Lev Tolstoj – Anna Karenina

Tolstoj, Lev Nikolaevic (1877). Anna Karenina. Milano: Rizzoli. 2012. ISBN 9788858629994. Pagine 944. 0,99 €

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Della difficoltà e della probabile inutilità di recensire i classici ho già detto altrove, a proposito de La montagna magica di Thomas Mann:

Piccolo dilemma, di cui verosimilmente non importa niente a nessuno tranne che a me: che io recensisca capolavori classici universalmente e da tempo acclamati è probabilmente, oltre che inutile, un atto di hỳbris; d’altra parte, ho promesso a me stesso, e ho detto anche a voi (i proverbiali 25 lettori) che avrei recensito, non sempre tempestivamente, tutti i libri che avessi letto.
Dunque, eccomi qui.

Poche e (per una volta) brevi considerazioni:

  1. Perché mi sono ridotto a leggere così tardi nella mia vita un romanzo universalmente considerato un capolavoro? Con l’aggravante che tutti mi considerano un grande lettore e in verità lo sono? L’unica spiegazione che riesco a trovare è che ho letto precocemente Guerra e pace (ricordo la casa e la poltrona dove l’ho letto e posso affermare con certezza che era prima dell’autunno 1969). Guerra e pace è un romanzo bellissimo, ma non breve né leggero. Avevo altri autori da leggere e altre urgenze adolescenziali. Per un po’ sono stato lontano da Tolstoj. Tutto qui.
  2. Perché leggere i classici lo ha scritto Italo Calvino meglio di quanto non potrei fare io, che peraltro ne ho parlato qui.
  3. Tutti i romanzi malriusciti si assomigliano fra loro, ogni capolavoro è un capolavoro a suo modo.

* * *

C’è un passo, secondo me, che da solo sarebbe valso la pena di intraprendere la lettura del romanzo (riferimento come sempre alla posizione sul Kindle).

La primavera non si manifestò per lungo tempo. Le ultime settimane di quaresima c’era un tempo sereno, gelato. Di giorno sgelava al sole, e di notte si giungeva fino ai sette gradi; lo strato di ghiaccio era tale che s’andava sui carri senza strada. Pasqua fu con la neve. Poi a un tratto, il secondo giorno della settimana di Pasqua si levò un vento caldo, si avanzarono le nubi, e per tre giorni e tre notti cadde una pioggia tempestosa e calda. Il giovedì il vento si calmò, e si avanzò una fitta nebbia grigia, come a nascondere i misteri dei mutamenti che si compivano nella natura. Nella nebbia scorsero le acque, scricchiolarono e si spostarono i massi di ghiaccio, si mossero più in fretta i torbidi, spumeggianti torrenti, e proprio in cima alla Kràsnaja Gòrka fin dalla sera si lacerò la nebbia, le nubi corsero via a pecorelle, il tempo si schiarì, e apparve la vera primavera. La mattina il sole vivo che s’era levato divorò in fretta il ghiaccio sottile, che aveva coperto le acque, e tutta l’aria tepida tremò per le evaporazioni della terra rianimatasi.
Verdeggiò l’erba vecchia e la nuova che spuntava in forma di aghi, si gonfiarono le gemme dell’oppio, del ribes e dell’attaccaticcia betulla da spirito, e su un ramo cosparso di color d’oro cominciò a ronzare un’ape lasciata fuori dell’arnia, che svolazzava qua e là. Trillarono le allodole invisibili sul velluto del verde e sulla stoppia gelata, piansero le pavoncelle sulle bassure e nelle paludi riempitesi d’un’acqua bruna che non se n’era andata, e in alto passarono volando con gridio primaverile le gru e le oche. Muggì nei pascoli il bestiame spelato, che solo in qualche punto non aveva ancora mudato, cominciarono a giocare gli agnelli dalle zampe curve intorno alle belanti madri che perdevano il pelo, corsero i ragazzi dalle gambe svelte per i sentieri che s’asciugavano con l’impronta dei piedi nudi, scoppiettarono sullo stagno le allegre voci delle donne con la tela, e batterono per le corti le accette dei muzikí, che aggiustavano gli aratri e gli erpici. Era venuta la vera primavera. [3586: colgo l’occasione per dire che la traduzione è quella classica del 1936 di Leone Ginzburg per Einaudi]

* * *

Molte altre, come è ovvio, le citazioni meritevoli di essere riportate (riferimento ancora alle posizioni sul Kindle).

«[…] Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta d’ombra e di luce.» [1228]

«[…] Essi probabilmente parlavano di me fra loro, o, ancora peggio, ne tacevano…» [1815]

[…] colta col pensiero la situazione e pesatala sulla bilancia interna […] [1844]

Egli, come uomo che aveva vissuto, non stupido e non malato, non credeva alla medicina […] [2844]

«[…] Uno dei due è sciocco. Ebbene, e voi lo sapete, di noi stessi questo non si può mai dire.»
«Nessuno è contento del suo patrimonio, e ognuno è contento della sua intelligenza» disse il diplomatico in tono sentenzioso. [3232]

«[…] La donna, vedi, è una materia che, per quanto tu la studi, sarà sempre completamente nuova.»
«Allora è meglio non studiarla.»
«No. Un certo matematico ha detto che il diletto non è nella scoperta della verità, ma nella sua ricerca.» [3816]

«E allora? Bisognava contare ogni albero?»
«Assolutamente contarli. Ed ecco, tu non li hai contati, ma Rjabínin li ha contati. I figli di Rjabínin avranno dei mezzi per la vita e l’istruzione, e i tuoi magari non ne avranno.» [4010-4011]

[…] giocatore, gozzovigliatore e non solo uomo senza regola, ma con regole immorali […] [4135]

«[…] Dice che siete una vera eroina di romanzo e che, se fosse un uomo, farebbe mille sciocchezze per voi. Strémov le dice che le fa anche così.» [6783: Tolstoj gioca con gli strange loops]

[…] questo scollo quadrangolare, malgrado il petto fosse molto bianco, o precisamente perché esso era molto bianco, toglieva a Lévin la libertà di pensare. [7476]

Quegli attacchi di gelosia, che negli ultimi tempi la prendevano sempre più spesso, gli mettevano orrore, e, per quanto egli cercasse di nasconderlo, lo raffreddavano verso di lei, benché sapesse che la causa della gelosia era il suo amore per lui. [8110]

«Amare chi ti odia, sì; ma amare quelli che tu odi non si può! […]» [8933]

«Ho sentito che le donne amano certi uomini per i loro vizi,» cominciò Anna a un tratto «ma io lo odio per la sua virtù. […]» [9624]

Il ricordo del male arrecato al marito suscitava in lei un sentimento simile alla ripugnanza, e analogo a quello che un uomo che sta per annegare proverebbe dopo aver strappato da sé un uomo aggrappatosi a lui. Quest’uomo era annegato. S’intende, era male, ma era l’unica salvezza, ed era meglio non ricordare questi terribili particolari. [10399]

Egli non lavorava mai con tanto ardore e successo come quando la sua vita andava male, e in particolar modo quando litigava con la moglie. [10517]

Egli sapeva che non si poteva proibire a Vrònskij di divertirsi con la pittura; sapeva che lui e tutti i dilettanti avevano pieno diritto di dipingere quel che pareva loro, ma gli dispiaceva. Non si può proibire a un uomo di farsi una gran bambola di cera e di baciarla. Ma se quest’uomo con la bambola venisse e si sedesse dinanzi a un innamorato e si ponesse a carezzare la sua bambola, come l’innamorato carezza colei che ama, all’innamorato questo dispiacerebbe. Un eguale sentimento spiacevole provava Michàjlov alla vista della pittura di Vrònskij: provava un’impressione e di canzonatura, e di stizza, e di pietà, e di offesa. [10715]

Soltanto allora egli capì chiaramente per la prima volta quello che non capiva quando, dopo le nozze, l’aveva condotta fuori della chiesa. Capì che non solo ella gli era vicina, ma che ora non sapeva dove finiva lei e cominciava lui. Lo capì da quel tormentoso senso di sdoppiamento che sentiva in quel momento. Si offese al primo impulso, ma nel medesimo istante sentì che non poteva essere offeso da lei, che lei era lui stesso. [10779: qualcuno si era chiesto, a suo tempo, se la pelle unisse o dividesse…]

Qualcosa di vergognoso, di molle, di capuano, com’egli lo definiva a se stesso, era nella sua vita di ora. [10862]

Evidentemente si compiva in lui quella rivoluzione che doveva fargli guardare alla morte come al soddisfacimento dei suoi desideri, come alla felicità. Prima ogni desiderio singolo, suscitato da una sofferenza o da una privazione, come la fame, la stanchezza, la sete, era soddisfatto con una funzione del corpo, ma adesso la privazione e la sofferenza non ricevevano soddisfazione, e il tentativo di soddisfazione suscitava una nuova sofferenza. E perciò tutti i desideri si fondevano in uno solo: il desiderio di liberarsi di tutte le sofferenze e della loro fonte, il corpo. Ma per esprimere questo desiderio di liberazione egli non aveva parole, e perciò non ne parlava, ma secondo l’abitudine voleva il soddisfacimento di quei desideri che non potevano più essere soddisfatti. [11248]

Egli occupava ancora un posto importante, era membro di molte commissioni e comitati, ma era un uomo che s’era consumato tutto e da cui non si attendeva più nulla. Qualunque cosa egli dicesse, qualunque cosa proponesse, lo si ascoltava come se ciò che proponeva fosse noto da lungo tempo e fosse proprio quello che non ci voleva. [11516]

E un sorriso furbesco le increspava le labbra, in particolar modo perché, pensando al romanzo di Anna, parallelamente a esso, Dàrja Aleksàndrovna si immaginava un suo romanzo quasi simile, con un immaginario uomo collettivo, che era innamorato di lei. Ella nello stesso modo come Anna confessava tutto al marito. E lo stupore, e la confusione di Stepàn Arkàdjevic’ a questa notizia, la facevano sorridere. [13544]

Se il lavoro messo nell’acquisto del denaro corrispondesse al piacere che procurava quel che veniva comprato con esso, questa considerazione era sfumata già da lungo tempo. [14982]

Questo posto, come tutti i posti simili, esigeva così enormi conoscenze e attività, che era difficile riunirle in una sola persona. E siccome l’uomo che riunisse queste qualità non c’era, tuttavia era meglio che questo posto l’occupasse un uomo onesto, piuttosto che un disonesto. [15908]

Per intraprendere qualcosa nella vita familiare, sono indispensabili o un completo dissidio fra i coniugi o un amorevole accordo. Quando invece i rapporti fra i coniugi sono indefiniti e non c’è né l’uno né l’altro, nessuna cosa può essere intrapresa.
Molte famiglie rimangono per anni nei vecchi luoghi, uggiosi ormai per tutt’e due i coniugi, soltanto perché non c’è né pieno dissidio, né completo accordo. [16333]

Per lei tutto in lui, con le sue abitudini, i pensieri, i desideri, con tutta la sua complessione spirituale e fisica, era una cosa sola: l’amore per le donne, e quest’amore secondo il sentimento di lei doveva essere tutto concentrato su lei sola. Quest’amore era diminuito; per conseguenza, secondo il ragionamento di lei, egli aveva dovuto portare parte dell’amore su altre o su un’altra donna, e Anna era gelosa. Era gelosa per lui non d’una qualche donna, ma della diminuzione del suo amore. Non avendo ancora un oggetto per la sua gelosia, lo cercava. [16345]

«Il rispetto l’hanno inventato per nascondere il posto vuoto dove dev’essere l’amore… […]» [16435]

Vedeva che fra quella generale sollevazione della società si erano messi in luce e gridavano più forte degli altri tutti i falliti e gli offesi; i comandanti in capo senza eserciti, i ministri senza ministeri, i giornalisti senza giornali, i capipartito senza partigiani. [17039]

Giacendo sul dorso, guardava adesso il cielo alto, senza nubi. [17641: è l’autocitazione di un celebre passo di Guerra e pace, quando il principe Andréj giace ferito sul campo di battaglia di Austerlitz:
«Che cos’è? Sto cadendo? Le gambe mi vacillano», pensò, e cadde supino. Aprì gli occhi, ma non vedeva nulla. Sopra di lui non c’era più nulla, se non il cielo: un cielo alto, non sereno, ma pure infinitamente alto, con nuvole grigie che vi strisciavano sopra dolcemente. «Che silenzio! Che quiete! Che solennità!», pensò il principe Andréj, «non è più come quando correvamo gridando e battendoci; non è così che le nuvole scorrono su questo cielo alto, infinito. Come non lo vedevo prima, questo cielo così alto? E come son felice di averlo finalmente conosciuto. Sì! Tutto è vuoto, tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito. Non c’è niente, niente all’infuori di esso. Ma anch’esso non esiste, non c’è nulla all’infuori del silenzio e della tranquillità. E Dio ne sia lodato!…»]

[…] pane, cetrioli e miele fresco. [17714]

«Ma se tu vuoi venire a conoscere lo spirito del popolo per via aritmetica, allora, s’intende, ottenere questo è molto difficile. E il suffragio non è introdotto da noi e non può essere introdotto, perché non esprime la volontà del popolo; ma per questo ci sono altre vie. Si sente nell’aria, si sente nel cuore. Non parlo poi di quelle correnti sottomarine, che si sono mosse nel mare stragrande del popolo e che sono chiare per qualsiasi persona non prevenuta; guarda la società in senso stretto. […]»
«Ma sono i giornali che dicono tutti la stessa cosa» disse il principe. «È vero. Dicono a tal punto la stessa cosa che sembrano proprio rane prima del temporale. Appunto per causa loro non si può sentire nulla.» [17813-17819]

John Williams – Stoner

Williams, John (1965). Stoner. New York: New York Review Books Classics. 2010. ISBN 9781590173930. Pagine 305. 8,61 €

Stoner

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Quando ero molto più giovane di adesso, tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, ho cominciato a scrivere un romanzo. Non penso fosse una cosa tanto rara o speciale: penso che molti di noi l’abbiano fatto, o almeno immaginato.

Poi non l’abbiamo nemmeno iniziato, o comunque non terminato: e sarà stato probabilmente un destino provvidenziale, per il pianeta e per noi stessi. Inevitabilmente, direi. Il Boris dell’epoca aveva vissuto fino ad allora una vita relativamente breve e priva di grandi eventi. La sua famiglia era una famiglia mediamente felice, e quindi poco interessante secondo il celebre incipit di Anna Karenina. Negli anni successivi sarebbe stata martoriata da una serie di perdite importanti, come se la morte giocasse agli Orazi e ai Curiazi; ma all’epoca, a parte una nonna amatissima, c’erano ancora tutti. Quanto a quello che sarebbero state persone importanti nella mia vita, non le avevo ancora incontrate. Insomma, non c’era abbastanza materia per scrivere un romanzo, tant’è che non lo scrissi.

Però una cosa l’avevo: il nome del protagonista e io narrante. Si chiamava Giobbe. Non conoscevo il romanzo di Joseph Roth (che sarebbe stato pubblicato anni dopo), ma conoscevo bene il personaggio biblico: paziente e rassegnato fino al grottesco, ma gigantesco nella sua calma resistenza a una divinità capricciosa, che lo tormenta per scommessa e poi è così arrogante da giustificarsi tirando in ballo la creazione, l’ippopotamo e il leviatano … Insomma, Giobbe doveva rappresentare secondo me la grandezza del flemmatico, di quello che si piega ma non si spezza: l’esatto opposto del giovane impetuoso e irascibile che ero (e che sono, nonostante tutto).

Ho ripensato a questo perché William Stoner, il protagonista dell’omonimo romanzo, è un Giobbe moderno. Il romanzo, riscoperto da poco, è bellissimo, ma una delle cose più disperatamente tristi che mi sia capitato di leggere.

È stato riscoperto alcuni anni fa dalla New York Review of Book, che l’ha ripubblicato nel 2006 (l’opera è del 1965):

William Stoner is born at the end of the nineteenth century into a dirt-poor Missouri farming family. Sent to the state university to study agronomy, he instead falls in love with English literature and embraces a scholar’s life, so different from the hardscrabble existence he has known. And yet as the years pass, Stoner encounters a succession of disappointments: marriage into a “proper” family estranges him from his parents; his career is stymied; his wife and daughter turn coldly away from him; a transforming experience of new love ends under threat of scandal. Driven ever deeper within himself, Stoner rediscovers the stoic silence of his forebears and confronts an essential solitude.
John Williams’s luminous and deeply moving novel is a work of quiet perfection. William Stoner emerges from it not only as an archetypal American, but as an unlikely existential hero, standing, like a figure in a painting by Edward Hopper, in stark relief against an unforgiving world.

Stoner ha avuto nel tempo molti autorevoli ammiratori – il New York Times ricorda Irving Howe su The New Republic nel 1966, C. P. Snow su The Financial Times nel 1973, Dan Wakefield su Ploughshares nel 1981 e Steve Almond su Tin House nel 2003 – senza aver mai goduto di grande successo: e non stento a crederlo, dal momento che la sua perfezione e la sua disperata tristezza sono una cosa sola. Se dovessi riassumerlo in una frase sarebbe questa:

He was forty-two years old, and he could see nothing before him that he wished to enjoy and little behind him that he cared to remember.

A me ha fatto pensare molto a James Joyce, quello di Portrait of the Artist as a Young Man: ogni breve capitolo di Stoner è costruito e scandito da un’epifania.

Morris Dickstein, recensendolo sul NYT (Sunday Book Review) del 17 giugno 2007 scriveva:

John Williams’s “Stoner” is something rarer than a great novel — it is a perfect novel, so well told and beautifully written, so deeply moving, that it takes your breath away.
[…]
“Stoner” is a western in a more poignant sense. Its hero, the son of hard-working, dirt-poor farmers, inherits their taciturn stoicism, born of sheer adversity — their hardened accommodation to the whims of fate. William Stoner enters the state university in 1910 to study agriculture, but his life changes irrevocably when he comes upon literature in a sophomore survey course. His future mentor humiliates him by asking him to explain Shakespeare’s Sonnet 73, a poem about love and loss that foreshadows Stoner’s own future. Shakespeare’s aging speaker compares himself to “bare ruin’d choirs where late the sweet birds sang,” and adds: “In me thou see’st the glowing of such fire, / That on the ashes of his youth doth lie.” Following Stoner through two world wars, the novel captures both the fire of his inarticulate passion and the glowing embers it leaves behind.
Only two passions matter in Stoner’s life, love and learning, and in a sense he fails at both. His wife, his first love, turns cold and repellent almost from the moment he meets her. Their honeymoon, in which she submits to him with distaste, must be one of the grimmest ever recorded in fiction. Soon we learn, with a clang of inevitability, that “within a month he knew that his marriage was a failure; within a year he stopped hoping that it would improve. He learned silence and did not insist upon his love.” Stoner’s deeply ingrained reticence is a keystone of the novel. This is the story of an ordinary man, seemingly thwarted at every turn, but also of the knotty integrity he preserves, the deep inner life behind the impassive facade.
The man’s professional career could also be seen as a failure, though it gives him quiet satisfaction. He is neither a great teacher nor a noted scholar […]  A gifted but bitter colleague, touched by the same knowledge, turns against him in one of those toxic departmental feuds that bedevils the rest of his career. The one book Stoner produces is soon forgotten. His distrust of glib brilliance, his concern with ancient theories of grammar and rhetoric, make him look pedantic. Stoner’s cast of mind is monastic, unworldly. He is reduced to teaching menial courses to students who only dimly sense the warmth and conviction he brings to them.
The same quiet depth of feeling redeems his love life. Caught in an empty shell of a marriage, though too stoical to end it, he bonds deeply with his young daughter. But his resentful wife evicts him from his daughter’s life, as she evicts them both from the book-lined study where they often take refuge. Stoner responds with a helpless sense of resignation. But in his 40s he begins an affair with a talented scholar half his age, which leads to a precious interlude of unlooked-for happiness. Like his discovery of literature, this intimacy becomes an awakening to the possibilities of life. Their deep attraction, luminously described, combines love and learning as forms of passionate knowing — the true North Star of Williams’s fiction. “Day by day, the layers of reserve that protected them dropped away. … They made love, and talked, and made love again, like children who did not think of tiring at their play.” Though their affair is broken up by Stoner’s academic nemesis, who threatens scandal, it offers a hint of paradise that hovers dreamily over the rest of the novel.
Stoner’s physical decline is premature but inexorable, his death almost anonymous. Yet few stories this sad could be so secretly triumphant, or so exhilarating. Williams brings to Stoner’s fate a quality of attention, a rare empathy, that shows us why this unassuming life was worth living.

In italiano è stato pubblicato da poco da Fazi, nella traduzione di Stefano Tummolini. Irene Bignardi ne ha scritto una bellissima recensione su la Repubblica l’11 marzo 2012:

Riscoprendo Stoner l’uomo qualunque di una minitragedia

Se è vero che tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, e che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, l’infelicità dei singoli – l’infelicità senza eventi, l’infelicità senza ragioni, l’infelicità della gente mite, di chi non reagisce, non contrattacca – è più difficile da raccontare. Come quella di Stoner, protagonista e antieroe eponimo di un singolare romanzo di John Williams (Fazi). Singolare perché racconta una vita fallita. Perché racconta una storia che non si muove dal suo baricentro. Perché registra una vicenda umana così simile a tante da non essere, all’apparenza, interessante. E da esserlo proprio perché nella gentilezza e nella non reattività del protagonista riconosciamo le mille vite non avventurose, modeste, sbagliate, moderatamente infelici, ma senza lasciare traccia, che abbiamo incrociato. C’è più che un sospetto di autobiografismo, in Stoner. Anche il suo autore, John Williams, era nato in un ambiente contadino. Williams, come il suo Stoner, si era innamorato della letteratura e aveva cambiato il destino che gli era stato disegnato. Aveva fatto ogni possibile lavoro. Aveva combattuto in India e Birmania durante la guerra, per poi laurearsi al ritorno all’Università del Missouri, proprio quella di Stoner, anche se gli anni sono diversi. Avrebbe insegnato lì per trent’anni e scritto tre romanzi, per essere presto dimenticato – salvo riemergere grazie ai suoi ammiratori, tra cui C. P. Snow, e, recentemente, per essere riscoperto dalla New York Review of Books. E il fascino del libro sta proprio nel metterci attraverso Stoner e la sua storia dalla parte dei dimenticati, degli umiliati e offesi della vita, di chi vive un profondo masochismo da gentilezza, di chi non sa reagire, offendere per difendersi, cambiare le carte in tavola. Basterebbe il racconto della luna di miele di Stoner con la sua giovane moglie, che, quanto a sensazione di disagio, fa il paio solo con il disastro di cui fa la cronaca McEwan in Chesil Beach. O la progressione per cui, mano a mano, i suoi spazi a casa si restringono, senza che lui alzi mai la voce, fino a lasciargli per lavorare poco più che la superficie di un tavolino. O la mitezza con cui, consapevole delle proprie doti limitate, e tuttavia profondamente innamorato del suo lavoro di insegnante e delle gioie che gli dà la letteratura, accetta la guerra, inspiegabile e feroce, che gli fa un collega, umiliandolo di fronte al corpo insegnante del suo college e ai suoi allievi. Quello che David Lodge racconterebbe con irresistibile humour nella vita di Stoner diventa una malinconica minitragedia. E quando finalmente la vita gli offre l’incontro con un’occasione d’amore nella persona di una giovane studiosa, tutto gli si rivolta contro. Il ritorno alla solitudine è il suo destino, e la sua la tragedia di un uomo qualunque che non sa né vuole combattere, che di questa remissività, del fallimento che ne segue, è in qualche misura fiero. Williams registra questa vicenda umana con una prosa in minore, pudica e asciutta, attenta ai dettagli, distaccata e affezionata allo stesso tempo: per un ritratto (un autoritratto?) che ci mette a disagio e non si dimentica.

***

Il riferimento è come di consueto alle posizioni sul Kindle:

I’m too bright for the world, and I won’t keep my mouth shut about it; it’s a disease for which there is no cure. [582]

Like many men who consider their success incomplete, he was extraordinarily vain and consumed with a sense of his own importance. [1012]

He had come to that moment in his age when there occurred to him, with increasing intensity, a question of such overwhelming simplicity that he had no means to face it. He found himself wondering if his life were worth the living; if it had ever been. […] He took a grim and ironic pleasure from the possibility that what little learning he had managed to acquire had led him to this knowledge: that in the long run all things, even the learning that let him know this, were futile and empty, and at last diminished into a nothingness they did not alter. [2888-2894]

He was forty-two years old, and he could see nothing before him that he wished to enjoy and little behind him that he cared to remember. [2914]

“I am not ill,” she said. And she added in a voice that was calm, speculative, and almost uninterested, “I am desperately, desperately unhappy.” [3094]

In his forty-third year William Stoner learned what others, much younger, had learned before him: that the person one loves at first is not the person one loves at last, and that love is not an end but a process through which one person attempts to know another. [3121]

In his extreme youth Stoner had thought of love as an absolute state of being to which, if one were lucky, one might find access; in his maturity he had decided it was the heaven of a false religion, toward which one ought to gaze with an amused disbelief, a gently familiar contempt, and an embarrassed nostalgia. Now in his middle age he began to know that it was neither a state of grace nor an illusion; he saw it as a human act of becoming, a condition that was invented and modified moment by moment and day by day, by the will and the intelligence and the heart. [3130]

He aged rapidly that summer, so that when he went back to his classes in the fall there were few who did not recognize him with a start of surprise. His face, gone gaunt and bony, was deeply lined; heavy patches of gray ran through his hair; and he was heavily stooped, as if he carried an invisible burden. […] he attended faithfully all departmental meetings. He did not speak often at these meetings, but when he did he spoke without tact or diplomacy, so that among his colleagues he developed a reputation for crustiness and ill temper. [3510-3517]

He had wanted love; and he had had love, and had relinquished it, had let it go into the chaos of potentiality. [4427]