Ieri, 22 maggio 2019, l’Istat ha pubblicato le sue prospettive per l’economia italiana nel 2019.
Immediatamente, il mondo dei social media si è diviso in due schieramenti contrapposti (chiamarle scuole di pensiero sarebbe fare torto al pensiero):
- quelli che hanno scritto – per tutti Giuseppe Turani su Facebook, che cita l’Ansa – “L’Istat taglia le stime sul Pil: nel 2019 crescita a +0,3%. Precedenti previsioni vedevano un Prodotto interno lordo a +1,3%”, sottolineando che l’Istituto nazionale di statistica è ora più pessimista che in passato e dunque (implicitamente, e non voglio assolutamente fare il processo alle intenzioni di Turani) che l’economia sta andando male (anche) per responsabilità dell’attuale governo. Questo schieramento iscrive quindi l’Istat nel campo di quelli che criticano la politica economica del governo (sempre implicitamente, ma queste raffinatezze tendono a scomparire nella comunicazione veloce e sintetica dei social media);
- quelli che invece hanno scritto – qui cito Marco Congiu su Twitter, con un tweet che nel momento in cui scrivo ha totalizzato 834 retweet e 2894 like – “Il governo nomina all’Istat un nuovo presidente, e dopo tre mesi l’Istituto dà previsioni di crescita economica superiori a quelle dell’OCSE, del FMI, della Commissione UE… e dello stesso governo. Buffo, eh?”, sottolineando (questa volta esplicitamente) che la previsione dell’istituto è più ottimista di quella di altri autorevoli previsori e quindi presentandoci un Istituto nazionale di statistica filogovernativo (tutto? soltanto nel suo nuovo presidente, che si immagina intento a diramare direttive cui tutta la catena gerarchica e il personale obbediscono senza fiatare?).
Due letture diametralmente opposte: possibile? E c’è un modo per stabilire quale è corretta?
Possibile sì, perché si confronta la previsione di crescita del Pil dello 0,3% nel 2019 (che nessuna delle parti mette in discussione) con due cose completamente diverse.
Nel primo caso, il confronto è con la previsione effettuata dall’Istat in precedenza: quasi esattamente 6 mesi fa, il 21 novembre 2018. Il contesto internazionale appariva all’epoca radicalmente diverso da quello che si è poi realizzato nel periodo successivo. L’Istat (come la maggior parte degli osservatori) era ben consapevole dei rischi connessi a un’evoluzione meno favorevole della congiuntura, tanto da scrivere nel comunicato stampa che accompagnava la nota su Le prospettive per l’economia italiana nel 2018-2019:
L’attuale scenario di previsione è caratterizzato da alcuni rischi al ribasso rappresentati da una più moderata evoluzione del commercio internazionale, da un aumento del livello di incertezza degli operatori e dalle decisioni di politica monetaria della Banca Centrale Europea.
I rischi paventati si sono realizzati e la nuova previsione tiene conto del peggioramento del quadro internazionale, come la nuova nota dell’Istat documenta. Ma oltre agli elementi internazionali, ci sono anche componenti interne del rallentamento della crescita? E possono essere imputati alle politiche economiche del governo? La risposta è certamente affermativa (basta il buon senso a capirlo) ma non sufficiente. La domanda corretta sarebbe “in che misura?” e questo è estrememente difficile da quantificare: la nota dell’Istat richiama, con estrema cautela, gli elementi in gioco e i possibili nessi causali e poi ci presenta – come si usa – i risultati del suo modello econometrico di previsione.
E questo ci introduce alla seconda posizione, quella di chi ci fa notare che la previsione dell’Istat (Pil +0,3%) è superiore a quelle della Commissione europea (+0,1% nella previsione di primavera di qualche giorno fa), del Fondo monetario internazionale (+0,1% previsto circa un mese fa, con un taglio rispetto a sei mesi prima del tutto comparabile con quello effettuato dall’Istat) e dell’Ocse (0,0%, di pochi giorni fa). Un paio di mesi fa, un articolo di Andrea Carli su Il sole-24 ore (Pil, tutte le previsioni per il 2019. L’istantanea dell’Italia «ferma») registrava previsioni comprese tra -0,2% (Ocse) e +0,6% (Banca d’Italia e Fondo monetario internazionale). In mezzo tutto il gruppo: le agenzie di rating, l’ufficio parlamentare di bilancio, il centro studi Confindustria, … Due le cose da sottolineare: le revisioni sono continue, a seconda del momento in cui sono formulate, e il campo di variazione è piuttosto ampio (8 decimi di punto percentuale).
Questo è il punto essenziale: si tratta in tutti questi casi di previsioni elaborate con modelli econometrici. Senza entrare nei tecnicismi, va detto: che i modelli econometrici sono diversi per struttura (che a sua volta riflette ipotesi teoriche specifiche), che i loro coefficienti sono basati su serie storiche (cioè sostanzialmente sul comportamento del sistema economico nel passato) e che i risultati dipendono dalle ipotesi formulate per le variabili esogene (che, al di là del gergo degli econometrici, riflettono ipotesi che sono il punto di partenza e la base della simulazione – gli input e gli scenari del modello – e non i suoi risultati – gli output). A onor del vero, a differenza di molti altri previsori, l’Istat rende pubblica la struttura del modello nella nota metodologica che accompagna le prospettive per l’economia italiana nel 2019. Ad esempio:
Il modello è sviluppato a partire da un input di 142 serie storiche di base a frequenza annuale riferite ad un periodo temporale che va dal 1970 al 2017. Il processo di stima del modello genera in tutto 222 variabili, di cui 157 endogene (66 stocastiche e 91 identità) e 65 esogene (di cui 9 di scenario).
Spero di essere stato sufficientemente chiaro, e mi perdonino i tecnici le molte semplificazioni.
Succo del discorso: queste prospettive che l’Istat formula e pubblica ogni 6 mesi sono il risultato di un processo ben diverso da quello che periodicamente porta l’Istat a “certificare” (come amano dire i quotidiani e le televisioni) l’andamento del Pil e delle altre variabili di contabilità nazionale (stima flash, conti trimestrali, conti dei settori istituzionali e soprattutto, a marzo e settembre, prodotto interno lordo, indebitamento netto e saldo primario delle Amministrazioni pubbliche). Le prime sono il risultato di un esercizio di stima econometrica, le seconde la sintesi di un processo statistico, che parte dai dati raccolti dall’Istat e li inquadra nel rigoroso contesto dei conti economici nazionali.
Che l’Istat svolga entrambe queste attività è una possibile fonte di confusione? C’è il rischio che i cittadini confondano i dati di contabilità nazionale (il più recente, relativo all’andamento del Pil nel primo trimestre del 2019 – +0,1% rispetto allo stesso trimestre del 2018 – è stato pubblicato il 30 aprile 2019) con le previsioni del modello econometrico MEMo-It?
Io temo di sì. Una parte della responsabilità è delle strutture della comunicazione (sia di quelle dell’Istat, sia delle agenzie di stampa, sia dei commentatori che spesso riportano la notizia in modo acritico e semplificato – mia personale opinione e quindi risparmiatemi repliche stizzite su come tutte queste strutture facciano un lavoro fantastico, al di sopra di ogni critica). Ne è un esempio il lancio dell’Ansa che ho riportato all’inizio: “L’Istat taglia le stime sul Pil”, ambiguo perché anche quelle di contabilità nazionale sono stime. Tanto è vero che il comunicato stampa del 30 aprile esordiva così: “Nel primo trimestre del 2019 si stima che il prodotto interno lordo (Pil) … sia aumentato … dello 0,1% in termini tendenziali”.
Ma sarebbe ingeneroso prendersela con chi svolge un lavoro importante di intermediazione tra i ricercatori nei settori di produzione dell’Istat e i cittadini.
Temo che ci sia un problema più di fondo. Il duplice ruolo che l’Istat svolge – di unico produttore ufficiale dei conti economici nazionali, rilevanti tra l’altro per i famosi parametri di Maastricht, e di uno (tra tanti) dei previsori delle grandezze fondamentali dell’economia italiana – è fonte di per sé di confusione.
Personalmente, sono dell’opinione (e lo sono da tempo) che questa confusione dei ruoli sia perniciosa. Che tutti gli sforzi per tenere distinte queste due attività (di cui va dato atto all’Istat e ai suoi dirigenti) si infrangano di fronte all’oggettiva difficoltà a comunicare questa distinzione, soprattutto in una situazione in cui i messaggi sono brevi, frenetici, sovrapposti in rapida successione e spesso branditi come armi nell’agone politico.
La mia modesta proposta (ma forse dovrei derubricarla a sommesso auspicio) è che l’Istat si ritiri dal terreno delle previsioni: ci sono abbastanza soggetti, anche istituzionali, che lo fanno. Del resto, le previsioni non sono nelle tradizioni (ultranovantennali) dell’Istat: sono state formulate per la prima volta 7 anni fa, il 22 maggio 2012. All’inizio della nota (Le prospettive per l’economia italiana nel 2012-2013) si dava questa motivazione:
Nel 2010 è stata disposta la soppressione dell’Istituto di Studi e Analisi Economica e il conseguente trasferimento delle relative funzioni all’Istat, ivi comprese quelle di previsione. Per svolgere tale compito è stato realizzato un nuovo modello econometrico, utilizzato per effettuare le
previsioni qui presentate.
Non una motivazione strategica o metodologica forte, dunque, ma la conseguenza di una contingenza (sia pure importante): una scelta che nulla vieta di rivedere alla luce della nuova situazione.
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