Lev Tolstoj – Anna Karenina

Tolstoj, Lev Nikolaevic (1877). Anna Karenina. Milano: Rizzoli. 2012. ISBN 9788858629994. Pagine 944. 0,99 €

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Della difficoltà e della probabile inutilità di recensire i classici ho già detto altrove, a proposito de La montagna magica di Thomas Mann:

Piccolo dilemma, di cui verosimilmente non importa niente a nessuno tranne che a me: che io recensisca capolavori classici universalmente e da tempo acclamati è probabilmente, oltre che inutile, un atto di hỳbris; d’altra parte, ho promesso a me stesso, e ho detto anche a voi (i proverbiali 25 lettori) che avrei recensito, non sempre tempestivamente, tutti i libri che avessi letto.
Dunque, eccomi qui.

Poche e (per una volta) brevi considerazioni:

  1. Perché mi sono ridotto a leggere così tardi nella mia vita un romanzo universalmente considerato un capolavoro? Con l’aggravante che tutti mi considerano un grande lettore e in verità lo sono? L’unica spiegazione che riesco a trovare è che ho letto precocemente Guerra e pace (ricordo la casa e la poltrona dove l’ho letto e posso affermare con certezza che era prima dell’autunno 1969). Guerra e pace è un romanzo bellissimo, ma non breve né leggero. Avevo altri autori da leggere e altre urgenze adolescenziali. Per un po’ sono stato lontano da Tolstoj. Tutto qui.
  2. Perché leggere i classici lo ha scritto Italo Calvino meglio di quanto non potrei fare io, che peraltro ne ho parlato qui.
  3. Tutti i romanzi malriusciti si assomigliano fra loro, ogni capolavoro è un capolavoro a suo modo.

* * *

C’è un passo, secondo me, che da solo sarebbe valso la pena di intraprendere la lettura del romanzo (riferimento come sempre alla posizione sul Kindle).

La primavera non si manifestò per lungo tempo. Le ultime settimane di quaresima c’era un tempo sereno, gelato. Di giorno sgelava al sole, e di notte si giungeva fino ai sette gradi; lo strato di ghiaccio era tale che s’andava sui carri senza strada. Pasqua fu con la neve. Poi a un tratto, il secondo giorno della settimana di Pasqua si levò un vento caldo, si avanzarono le nubi, e per tre giorni e tre notti cadde una pioggia tempestosa e calda. Il giovedì il vento si calmò, e si avanzò una fitta nebbia grigia, come a nascondere i misteri dei mutamenti che si compivano nella natura. Nella nebbia scorsero le acque, scricchiolarono e si spostarono i massi di ghiaccio, si mossero più in fretta i torbidi, spumeggianti torrenti, e proprio in cima alla Kràsnaja Gòrka fin dalla sera si lacerò la nebbia, le nubi corsero via a pecorelle, il tempo si schiarì, e apparve la vera primavera. La mattina il sole vivo che s’era levato divorò in fretta il ghiaccio sottile, che aveva coperto le acque, e tutta l’aria tepida tremò per le evaporazioni della terra rianimatasi.
Verdeggiò l’erba vecchia e la nuova che spuntava in forma di aghi, si gonfiarono le gemme dell’oppio, del ribes e dell’attaccaticcia betulla da spirito, e su un ramo cosparso di color d’oro cominciò a ronzare un’ape lasciata fuori dell’arnia, che svolazzava qua e là. Trillarono le allodole invisibili sul velluto del verde e sulla stoppia gelata, piansero le pavoncelle sulle bassure e nelle paludi riempitesi d’un’acqua bruna che non se n’era andata, e in alto passarono volando con gridio primaverile le gru e le oche. Muggì nei pascoli il bestiame spelato, che solo in qualche punto non aveva ancora mudato, cominciarono a giocare gli agnelli dalle zampe curve intorno alle belanti madri che perdevano il pelo, corsero i ragazzi dalle gambe svelte per i sentieri che s’asciugavano con l’impronta dei piedi nudi, scoppiettarono sullo stagno le allegre voci delle donne con la tela, e batterono per le corti le accette dei muzikí, che aggiustavano gli aratri e gli erpici. Era venuta la vera primavera. [3586: colgo l’occasione per dire che la traduzione è quella classica del 1936 di Leone Ginzburg per Einaudi]

* * *

Molte altre, come è ovvio, le citazioni meritevoli di essere riportate (riferimento ancora alle posizioni sul Kindle).

«[…] Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta d’ombra e di luce.» [1228]

«[…] Essi probabilmente parlavano di me fra loro, o, ancora peggio, ne tacevano…» [1815]

[…] colta col pensiero la situazione e pesatala sulla bilancia interna […] [1844]

Egli, come uomo che aveva vissuto, non stupido e non malato, non credeva alla medicina […] [2844]

«[…] Uno dei due è sciocco. Ebbene, e voi lo sapete, di noi stessi questo non si può mai dire.»
«Nessuno è contento del suo patrimonio, e ognuno è contento della sua intelligenza» disse il diplomatico in tono sentenzioso. [3232]

«[…] La donna, vedi, è una materia che, per quanto tu la studi, sarà sempre completamente nuova.»
«Allora è meglio non studiarla.»
«No. Un certo matematico ha detto che il diletto non è nella scoperta della verità, ma nella sua ricerca.» [3816]

«E allora? Bisognava contare ogni albero?»
«Assolutamente contarli. Ed ecco, tu non li hai contati, ma Rjabínin li ha contati. I figli di Rjabínin avranno dei mezzi per la vita e l’istruzione, e i tuoi magari non ne avranno.» [4010-4011]

[…] giocatore, gozzovigliatore e non solo uomo senza regola, ma con regole immorali […] [4135]

«[…] Dice che siete una vera eroina di romanzo e che, se fosse un uomo, farebbe mille sciocchezze per voi. Strémov le dice che le fa anche così.» [6783: Tolstoj gioca con gli strange loops]

[…] questo scollo quadrangolare, malgrado il petto fosse molto bianco, o precisamente perché esso era molto bianco, toglieva a Lévin la libertà di pensare. [7476]

Quegli attacchi di gelosia, che negli ultimi tempi la prendevano sempre più spesso, gli mettevano orrore, e, per quanto egli cercasse di nasconderlo, lo raffreddavano verso di lei, benché sapesse che la causa della gelosia era il suo amore per lui. [8110]

«Amare chi ti odia, sì; ma amare quelli che tu odi non si può! […]» [8933]

«Ho sentito che le donne amano certi uomini per i loro vizi,» cominciò Anna a un tratto «ma io lo odio per la sua virtù. […]» [9624]

Il ricordo del male arrecato al marito suscitava in lei un sentimento simile alla ripugnanza, e analogo a quello che un uomo che sta per annegare proverebbe dopo aver strappato da sé un uomo aggrappatosi a lui. Quest’uomo era annegato. S’intende, era male, ma era l’unica salvezza, ed era meglio non ricordare questi terribili particolari. [10399]

Egli non lavorava mai con tanto ardore e successo come quando la sua vita andava male, e in particolar modo quando litigava con la moglie. [10517]

Egli sapeva che non si poteva proibire a Vrònskij di divertirsi con la pittura; sapeva che lui e tutti i dilettanti avevano pieno diritto di dipingere quel che pareva loro, ma gli dispiaceva. Non si può proibire a un uomo di farsi una gran bambola di cera e di baciarla. Ma se quest’uomo con la bambola venisse e si sedesse dinanzi a un innamorato e si ponesse a carezzare la sua bambola, come l’innamorato carezza colei che ama, all’innamorato questo dispiacerebbe. Un eguale sentimento spiacevole provava Michàjlov alla vista della pittura di Vrònskij: provava un’impressione e di canzonatura, e di stizza, e di pietà, e di offesa. [10715]

Soltanto allora egli capì chiaramente per la prima volta quello che non capiva quando, dopo le nozze, l’aveva condotta fuori della chiesa. Capì che non solo ella gli era vicina, ma che ora non sapeva dove finiva lei e cominciava lui. Lo capì da quel tormentoso senso di sdoppiamento che sentiva in quel momento. Si offese al primo impulso, ma nel medesimo istante sentì che non poteva essere offeso da lei, che lei era lui stesso. [10779: qualcuno si era chiesto, a suo tempo, se la pelle unisse o dividesse…]

Qualcosa di vergognoso, di molle, di capuano, com’egli lo definiva a se stesso, era nella sua vita di ora. [10862]

Evidentemente si compiva in lui quella rivoluzione che doveva fargli guardare alla morte come al soddisfacimento dei suoi desideri, come alla felicità. Prima ogni desiderio singolo, suscitato da una sofferenza o da una privazione, come la fame, la stanchezza, la sete, era soddisfatto con una funzione del corpo, ma adesso la privazione e la sofferenza non ricevevano soddisfazione, e il tentativo di soddisfazione suscitava una nuova sofferenza. E perciò tutti i desideri si fondevano in uno solo: il desiderio di liberarsi di tutte le sofferenze e della loro fonte, il corpo. Ma per esprimere questo desiderio di liberazione egli non aveva parole, e perciò non ne parlava, ma secondo l’abitudine voleva il soddisfacimento di quei desideri che non potevano più essere soddisfatti. [11248]

Egli occupava ancora un posto importante, era membro di molte commissioni e comitati, ma era un uomo che s’era consumato tutto e da cui non si attendeva più nulla. Qualunque cosa egli dicesse, qualunque cosa proponesse, lo si ascoltava come se ciò che proponeva fosse noto da lungo tempo e fosse proprio quello che non ci voleva. [11516]

E un sorriso furbesco le increspava le labbra, in particolar modo perché, pensando al romanzo di Anna, parallelamente a esso, Dàrja Aleksàndrovna si immaginava un suo romanzo quasi simile, con un immaginario uomo collettivo, che era innamorato di lei. Ella nello stesso modo come Anna confessava tutto al marito. E lo stupore, e la confusione di Stepàn Arkàdjevic’ a questa notizia, la facevano sorridere. [13544]

Se il lavoro messo nell’acquisto del denaro corrispondesse al piacere che procurava quel che veniva comprato con esso, questa considerazione era sfumata già da lungo tempo. [14982]

Questo posto, come tutti i posti simili, esigeva così enormi conoscenze e attività, che era difficile riunirle in una sola persona. E siccome l’uomo che riunisse queste qualità non c’era, tuttavia era meglio che questo posto l’occupasse un uomo onesto, piuttosto che un disonesto. [15908]

Per intraprendere qualcosa nella vita familiare, sono indispensabili o un completo dissidio fra i coniugi o un amorevole accordo. Quando invece i rapporti fra i coniugi sono indefiniti e non c’è né l’uno né l’altro, nessuna cosa può essere intrapresa.
Molte famiglie rimangono per anni nei vecchi luoghi, uggiosi ormai per tutt’e due i coniugi, soltanto perché non c’è né pieno dissidio, né completo accordo. [16333]

Per lei tutto in lui, con le sue abitudini, i pensieri, i desideri, con tutta la sua complessione spirituale e fisica, era una cosa sola: l’amore per le donne, e quest’amore secondo il sentimento di lei doveva essere tutto concentrato su lei sola. Quest’amore era diminuito; per conseguenza, secondo il ragionamento di lei, egli aveva dovuto portare parte dell’amore su altre o su un’altra donna, e Anna era gelosa. Era gelosa per lui non d’una qualche donna, ma della diminuzione del suo amore. Non avendo ancora un oggetto per la sua gelosia, lo cercava. [16345]

«Il rispetto l’hanno inventato per nascondere il posto vuoto dove dev’essere l’amore… […]» [16435]

Vedeva che fra quella generale sollevazione della società si erano messi in luce e gridavano più forte degli altri tutti i falliti e gli offesi; i comandanti in capo senza eserciti, i ministri senza ministeri, i giornalisti senza giornali, i capipartito senza partigiani. [17039]

Giacendo sul dorso, guardava adesso il cielo alto, senza nubi. [17641: è l’autocitazione di un celebre passo di Guerra e pace, quando il principe Andréj giace ferito sul campo di battaglia di Austerlitz:
«Che cos’è? Sto cadendo? Le gambe mi vacillano», pensò, e cadde supino. Aprì gli occhi, ma non vedeva nulla. Sopra di lui non c’era più nulla, se non il cielo: un cielo alto, non sereno, ma pure infinitamente alto, con nuvole grigie che vi strisciavano sopra dolcemente. «Che silenzio! Che quiete! Che solennità!», pensò il principe Andréj, «non è più come quando correvamo gridando e battendoci; non è così che le nuvole scorrono su questo cielo alto, infinito. Come non lo vedevo prima, questo cielo così alto? E come son felice di averlo finalmente conosciuto. Sì! Tutto è vuoto, tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito. Non c’è niente, niente all’infuori di esso. Ma anch’esso non esiste, non c’è nulla all’infuori del silenzio e della tranquillità. E Dio ne sia lodato!…»]

[…] pane, cetrioli e miele fresco. [17714]

«Ma se tu vuoi venire a conoscere lo spirito del popolo per via aritmetica, allora, s’intende, ottenere questo è molto difficile. E il suffragio non è introdotto da noi e non può essere introdotto, perché non esprime la volontà del popolo; ma per questo ci sono altre vie. Si sente nell’aria, si sente nel cuore. Non parlo poi di quelle correnti sottomarine, che si sono mosse nel mare stragrande del popolo e che sono chiare per qualsiasi persona non prevenuta; guarda la società in senso stretto. […]»
«Ma sono i giornali che dicono tutti la stessa cosa» disse il principe. «È vero. Dicono a tal punto la stessa cosa che sembrano proprio rane prima del temporale. Appunto per causa loro non si può sentire nulla.» [17813-17819]

Italo Calvino – Perché leggere i classici

Calvino, Italo (1991). Perché leggere i classici. Milano: Mondadori. 2010. ISBN 9788852015915. Pagine 332. 2,99 €

Perché leggere i classici

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Ho letto questa raccolta postuma di saggi di Italo Calvino (o meglio, l’ho “riletta”, perché i classici si rileggono sempre, non si leggono mai una prima volta) perché Maria Popova ne ha parlato lo scorso 6 luglio 2012 in un post intitolato Italo Calvino’s 14 Definitions of What Makes a Classic.

Il testo che dà il titolo alla raccolta (che fu pubblicata dopo la morte dell’autore dalla moglie) merita da solo la piccola spesa (l’ebook costa meno di 3 euro, ma anche l’edizione Oscar in brossura costa 9,50 e amazon.it la offre a 8,62).

Ricordavo di avere letto questo testo di Calvino, anche se penso di poter escludere di averlo fatto in occasione della sua pubblicazione originaria (sotto il titolo «Italiani, vi esorto ai classici» su L’Espresso del 28 giugno 1981), dal momento che all’epoca non acquistavo né ero un lettore assiduo del pur glorioso settimanale.

Seguirò l’esempio di Maria Popova e metterò soltanto le 14 regole proposte da Calvino, ma vi dico subito che i commenti e le notazioni che seguono ciascuno dei punti sono assolutamente da leggere. Conto di farvi venire voglia di correre a leggere.

  1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo…» e mai «Sto leggendo…»
  2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.
  3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.
  4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.
  5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.
  6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
  7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).
  8. Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
  9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.
  10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani.
  11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
  12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.
  13. È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
  14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità incompatibile fa da padrona. [625-715]

Mi rendo conto, nel riportare questi 14 punti, che ho ceduto anch’io all’insopportabile (perché inflazionata, o meglio inFazionata) mania degli elenchi. Pazienza. Vi risparmio però la lista dei miei dieci classici preferiti.

* * *

Il resto del volume è una raccolta di saggi, articoli occasionali, prefazioni a volumi tenuti insieme da un riferimento non proprio stringente ai “classici”. Certamente, vi si trovano rispecchiate molte preferenze di Calvino. Ma, come spesso accade in questi casi, non tutte le cose sono dello stesso livello, né dello stesso interesse.

Con le sue curiosità e le sue divagazioni, Italo Calvino sarebbe stato un blogger eccelso. Anche soltanto per questo varrebbe comunque la pena di leggere il libro e io, da parte mia, vi metto di seguito un florilegio di citazioni. Il riferimento è come di consueto alle posizioni sul Kindle:

«Dati biografici: io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente.) Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quel che vuol sapere, e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura» [lettera a Germana Pescio Bottino, 9 giugno 1964] [48]

«Credo giusto avere una coscienza estremista della gravità della situazione, e che proprio questa gravità richieda spirito analitico, senso della realtà, responsabilità delle conseguenze di ogni azione parola pensiero, doti insomma non estremiste per definizione» [430: Risposta a un’inchiesta di Nuovi argomenti sull’estremismo, nel 1973]

[Sempre nel 1973] Viene ultimata la costruzione della casa nella pineta di Roccamare, presso Castiglione della Pescaia, dove Calvino trascorrerà d’ora in poi tutte le estati. Fra gli amici più assidui Carlo Fruttero e Pietro Citati. [432: chi sa chi si nasconde sotto il mio pseudonimo sa anche perché riporto questo dato biografico di Calvino]

Nell’inconscio collettivo, il principe travestito da povero è la prova che ogni povero è in realtà un principe che ha subìto un’usurpazione e che deve riconquistare il suo regno. [794: parlando dell’Odissea]

In Senofonte è già ben delineata con tutti i suoi limiti l’etica moderna della perfetta efficienza tecnica, dell’essere «all’altezza della situazione», del «far bene le cose che si fanno» indipendentemente dalla valutazione della propria azione in termini di morale universale. Continuo a chiamare moderna questa etica perché lo era quando ero giovane io, ed era questo il senso che si ricavava da tanti film americani, e anche dai romanzi di Hemingway, e io oscillavo tra l’adesione a questa morale tutta «tecnica» e «pragmatica» e la coscienza del vuoto che si apriva sotto. [920]

D’un solo aspetto della vita umana Plinio non si sente d’indicare primati o di tentare misurazioni e confronti: la felicità. Chi sia e chi non sia felice è indecidibile, in quanto dipende da criteri soggettivi e opinabili. («Felicitas cui praecipua fuerit homini, non est humani iudicii, cum prosperitatem ipsam alius alio modo et suopte ingenio quisque determinet», VII, 130). [1217]

Il falcon che sul nido i vanni inchina,
porta Raimondo, il conte di Devonia.
Il giallo e negro ha quel di Vigorina;
il can quel d’Erbia; un orso quel d’Osonia.
La croce che là vedi cristallina,
è del ricco prelato di Battonia.
Vedi nel bigio una spezzata sedia:
è del duca Ariman di Sormosedia.
[1637: è un’ottava dell’Orlando furioso sull’araldica in cui l’Ariosto traduce buffamente la toponomastica inglese. Meraviglioso «il ricco prelato di Battonia»: pare di vederlo, pallido e grassoccio come il mago Otelma]

«Vedevo immagini aeree che sembravano composte di minutissimi anelli come di una maglia di ferro (“lorica”) sebbene io non ne avessi allora mai viste, e che sorgevano dall’angolo destro ai piedi del letto, salivano lentamente tracciando un semicerchio e scendevano all’angolo sinistro dove sparivano […]» [1742: è una citazione da Gerolamo Cardano e fa pensare alla descrizione di un’aura che precede l’attacco di emicrania]

Di Cardano, Calvino cita anche la passione (anche scientifica) per il gioco d’azzardo, che fu per una parte della sua vita, un modo di sbarcare il lunario:
[…] la passione dominante per il gioco (dadi, carte, scacchi) […] [1763]
[…] un trattato sui giochi d’azzardo (De ludo aleae). Quest’ultima opera ha un’importanza anche come primo testo di teoria della probabilità: così viene studiato in un libro americano che, capitoli tecnici a parte, è molto ricco di notizie e godibile, e mi pare l’ultimo studio apparso su di lui a tutt’oggi (Oystein Ore, Cardano the gambling scholar, Princeton 1953). [1773]

La Luna ospita tra l’altro il Paradiso impropriamente detto terrestre, e Cyrano casca proprio sull’Albero della Vita impiastricciandosi la faccia con una delle famose mele. Quanto al serpente, dopo il peccato originale Dio lo relegò nel corpo dell’uomo: è l’intestino, serpente avvoltolato su se stesso, animale insaziabile che domina l’uomo e lo obbliga ai suoi voleri e lo strazia coi suoi denti invisibili.
Questa spiegazione è data dal profeta Elia a Cyrano che non sa trattenersi da una salace variazione sul tema: il serpente è anche quello che spunta dal ventre dell’uomo e si tende verso la donna per schizzarle il suo veleno, provocando un gonfiore che dura nove mesi. Ma Elia questi scherzi di Cyrano non li gradisce affatto, e a una impertinenza più grossa delle altre lo caccia dall’Eden. Il che dimostra che in questo libro tutto scherzoso, ci sono scherzi che vanno presi come verità e altri detti solo per scherzo, anche se non è facile distinguerli. [1931]

Questo saggio spirito spiega perché i Lunari non solo s’astengano dal mangiare carne, ma anche per gli ortaggi usino particolari riguardi: mangiano solo cavoli morti di morte naturale, perché decapitare un cavolo è per loro un assassinio. Nulla ci dice infatti che gli uomini, dopo il peccato d’Adamo, siano più cari a Dio dei cavoli, né che questi ultimi siano più dotati di sensibilità e di bellezza e fatti più a immagine e somiglianza di Dio. «Se dunque la nostra anima non è più il suo ritratto, non gli somigliamo di più per le mani, i piedi, la bocca, la fronte, le orecchie che il cavolo per le foglie, i fiori, il gambo, il torsolo e il cappuccio». E quanto all’intelligenza, pur ammettendo che i cavoli non abbiano un’anima immortale, forse partecipano d’un intelletto universale, e se delle loro conoscenze occulte non ci è mai trapelato nulla è forse solo perché noi non siamo all’altezza di ricevere i messaggi che ci mandano. [1941: sempre su Cyrano, che ci spiega che i seleniti sono vegani ante litteram]

«l’anima si sazia di tutto quello che è uniforme, anche della felicità perfetta» [2334: è una citazione di Stendhal]

Proprio perché l’esistenza è dominata dall’entropia, dalla dissoluzione in istanti e in impulsi come corpuscoli senza nesso né forma, egli vuole che l’individuo si realizzi secondo un principio di conservazione dell’energia, o meglio di riproduzione continua di cariche energetiche. Imperativo tanto più rigoroso quanto più egli è vicino a comprendere che l’entropia sarà comunque alla fine la trionfatrice, e dell’universo con tutte le sue galassie non resterà che un vorticare d’atomi nel vuoto. [2520: ancora su Stendhal]

Non è mai né comico né tragico, è curioso. [2755: Calvino cita Pavese che parla di Balzac]

«Quale onore, – disse la madre offrendo da baciare una guancia sensibile e affettuosa quanto la parte convessa d’un cucchiaio» [2849: è una citazione da Il nostro comune amico di Dickens]

Capire come Tolstoj costruisce la sua narrazione non è facile. Quel che tanti narratori tengono allo scoperto – schemi simmetrici, travi portanti, contrappesi, cerniere rotanti –, in lui resta nascosto. Nascosto non vuol dire che non ci sia: l’impressione che Tolstoj dà di portare pari pari sulla pagina scritta «la vita» (questa misteriosa entità per definire la quale siamo obbligati a partire dalla pagina scritta) non è che un risultato d’arte, cioè d’un artificio più sapiente e complesso di tanti altri. [2906: a completamento della metafora di Gauss e Renzo Piano]

I racconti che hanno per tema il denaro sono ben indicativi di questa duplice tendenza: rappresentazione d’un mondo che non ha altra immaginazione che economica, in cui il dollaro è l’unico deus ex machina operante, e insieme dimostrazione che il denaro è qualcosa di astratto, cifra d’un calcolo che esiste solo sulla carta, misura d’un valore in sé inafferrabile, convenzione linguistica che non rimanda ad alcuna realtà sensibile. In The Man That Corrupted Hadleyburg (1899), il miraggio d’un sacco di monete d’oro scatena la degradazione morale d’un’austera città di provincia; in The $ 30,000 Bequest (1904) un’eredità fantomatica viene spesa nell’immaginazione; in The £ 1,000,000 Bank-Note (1893), una banconota di taglio troppo grosso attira la ricchezza senza bisogno d’essere investita e neppure cambiata. Nella narrativa dell’Ottocento il denaro aveva avuto un posto importante: forza motrice della storia in Balzac, pietra di paragone dei sentimenti in Dickens; in Mark Twain il denaro è gioco di specchi, vertigine del vuoto. [2996: un utile complemento/collegamento a The End of Money di David Wolman]

Contro alle più diffuse analisi negative dello stalinismo, che partono pressappoco tutte da posizioni trozkiste o bukariniane, cioè parlano di degenerazione del sistema, Pasternak parte dal mondo mistico-umanitario della cultura russa pre-rivoluzionaria, per giungere a una condanna non solo del marxismo e della violenza rivoluzionaria, ma della politica come principale banco di prova dei valori dell’umanità contemporanea. [3424: la la recensione del Dottor Zivago, che pure ha delle intuizioni molto profonde, mi pare troppo condizionata dalla prudenza dovuta all’appartenenza comunista del Calvino dell’epoca]

Il romanzo di Roma, scritto da un non romano. Gadda infatti era milanese e s’identificava profondamente con la borghesia della sua città natale, i cui valori (concretezza pratica, efficienza tecnica, principî morali) sentiva travolti dal prevalere d’un’altra Italia, arruffona e chiassosa e senza scrupoli. Ma anche se i suoi racconti e il suo romanzo più autobiografico (La cognizione del dolore) hanno le radici nella società e nella parlata dialettale di Milano, il libro che lo mise in contatto col grande pubblico è questo romanzo scritto in gran parte in dialetto romanesco, in cui Roma è vista e compresa con una partecipazione quasi fisiologica anche ai suoi aspetti infernali, da sabba stregonesco. [3657]

[…] la Prima guerra mondiale combattuta e sofferta come ufficiale scrupoloso, con l’indignazione che non era mai venuta meno in lui per il male che può essere provocato dall’improvvisazione, dall’incompetenza, dal velleitarismo. Nel Pasticciaccio, la cui azione è supposta svolgersi nel 1927, agli inizi della dittatura di Mussolini, Gadda non si limita a una facile caricatura del fascismo: analizza capillarmente quali effetti provoca sull’amministrazione quotidiana della giustizia il mancato rispetto della divisione dei tre poteri teorizzata da Montesquieu (e il richiamo all’autore dell’Esprit des lois viene fatto esplicitamente). [3676]

[…] Forse un mattino andando in un’aria di vetro, una delle poesie che ha continuato a ruotare più sovente sul mio giradischi mentale […] [3761]

«… riflettei che ogni cosa, a ognuno, accade precisamente, precisamente ora. Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell’aria, sulla terra e sul mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me…» [4257: è una citazione di Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano

«Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte diverse alternative, opta per una ed elimina e perde le altre; non così nell’ambiguo tempo dell’arte, che assomiglia a quello della speranza e dell’oblio.» [4276: ancora Borges]

«Ma la logica è anche un’arte, e l’assiomatizzazione un gioco. L’ideale che si sono costruiti gli scienziati nel corso di tutto questo inizio di secolo è stato una presentazione della scienza non come conoscenza ma come regola e metodo. Si dànno delle nozioni (indefinibili), degli assiomi e delle istruzioni per l’uso, insomma un sistema di convenzioni. Ma questo non è forse un gioco che non ha nulla di diverso dagli scacchi o dal bridge? Prima di procedere nell’esame di questo aspetto della scienza, ci dobbiamo fermare su questo punto: la scienza è una conoscenza, serve a conoscere? E dato che si tratta (sin questo articolo) di matematica, che cosa si conosce in matematica? Precisamente: niente. E non c’è niente da conoscere. Non conosciamo il punto, il numero, il gruppo, l’insieme, la funzione più di quanto conosciamo l’elettrone, la vita, il comportamento umano. Non conosciamo il mondo delle funzioni e delle equazioni differenziali più di quanto “conosciamo” la Realtà Concreta Terrestre e Quotidiana. Tutto ciò che conosciamo è un metodo accettato (consentito) come vero dalla comunità degli scienziati, metodo che ha anche il vantaggio di connettersi alle tecniche di fabbricazione. Ma questo metodo è anche un gioco, più esattamente quello che si chiama un jeu d’esprit. Perciò l’intera scienza, nella sua forma compiuta, si presenta e come tecnica e come gioco. Cioè né più né meno di come si presenta l’altra attività umana: l’Arte». [4430: è una lunga citazione di Queneau]

I versi essendo 14, si avranno virtualmente 1014 sonetti, ossia centomila miliardi. [4547, ma anche 4309: per due volte, parlando di Cent mille milliards de poèmes di Queneau trovo questo curioso errore, 1014 invece di 1014. Nell’edizione Oscar che sono riuscito a consultare su Google Books a p. 294 è scritto correttamente 1014 ma a p. 277 erroneamente 1014]

Italo Calvino cantautore, Fabrizio De André debitore e la creatività combinatoria

Francesco Cevasco pubblica su Il club de La lettura del Corriere della sera un interessante articolo (Italo Calvino cantautore Indie Pop) sul Cantacronache di Sergio Liberovici, Michele Straniero e Fausto Amodei. Nell’invitarvi a leggerlo per conto vostro, mi vorrei soffermare su un aspetto marginale (ovviamente, non marginale per me).

Liberovici, Amodei, Straniero e Margot

Liberovici, Amodei, Straniero e Margot / wikipedia.org

Ma prima, almeno qualche canzone di Fausto Amodei.

Cominciamo dalla mia preferita, Il tarlo (dedicata a Giovanni B., che ha compiuto 62 anni qualche giorno fa).

In una vecchia casa,
piena di cianfrusaglie,
di storici cimeli,
pezzi autentici ed anticaglie,
c'era una volta un tarlo,
di discendenza nobile,
che cominciò a mangiare
un vecchio mobile.

 Avanzare con i denti
 per avere da mangiare
 e mangiare a due palmenti
 per avanzare.
 Il proverbio che il lavoro
 ti nobilita, nel farlo,
 non riguarda solo l'uomo,
 ma pure il tarlo.

Il tarlo, in breve tempo,
grazie alla sua ambizione,
riuscì ad accelerare
il proprio ritmo di produzione:
andando sempre avanti,
senza voltarsi indietro,
riuscì così a avanzar
di qualche metro.

 Farsi strada con i denti
 per mangiare, mal che vada,
 e mangiare a due palmenti
 per farsi strada.
 Quel che resta dietro a noi
 non importa che si perda:
 ci si accorge, prima o poi,
 ch'è solo merda.

Per legge di mercato,
assunse poi, per via,
un certo personale,
con contratto di mezzadria:
di quel che era scavato,
grazie al lavoro altrui,
una metà se la mangiava lui.

 Avanzare, per mangiare
 qualche piccolo boccone,
 che dia forza di scavare
 per il padrone.
 L'altra parte del raccolto
 ch'è mangiato dal signore
 prende il nome di "maltolto"
 o plusvalore.

Poi, col passar degli anni,
venne la concorrenza
da parte d'altri tarli,
colla stessa intraprendenza:
il tarlo proprietario
ristrutturò i salari
e organizzò dei turni
straordinari.

 Lavorare a perdifiato,
 accorciare ancora i tempi,
 perché aumenti il fatturato
 e i dividendi.
 Ci si accorse poi ch'è bene,
 anziché restare soli,
 far d'accordo, tutti insieme,
 dei monopoli.

Si sa com'è la vita:
ormai giunto al traguardo,
per i trascorsi affanni
il nostro tarlo crepò d'infarto.
Sulla sua tomba è scritto:

PER L'IDEALE NOBILE
DI DIVORARSI TUTTO QUANTO UN MOBILE
CHIARO MONITO PER I POSTERI
QUESTO TARLO VISSE E MORI'.

In ordine crescente di notorietà, Se non li conoscete:

LA sua più famosa, Per i morti di Reggio Emilia:

Ed ecco l’incipit dell’articolo di Cevasco:

Italo Calvino cantautore Indie Pop

Primo maggio 1958. Italo Calvino fa il suo esordio come «cantautore». Ma cantautore per davvero. E aveva pure la voce da baritono, finto baritono, quello da troppe sigarette. Al corteo della Cgil a Torino gli altoparlanti gracchiano la canzone Dove vola l’avvoltoio, scritta da Calvino, musicata da Sergio Liberovici. È una canzone con i partigiani buoni, o perlomeno dalla parte giusta, e i nazisti-avvoltoi cattivi. E contro la guerra. E per dire che non era, quella «canzonetta», una divagazione ludica di un già grande scrittore (aveva ormai pubblicato Il barone rampante e Il visconte dimezzato) leggete il confronto tra i versi del più grande cantautore italiano, Fabrizio De André, e quelli di Calvino.

De André, La guerra di Piero, 1964: «Lungo le sponde del mio torrente/ Voglio che scendano i lucci argentati/ Non più i cadaveri dei soldati/ Portati in braccio dalla corrente».

Calvino, Dove vola l’avvoltoio, 1958: «Nella limpida corrente/ Ora scendon carpe e trote/ Non più i corpi dei soldati/ Che la fanno insanguinar».

Ecco, io non penso che sia una coincidenza. Penso, anzi so, anzi ho sempre saputo che De André non esitava a “copiare”. Quando, in quegli anni, ascoltavamo le canzoni di De André, i miei amici e io faticavamo a distinguere, in De André, le canzoni “originali” dalle traduzioni di Brassens, dalle riprese e dagli adattamenti di canzoni popolari o di melodie medievali o medievaleggianti. Ce ne importava ben poco. Alcune ci piacevano e altre no. Su molte avevamo dubbi musicali (a me, almeno, piaceva ben altra musica) ma le parole erano belle e si cantavano bene insieme. Poi de André ha cominciato a collaborare con altri, alla musica e agli arrangiamenti (da Piovani a Mauro Pagani). E non sono mai cessate le libere ispirazioni, da Dylan a Leonard Cohen. Poi è arrivata la santificazione, e l’impossibilità di dubitare di una singola nota o di una singola parola.

Soltanto adesso, forse , siamo abbastanza maturi per sapere che la creatività è sempre combinatoria: le spalle dei giganti e la fame di realtà.

Non sono riuscito a trovare Dove vola l’avvoltoio? (parole di italo Calvino, musica di Sergio Liberovici) cantata dallo stesso Calvino, e non so neppure se esista. In Cantacronache 2 la cantava Pietro Buttarelli:

Un giorno nel mondo
  finita fu l'ultima guerra,
  il cupo cannone si tacque
  e più non sparò,
  e privo del tristo suo cibo
  dall'arida terra,
  un branco di neri avvoltoi
  si levò.

 Dove vola l'avvoltoio?
 avvoltoio vola via,
 vola via dalla terra mia,
 che è la terra dell'amor.

L'avvoltoio andò dal fiume
ed il fiume disse: "No,
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Nella limpida corrente
ora scendon carpe e trote
non più i corpi dei soldati
che la fanno insanguinar".

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò dal bosco
ed il bosco disse: "No
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Tra le foglie in mezzo ai rami
passan sol raggi di sole,
gli scoiattoli e le rane
non più i colpi del fucil".

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò dall'eco
e anche l'eco disse "No
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Sono canti che io porto
sono i tonfi delle zappe,
girotondi e ninnenanne,
non più il rombo del cannon".

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò ai tedeschi
e i tedeschi disse: "No
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Non vogliam mangiar più fango,
odio e piombo nelle guerre,
pane e case in terra altrui
non vogliamo più rubar".

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò alla madre
e la madre disse: "No
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
I miei figli li dò solo
a una bella fidanzata
che li porti nel suo letto
non li mando più a ammazzar"

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò all'uranio
e l'uranio disse: "No,
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
La mia forza nucleare
farà andare sulla Luna,
non deflagrerà infuocata
distruggendo le città".

 Dove vola l'avvoltoio...

  Ma chi delle guerre quel giorno
  aveva il rimpianto
  in un luogo deserto a complotto
  si radunò
  e vide nel cielo arrivare
  girando quel branco
  e scendere scendere finché
  qualcuno gridò:

 Dove vola l'avvoltoio?
 avvoltoio vola via,
 vola via dalla testa mia...
 ma il rapace li sbranò.