglio suona bene.

wikimedia.org/wikipedia/commons

Quanto agli aspetti musicali, la sintesi più efficace l’ha fatta uno sconosciuto parlando con una sconosciuto, che ho sentito mentre uscivamo dalla sala: «Non è stato un concerto, è stata una sequenza di bis.»

Cominciamo dall’inizio. Il concerto – a differenza degli altri della rassegna – si sarebbe tenuto nella sala grande e non nella cavea (scelta sicuramente azzeccata per un concerto di pianoforte solo) e alle 19:00 e non alle 21:00 (non il massimo per chi lavora, ma nessun problema).

Alle 19:00 la sala è gremita in ogni ordine di posti, come avrebbe detto il compianto Sandro Ciotti: compresi quelli del retro palco, che sono messi in vendita solo nelle grandissime occasioni. La capienza della sala è di 2.756 posti (Wikipedia).

Il concerto non inizia puntuale, contraddicendo una recente tendenza seguita, ad esempio, da Roger Waters, Peter Gabriel e Caetano Veloso, Alle 19:15, prima dei consueti annunci dell’Auditorium (che comunque ricordano che sono vietate le riprese audio e video con qualsiasi mezzo) una voce femminile ci invita a non scattare foto e a non effettuare registrazioni audio e video neppure durante gli applausi e i bis; ci prega inoltre di restare nel massimo silenzio e di evitare i colpi di tosse, perché il concerto sarà registrato. Insomma – conclude con una nota falsamente simpatica – per una volta lasciate perdere l’elettronica e godetevi la musica. Ce lo raccomanda prima in inglese (e l’annuncio viene accolto da applausi fragorosi, immagino da chi non ne ha colto appieno i contenuti) e poi in italiano (meno applausi e qualche mugugno). Ci spiega anche che il concerto consisterà di due parti di un’ora ciascuna, separate da un intervallo di 20 minuti.

Sul palco, lo Steinway illuminato da un occhio di bue. Finalmente Keith Jarrett esce e si siede al piano. Poi si alza di scatto (lo scatto consentito dai suoi quasi 70 anni) e se ne va. Sconcerto tra il pubblico. Recentemente, si narra, a Parigi è uscito dalla sala per un colpo di tosse. Dopo un po’ torna, ma invece di sedersi al piano si sposta in un punto di qualche metro alla sinistra del pianoforte, dove viene illuminato da un altro spot e racconta al pubblico sorpreso le seguenti cose:

  1. Che il suo concerto è tutto improvvisato.
  2. Che il suo è un duro lavoro.
  3. Che se qualcun altro su questo pianeta pensa di saperlo fare come lui si accomodi.

Poi torna al pianoforte e comincia a suonare.

La scena si ripete più e più volte, durante la prima parte (che finisce alle 20:00 ed è dunque durata molto meno di un’ora) e nella seconda (che comincia alle 20:25 e dura circa un’ora, bis compresi). Durante i bis se la prende in particolare con un tizio che  – secondo Jarrett – ha una lucetta arancio particolarmente fastidiosa e prega i suoi vicini di sequestrargli l’apparecchio (spero fosse uno scherzo e non un’istigazione a commettere un reato).

* * *

Sulla musica, non ho molto da aggiungere a quanto detto dall’anonimo commentatore che ho citato all’inizio. Il concerto era strutturato piuttosto tradizionalmente per standard, e certamente le interruzioni continue non hanno giovato. Chi aveva in mente i concerti che hanno reso Keith Jarrett famoso (a partire da quello di Colonia del 1975), quella specie di stream of consciousness fatto di note e canti a bocca chiusa non poteva che restare deluso.

Io l’ho sentito, entusiasmandomene, quel Keith Jarrett lì, proprio qui a Roma, all’Auditorium di via della Conciliazione, il 5 novembre 1993: il concerto si chiamava semplicemente piano improvisations e Jarrett suonò due lunghe improvvisazioni separate dall’intervallo davanti a un pubblico attento e concentrato (sì, qualche colpo di tosse ci fu e forse anche qualche foto, ma nessuno ne fece un casus belli). Fece anche 3 bis, e uno era Bach (nel clip qui sotto la prova flagrante che qualcuno registrò). E infatti all’Auditorium di via della Conciliazione l’ho ascoltato anche in un’altra occasione, in cui suonò le Variazioni Goldberg o il Clavicembalo ben temperato di Bach al clavicembalo: ma non ne ho memoria e forse vuol dire che non era stato un concerto memorabile.

Per chi fosse interessato, dirò la mia sulla vicenda delle foto, del silenzio eccetera.

* * *

Primo punto: foto e registrazioni.

Questa è una questione intricata. Non complessa e neppure complicata, ma intricata sì.

Il flash può indubbiamente dare fastidio a chi sta suonando, e soprattutto se sta improvvisando. E ancora di più se sta improvvisando insieme ad altri, che devono mandarsi tra loro sottili segnali con il linguaggio del corpo e la prossemica. E massimamente se stanno improvvisando su una poliritmia complessa: per quest’ultimo motivo non mi sono mai scandalizzato più di tanto delle proteste di Robert Fripp (che in un concerto dei King Crimson alla Cavea dell’Auditorium ancora in costruzione, il 23 giugno 2000, prima interruppe il concerto e poi saltò i bis).

Ma intanto va detto che chi fotografa ai concerti, ormai, non lo fa quasi mai con una reflex, ma con il telefonino. Qualche volta con il flash led; ma più spesso senza: anche perché il flash è inutile e controproducente a molti metri di distanza dal soggetto.

Le registrazioni audio e video sono assolutamente silenziose, e non possono dare fastidio a nessuno.

E allora? Allora il sospetto è che il problema sia quello dei diritti d’autore.

Qui io ho un’opinione radicale. Dico subito che parto dalla premessa che chi registra il concerto cui è andato pagando regolarmente il biglietto lo faccia per riascoltarlo/rivederlo in tutta tranquillità, da solo o con the significant other (come dicono negli USA per essere politically correct), e non per realizzare un bootleg da rivendere sul mercato nero. Ecco, io penso che questo sia un diritto dello spettatore, un esempio di quello che si chiama fair use. Soprattutto non vedo un motivo al mondo per cui, dopo avere speso 70 euro per comprare il biglietto del concerto di Keith Jarrett, io debba pagare altri 15-20 euro per comprare il CD di quello stesso concerto.

Tanto per fare i conti in tasca al nostro. Non so quale sia il suo cachet. Ma sono in grado di stimare quanto valeva il suo concerto. I biglietti si vendevano a prezzi variabili tra i 60 e i 90 euro. Facciamo conto, per prendere in considerazione quelli che hanno goduto di sconti a vario titolo, che il prezzo medio pagato a biglietto sia stato quello minimo di 60 euro. Concediamo anche che dei 2.756 posti a sedere della sala, 256 fossero occupati da non paganti (inviti, VIP, stampa, accrediti vari). Resta comunque che il concerto valeva grosso modo 150.000 euro.

Ecco, di fronte a un incasso di questa dimensione, penso che l’insistenza ossessiva su «no photo no photo no photo no photo (ad lib.)» e «no video no video no video no video (ad lib.)» abbia una forte componente di taccagneria: da parte di Musica per Roma e da parte di Keith Jarrett. Altri artisti, non meno blasonati (penso a David Byrne) consentono e addirittura incoraggiano le riprese. Senza flash, ça va sans dire.

Un’altra cosa: non pretendo che Keith Jarrett lo sappia, ma qui da noi in Italia c’è appena stata un po’ di maretta sulla questione dell’aumento delle tariffe dell’equo compenso, cioè sul balzello che si paga per il solo fatto di possedere un aggeggio capace di memorizzare un file:

Nato nel 1941, come parziale indennizzo per le mancate vendite dei dischi dovute alla diffusione della radio, applicato con zelo alle cassette prima e ai cd poi, l’equo compenso è legato a un mondo e a un’economia che stanno volgendo al tramonto.
[…]
[L]a Società Italiana Autori ed Editori e il ministero precisano che l’equo compenso non è una tassa: è dovuto per la copia privata, ossia per poter trasferire da un supporto all’altro un contenuto protetto da copyright.La norma si riferisce a materiale su cui grava già la parte dovuta alla Siae, nel senso che se si acquista legalmente un brano su iTunes, ad esempio, all’autore vanno già i proventi che gli spettano per il suo lavoro intellettuale, proprio come quando si compra un disco. Ma il brano va archiviato da qualche parte, e per questa archiviazione autori ed editori chiedono un compenso (“equo”): è come se, una volta acquistato il disco, alla Siae dovesse andare una cifra ogni volta che si compra uno scaffale per i dischi. E anche se poi, al posto di dischi, lo scaffale fosse invece pieno di piante. Si paga, insomma, per la sola possibilità che lo smartphone, il tablet, l’hard disk, la chiavetta Usb possano contenere materiale protetto da copyright.
[…]
Le nuove disposizioni, secondo Confindustria Digitale, porteranno un aumento di 2,5 volte del gettito del 2013, per un totale stimato in 157 milioni di euro nel 2014. [Bruno Ruffilli. “Le nuove tariffe dell’equo compenso: 20 euro in più per un hard disk, aumentano smartphone e tablet“. La Stampa. 8 luglio 2014]

* * *

Secondo punto: l’improvvisazione.

Keith Jarrett ha insistito molte volte sul suo improvvisare, o meglio sulla sua Arte dell’improvvisazione, di cui è testimonianza l’omonimo film per la TV del 2005

Per i diversi aspetti dell’improvvisazione in musica, e soprattutto nel jazz, vi rinvio alla voce Musical improvisation su Wikipedia e sui riferimenti ivi citati.

Quello che vorrei fare qui è però demistificare, almeno in parte, l’affermazione fatta da Jarrett che il suo concerto è tutto improvvisato: implicando, cioè, che: a) è una cosa rara e straordinaria; b) che è una cosa bellissima e c) che soltanto lui lo sa fare.

Se riflettete un attimo, anche voi siete spesso degli improvvisatori. Tutte le volte che cominciate a parlare senza leggere un testo scritto state improvvisando un discorso (nell’accezione più basilare del termine, dell’esprimere il pensiero per mezzo della parola). E come fate a improvvisare? Mettete insieme singoli pezzi (parole, pezzi di frase, frasi fatte …) applicando regole (grammaticali, sintattiche, stilistiche …) per sviluppare un certo discorso e ottenere certi effetti.

A un livello di sofisticazione maggiore, ma pur sempre applicando la stessa tecnica (combinazione estemporanea di elementi e procedure note) si basa l’ottava rima popolare praticata dai poeti bernescanti (o improvvisatori o a braccio) che sogliono improvvisare i loro versi di fronte a un pubblico che talvolta assegna anche l’argomento sul quale i poeti devono cantare. L’ottava rima è composta da stanze di otto versi endecasillabi. Lo schema delle rime di ogni stanza è A B A B A B C C: ciò significa che rimano tra loro i versi I, III e V i versi II, IV e VI e i versi VII e VIII. I poeti durante l’improvvisazione si avvalgono di una melodia molto antica che dà loro la misura del verso e la misura della stanza. Dallo scorrere della melodia è infatti possibile conoscere in ogni momento a quale verso dell’ottava il poeta si trovi e quante sillabe manchino ancora alla chiusura del verso. [Wikipedia]

Molti anni fa, quando era già famoso ma non un divo come adesso, Roberto Benigni si esibiva nella Feste dell’Unità e io ho avuto la fortuna di assistere a un suo spettacolo. A un certo punto, chiedeva al pubblico di suggerire tre sostantivi, e sui quei sostantivi improvvisava un ottava. Sì, certo, improvvisava, anche se l’improvvisazione era evidentemente costruita su stereotipi e stilemi poetici assai frequentati.

Qui una piccola traccia (largamente auto-celebrativa) del Benigni di allora (ma se volete assistere a vere tenzoni in ottava rima, allora dovete andare al Festival di Ribolla, in provincia di Grosseto):

Tornando alla musica, un secondo punto da tener presente è che non stiamo parlando di una cosa che è o bianca o nera, ma di qualcosa che si muove su un continuum. L’esecuzione di un testo musicale o verbale scritto ha sempre una componente interpretativa che è estemporanea, e dunque attigua all’improvvisazione. Un po’ più in là, ma sullo stesso continuum, in musica ci sono gli abbellimenti e le cadenze. All’altro estremo, ci sono le improvvisazioni free e atonali. Jarrett non si colloca certo in quest’ultima area; si colloca, invece, in quella più “tradizionale” della motivic chain association (MCA):

“After you initiate the solo, one phrase determines what the next is going to be. From the first note that you hear, you are responding to what you’ve just played: you just said this on your instrument, and now that’s a constant. What follows from that? And then the next phrase is a constant. What follows from that? And so on and so forth.” (Max Roach in Berliner 1991, 193)
Drummer Max Roach’s comment underscores a common feature of jazz improvisation: in the course of developing some “idea” or musical element, an improviser might come upon a new musical element which is subsequently developed. This may in turn lead to a new idea, and so on, so that material is thematically “chained” together over the course of phrases, choruses, or even entire solos. In appreciation of this phenomenon and its implications for motivic developmnet, analyst Ekkehard Jost coined the term “motivic chain association” (abbreviated MCA), a broad concept that in practice seems to encompass nearly any kind of audible motivic relatedness between elements of a melodic line (see Jost 1970). [Timothy Page. Motivic Strategies in Improvisations by Keith Jarrett and Brad Mehldau]

 * * *

Terzo punto: è un lavoro duro.

Certamente.

Ma anche i garimpeiros di Serra Pelada fotografati da Sebastião Salgado facevano la loro fatica, no?

infinitoistante.it/images

* * *

Quarto punto: se c’è qualcuno sul pianeta Terra in grado di prendere il mio posto…

Che cosa non avrei dato per vedere Stefano Bollani salire sul palco e dirgli di farsi da parte.

* * *

Naturalmente, a qualcuno il concerto è piaciuto moltissimo. Per par condicio riporto anche la sua recensione:

KEITH JARRETT E I “FASTIDIOSI COGLIONI” DI ROMA
Roberto Semprebene 12 luglio 2014
Keith Jarrett è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più rilevanti del ‘900, un pianista la cui storia si intreccia a quella di Art Blakey, Charles Lloyd e Miles Davis, spaziando dal jazz alla musica classica, sia in veste di solista che come componente di formazioni, fra le quali la più nota è forse il terzetto composto con il bassista Gary Peacock e il batterista Jack DeJohnette. La sua tecnica, oltre a spaziare come detto in generi diversi, è contraddistinta dalla spiccata tendenza all’improvvisazione, che ha caratterizzato anche il meraviglioso concerto tenuto l’11 luglio nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma.
Se la perizia e il genio musicale di Jarrett sono un dato acquisito, di cui per altro il musicista fa vanto con ben poco ricorso alla modestia, altrettanto nota è la sua avversione a qualsivoglia forma di disturbo delle sue esibizioni: è rimasto celebre il concerto interrotto a Parigi per un colpo di tosse… Consapevoli di questo, i suoi estimatori sono generalmente molto attenti a non disturbare in alcun modo il maestro e altrettanto attenti sono stati i responsabili dell’Auditorium nell’avvisare l’uditorio della necessità di evitare rumori e di non procedere a riprese o foto, a maggior ragione essendo il concerto registrato direttamente in sala. Le prime avvisaglie del fatto che non tutti avessero pienamente compreso le richieste si sono avuti al termine dell’annuncio espresso in inglese, al quale il pubblico ha fatto seguire un incomprensibile applauso, per poi diventare un sorpreso mugugno quando lo stesso avviso è stato ripetuto in italiano…
L’ingresso di Jarrett è stato accompagnato da uno scrosciare entusiasta di applausi, che il pianista ha raccolto, per poi dare il via alla sua opera creativa, non prima di aver ribadito che il suo è un duro lavoro che necessita di concentrazione…
Spente le luci, accomodatosi al piano, Jarrett non ha quasi iniziato che, accortosi di un qualche dispositivo che lo stava riprendendo, si è alzato e ha abbandonato la sala… Rientrato l’artista, è stata ribadita dallo stesso l’insofferenza per questo genere di situazioni, quindi il concerto è ripreso ed è stato un crescendo d’emozioni in un avvicendarsi di ritmi e melodie, che hanno spaziato dal jazz sperimentale della prima fase alle composizioni più classiche che sono seguite, tutte capaci di trasmettere l’intensità che l’artista sa infondere nelle sue note. L’intimità che si crea nell’ascoltarlo è un qualcosa che raramente si raggiunge.
Il concerto, diviso in due atti con una pausa di venti minuti, è stato, senza mezzi termini, straordinario. Quello che è stato vergognoso è il comportamento di alcuni elementi del pubblico, evidentemente incapaci di intendere le regole, sicuramente molto restrittive, ma cionondimeno chiare, dettate dall’artista per le proprie esibizioni: flash di fotocamere, cellulari, braccialetti tintinnanti e una serie di altri rumori hanno accompagnato l’esibizione di Jarrett, al punto di portare il pianista a dare dell’ “annoying asshole” (“fastidioso coglione” sembra una traduzione aderente) ad un illustre sconosciuto che continuava imperterrito a scattare inutili foto col flash dalla balconata… Per tanti spettatori entusiasti e rispettosi, troppi a Roma hanno dimostrato l’incapacità di godere di uno spettacolo sicuramente non facile, ma per il quale, se hanno deciso di partecipare, sarebbe stato lecito aspettarsi fossero pronti a “soffrire” per un paio d’ore…

Pubblicato su Concerti. 6 Comments »

6 Risposte to “Keith Jarrett – Roma, 11 luglio 2014 (e 5 novembre 1993)”

  1. Morgaine Says:

    Sei stato fin troppo buono.
    A me la frase del lavoro duro non è proprio andata giù: sei giustamente famoso, osannato, adorato, probabilmente molto ricco, fai un lavoro creativo e gratificante e hai il coraggio di giustificare le tue fisime dicendo che fai un lavoro duro?

    • borislimpopo Says:

      Fisime, sì. E c’è un modo di controllarle: non suonare più dal vivo. A che ti serve il pubblico se non vuoi nemmeno sentirlo respirare? Allora è meglio non fare più concerti. Sono sicuro che, se il problema sono i soldi, dei mecenati lì trovi.
      Ho trovato anche intollerabile che non abbia speso una parola per commemorare Charlie Haden, morto quel giorno stessi e a lungo suo compagno di strada agli esordi.

  2. il barbarico re Says:

    Un’altra cosa intollerabile è stata questa sensazione di essere davanti a un professore severo per il quale sei comunque in mancanza o in torto.

  3. il barbarico re Says:

    Poi sul tema dell’improvvisazione, ora va molto di moda questa Gabriela Montero, che faceva la pianista classica finché Marta Argerich non l’ha incoraggiato a smettere di improvvisare solo di nascosto.


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