Zachar Prilepin – San’kja

Prilepin, Zachar (2006). San’kja (trad. E. Striano). Roma: Voland. 2011. ISBN 9788862432788. Pagine 288. 7,99 €

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Chi ama la lettura lo sa: quando si comincia a esplorare un territorio nuovo – una letteratura, un autore, un filone – si rischia seriamente l’esplosione. Se nelle pagine di ogni nuovo libro letto si trova lo spunto o l’aspirazione per leggerne altri 2 o 3, il percorso di lettura assume immediatamente un andamento esponenziale (è uno dei pochi casi in cui è appropriato usare questa parola abusata). Anche il lettore più curioso e più veloce a leggere ha però dei limiti e si deve rassegnare a leggere linearmente. Un’eterna ghirlanda brillante, direbbe Doug Hofstadter.

Poi ci sono, più rare ma di grande soddisfazione, le convergenze: quando 2 o più libri che hai letto ti indirizzano verso uno stesso libro o autore. A me è successo per questo romanzo di Zachar Prilebin. Da una parte, Luciana Castellina incontra Prilepin e ne racconta nel suo Siberiana, che ho appena finito di leggere:

È qui all’Arsenal [il centro d’arte contemporanea di Nižnij Novgorod – nota mia], e poi anche nel successivo pranzo in un delizioso ristorante stile vecchia Russia – il Pjatkin’ – dotato di arredi e cibi pregiati, che incontriamo una delle rivelazioni della giovane letteratura russa: Zachar Prilepin, autore di un best-seller – Patologie – che trae ispirazione dalla sua personale esperienza negli Omon (i reparti speciali russi) durante la guerra in Cecenia, e di un libro da poco uscito in Italia, San’kja.
Di un Omon, Prilepin ha tutto l’aspetto: quarant’anni, alto e muscoloso, rapato, t-shirt nera. Parliamo della crudezza dei suoi racconti, della violenza di cui sono intessuti. La conversazione si allarga amichevolmente alla politica: Putin – racconta – ha invitato a discutere lui e qualche altro scrittore. Non ne è venuto fuori granché perché il presidente e il suo doppio, Medvedev, non leggono e non si interessano ai libri. “Una volta un mio amico ha chiesto a Putin: ‘Vladimir, nel suo tempo libero, cosa legge?’ La risposta è stata: ‘Mi godo il tempo libero’. Viviamo in due mondi separati”.
Se non entri in politica, però – aggiunge – non ti toccano. “Ma Patologie è molto politico,” obietto. “No,” taglia corto, “è un libro sull’amore. Per la vita”. Ed è vero: l’insensatezza della ferocia risalta ancora di piú perché accostata ai momenti di pietà e a quelli di tenerezza per la sua donna, Daša. Come gli eroi di Sank’ja, che sono brutali, ma anche struggenti nella loro compassione e fragilità.
Prilepin ammette che alla politica non si può sfuggire. Lui però ora vive in campagna, nei pressi di Nižnij Novgorod, con quattro figli che non manda nemmeno a scuola. Preferisce che a educarli sia la natura. (E però all’impegno non deve aver rinunciato perché poi ho scoperto che ha firmato l’appello del Fronte Civile Unito pubblicato sul sito internet “Putin dimettiti” nel 2010. E anche adesso organizza incontri a San Pietroburgo, Mosca e Nižnij che prendono il nome di “Strategia 31”, assemblee di ragazzi dell’opposizione che si riuniscono per rivendicare l’applicazione dell’articolo 31 della Costituzione che sancisce il diritto a radunarsi e ad associarsi).
Nonostante questo impegno, in lui c’è anche un ripiegamento disilluso, come accade a molti. “Il liberalismo borghese progressista da noi ha fallito,” dice. “Lo sanno tutti ormai. Libertà è sinonimo di mafia e le idee perdono di peso: dignità, giustizia, tutte bufale che lasciano indifferenti. La Russia oggi si sente un paese violentato, disgregato in molti pezzi, sente di essere stata venduta per poco”.
Prilepin è stato in passato (e di quella militanza porta tuttora un segno forte) un seguace di Eduard Limonov, il piú singolare e controverso autore russo, esiliato come dissidente negli anni ’70, diventato famoso a New York fra la beat generation, poi a Parigi negli ambienti letterari ufficiali, e tornato in patria nel ’90, dove ha fondato un partito che si chiama nientemeno che Nazional-Bolscevico. Un nome da rabbrividire, senonché Ediška, questo il suo affettuoso nomignolo, è diventato uno scrittore cult fra molti giovanissimi russi, ed è dunque una chiave per capirli. È il solo dissidente sovietico rimasto al cento per cento dissidente anche in Russia, e per questo Putin ha sciolto il suo partito e poi lo ha arrestato, costringendolo a passare quasi tre anni in carcere. [Siberiana, pos. Kindle 315-334]

voland.it

Ed eccola qui, la convergenza: non è soltanto che in passato Prilepin ha militato nei Naz-Bol di Limonov. Non è neppure soltanto che un qualche idem sentire i due lo devono ancora condividere, se anche Limonov milita in Strategia 31, ed è per questo che è stato recentissimamente arrestato il 31 dicembre 2012.

L’arresto di Limonov, il 31 dicembre 2012 (radio3.rai.it)

È che Sank’ja è sostanzialmente la storia di un giovane militante Naz-Bol e del suo gruppo, appena appena nascosto dietro un velo (il partito nazional-bolscevico si chiama partito rosso-bruno, il suo leader in carcere si chiama nel  romanzo Kostenko mentre il vero cognome di Limonov è Savenko …). Inevitabile – almeno per me che ho appena letto il Limonov di Carrère – leggere Sank’ja come la possibilità di accostarsi alla difficile Russia di oggi e alla sua dissidenza radicale da un punto di vista diverso da quello di Carrère.

Per prima cosa, allora, vediamo che cosa Prilepin (per bocca del protagonista del romanzo Saša) ha da dire su Kostenko-Savenko-Limonov:

Sia lui, sia il suo carattere – pensava Saša di Kostenko – sono racchiusi tra le due definizioni di ‘magnifico’ e ‘mostruoso’. Un uomo magnifico capace di gesti mostruosi. Sì, è così… La magnifica sfrontatezza di Kostenko e la sua mostruosa resistenza alla fatica. La parola ‘mostruosa’ qui è in senso metaforico, è vero… Ma appropriata.
E Saša ricordò a un tratto di come si fosse stupito nell’imbattersi in biblioteca, dopo i libri aggressivi di Kostenko – aggressivi in maniera talvolta sofisticata, talvolta indecente – nei suoi versi, infantili, assurdisti, stampati in una o due occasioni tanto tempo addietro, una ventina d’anni prima. Esprimevano una visione del mondo assolutamente irreale, primigenia, come un bambino di un anno che vada conoscendo il mondo e impari a parlare e a interpretare tutto ciò che vede per la prima volta – a interpretarlo autonomamente e a verbalizzarlo senza suggerimenti. Nei versi di Kostenko il mondo era straordinariamente armonioso, primigenio, quale dovrebbe essere o, meglio, quale è: soltanto che a noi ce lo hanno insegnato, presentato, illustrato in maniera inesatta. E da quel momento tante cose le vediamo senza capirne il senso, né lo scopo…
Quella stessa felice capacità di vedere tutto come per la prima volta Kostenko la metteva nei suoi libri filosofici, ma lì di fanciullesco era rimasto poco… Lì di bontà non ce n’era affatto. Vi traspariva talvolta qualche cosa di trascendente, quasi che gli esseri umani avessero deluso Kostenko una volta e per sempre. Le sapeva mostrare, lui, le proprie delusioni.
E mentre gli unionisti sognavano semplicemente di rimpiazzare il potere rivoltante, immorale e bugiardo del paese, Kostenko cercava di pensare come minimo a duecento anni più in là. Ci vedeva qualcosa di mirabolante. Ah, già, quasi dimenticavo, non di mirabolante; di magnifico e mostruoso. [2726]

Direi che combacia come una tessera di puzzle con il ritratto a tutto tondo che ce ne offre Carrère.

Ma questo è un aspetto tutto sommato secondario. Se ero partito con un intento quasi documentario, o storiografico se volete, mi sono però reso conto molto presto di essere davanti un autore vero, e a un romanzo bello e aspro. Ve lo raccomando vivamente e, per parte mia, non mancherò di leggere Patologie.

* * *

Il protagonista del romanzo è Saša, raccontato in terza persona ma con ampi squarci sul suo mondo interiore:

Da quando era diventato un uomo, dall’età di leva, tutto gli era diventato chiaro. Questioni insolubili non ne sorgevano più. Dio c’è. Senza padre si sta male. La madre è buona e cara. La Patria è una.
“La Volga si getta nel Caspio…” si prese in giro Saša, ma senza ridere. Era proprio così.
Ogni suo atto era la conseguenza di presupposti evidenti. [2024]

Ed egli comprese, o forse addirittura sognò, come Dio avesse creato l’uomo a propria immagine e somiglianza.
L’uomo è un immane vuoto frusciante, dove tra atomo e atomo ci sono correnti d’aria e distanze paurose. È il cosmo. Se si guardasse dentro un corpo morbido e caldo – quello di Saša, per esempio – essendo un milione di volte più piccoli di un atomo, tutto apparirebbe proprio così: un cielo frusciante e caldo sopra la testa.
E viviamo dentro un vuoto, sconosciuto, che ci atterrisce. Ma non è poi così terribile: in realtà siamo a casa, dentro qualcosa che è fatta a nostra immagine e somiglianza. [3258]

È falso, Lëva, quando dicono che la vita è fatta di scelte. Tutto quanto esiste di autentico nega il concetto stesso di scelta. [3491]

– Tutto rimarginato, sano come un cane.
– Di solito si dice ‘sano come un pesce’.
– E io sto come un cane. [3721]

Andò al bagno, lì in piedi sentiva la propria faccia resa estranea dall’ubriachezza, quasi fatta di plastilina. Gli sembrava che se avesse strizzato gli occhi e aggrottato la fronte con tutte le forze, dalla faccia si sarebbero staccati pezzetti di una sostanza estranea che ci si era rappresa sopra. [4525]

* * *

Anche Saša – come il principe Andréj in Guerra e pace e Konstantin Dmitrič Levin in Anna Karenina – si trova in una circostanza a osservare il “cielo alto”. Dev’essere un locus immancabile del romanzo russo:

Saša fu gettato in terra e guardò il cielo, che era sgombro.
I tipi, stanchi del loro lavoro da uomini duri, si accesero una sigaretta: a tratti facevano due passi per sgranchirsi, lanciavano occhiate a Saša. Erano stanchi…
Il Grigio gli si accovacciò accanto, di colpo Saša ne udì le vecchie ossa scrocchiare.
– Ascolta, Saša, sei arrivato – disse il Grigio. – E potresti non andartene più. Lo capisci benissimo. Sai quanta ce n’è di gente come te sotterrata qui? E nessuno li cerca. In questo paese non è cambiato e non cambierà mai niente. Bisogna amarlo e custodirlo così com’è. Mi capisci?
Saša fissava il cielo. [3094]

* * *

Poi c’è la storia d’amore con la bella Jana, che ci viene presentata, la prima volta, come “sinceramente indifferente” [120]:

– Mi accompagni? E poi torni… – Jana guardò Saša seria, qualche frazione di secondo più del dovuto. Sul suo volto non c’era l’attesa di una risposta, ma il tentativo di prendere una decisione, o di convincersi di quanto già deciso. [2148]

Invece di rispondere lei si voltò di scatto, ma non verso Saša, verso la bottiglia di champagne sul pavimento. Ne bevve maldestramente a canna, qualche sorso. Riappoggiò la bottiglia sul pavimento, si lasciò cadere sulla schiena, e Saša vide i suoi occhi spalancati, smarriti, e il piccolo seno scoperto. Con una mano prese dolcemente Jana sotto il collo, si chinò e la baciò piano sulle labbra, sfiorandola appena. Sentì odore di champagne e poi la lingua svelta, felina, di Jana e i suoi piccoli denti.
Si baciavano piano, con concentrazione e perfino con cura, quasi come ciechi che si studino con le labbra.
Lui accarezzava Jana: era esile, sottile sottile, e ancora un po’ bagnata dopo la doccia, una leggera e fresca umidità, che soltanto in un punto si rivelò infuocata e sorprendentemente abbondante: lo avvertì con le dita… Lei emise un flebile sospiro.
[…]
Si sdraiò su un fianco vicino a Jana, la prese per una spalla voltandola a sé. Lei non fece resistenza, in un attimo furono faccia a faccia e lei lo abbracciò straordinariamente forte con il braccio libero, alla maniera dei bambini. Si strinse a Saša con il ventre e con il petto, lo baciò sugli zigomi, sul collo, sul mento.
Poggiò una gamba leggera sul bacino di Saša e si scoprì tutta. Lui si lasciò soltanto scivolare appena con il corpo, tenendo Jana per le piccole natiche, e via…
Si guardavano nel buio e non chiudevano gli occhi. A Saša pareva perfino che quelli di Jana si sgranassero sempre più. Quasi lui l’avesse sconcertata e avesse poi continuato a stupirla sempre più.
[…]
Saša non si voltava verso Jana, temendo quasi di sciupare quella dolcezza e quell’intimità, cui poteva essere subentrato qualcosa di assolutamente indesiderato. Ma sentì un tuffo al cuore dalla gioia, perché Jana saltò leggera sul divano letto e guizzò sotto le coperte, gli si sdraiò accanto, a qualche centimetro – e in qualche punto anche millimetro – tanto che i peli bianchi, impercettibili, sui loro corpi, parvero sfiorarsi. Sdraiata, ansante, fremeva come una liscia lucertola di una razza regale e ignota. Forse una lucertola lunare. E si poteva percepire che sorrideva, ma non col viso, né con le labbra, bensì con tutto il corpo esile ed elastico.
Saša la premette sotto di sé, bramoso, irruente e tenace per l’eccitazione. La baciava, la mordicchiava, ogni tanto si faceva indietro, la contemplava.
Capiva bene che lei non sarebbe scappata, non gli si sarebbe sottratta per nulla al mondo, ciononostante la teneva forte per le braccia, se le giaceva sopra, o per le anche e la schiena, se stava sotto.
– Hai questi occhi sfacciati – disse lei con piacere.
[…]
Senza chiudere gli occhi e probabilmente senza neppure essere semincosciente, Saša sentì che lo facevano cadere e lo colpivano diverse volte alla testa e in altri punti – sugli organi che riforniscono d’aria – con manganelli molto elastici. Aria non ce n’era più, ma dentro di sé ne trovava a sufficienza, tanta da permettergli di non respirare con la bocca.
Lo percuotevano a più non posso, a ritmo serrato e via via crescente, e lui si offriva ai colpi, vi tendeva con tutto il corpo. Sopportava l’umiliazione, sentendo di voler urlare, ma di non avere voce. Non c’era bisogno.
Aveva i crampi alle gambe. Picchiate sulle gambe, chiedeva, ho i crampi. Gli sembrava che, più forte l’avessero picchiato, più in fretta il dolore avrebbe abbandonato i muscoli attanagliati da quei duri lacci emostatici. E i muscoli si sarebbero distesi.
[…]
Era chiaro che volevano immortalare il momento della sua morte. Ma gli ultimi flash parvero confusi, sfocati, quasi lo stessero fotografando nella nebbia…
E tutto scomparve.
[…]
A quanto pare, lei lo aveva baciato. Dapprima sentì la sua bocca stanca e bollente – come dopo un tè caldo – e poi il proprio sapore bestiale, quasi svanito, ma ancora vivo sulle sue labbra, mischiato alla sua saliva; e questo era più che sufficiente.
…Più che… sufficiente…
Jana somigliava davvero a una lucertola, con quel corpo sfuggente e rapido. A volte pareva che lei, come una lucertola, non ce la facesse a restare sdraiata sulla schiena e volesse capovolgersi per sparire, guizzare, scappare. Saša la prendeva forte per le braccia, per le spalle, in modo da esaminarla, coglierne il respiro, lo sguardo perennemente fuggevole, le pupille scure e taglienti.
La accarezzava, comprendendo di colpo che la sua pelle non era affatto setosa e liscia, no; al contrario, era dura. E tiepida appena… come… Saša provò a ricordare a cosa somigliasse la sensazione del contatto con la schiena di Jana, con le sue gambe flessuose, e di colpo si vide in spiaggia, d’estate, da ragazzino, steso con il petto e la pancia sul cerchio nero di un pneumatico d’automobile che emanava un odore dolce e pungente, d’acqua, di sole, stordente. [2269-2361]

* * *

Infine, un pezzo di virtuosismo, tanto per farvi capire di che cosa Prilepin sia capace:

Entrò in un supermercato. Passava di banco in banco, ammaliato.
Osservava i pesci, rari perfino per un manuale di zoologia. Immersi nell’olio come metalli preziosi. Un tripudio di gamberi, polpi, aragoste, calamari, granchi, meduse e mitili, abbondanti come se provenissero da vivai del posto, come se li avessero tirati su con il retino nelle acque scandalosamente pullulanti di pesci di un vascone lì accanto. E dopo si chiedessero con qualche salsa servirli.
E poi i formaggi, provenienti da dispense e cantine di fiabe lette tanto tempo prima. Formaggi profumati come le donne più giovani e belle. Formaggi impossibili da mangiare, cui puoi solamente accostare una guancia e piangere.
Carne, una quantità indecente di carne, tanta da perderci la ragione. Una carne tanto nuda e inerme può andar bene all’aria aperta, alla luce di un falò, quando sei stato tu a cacciare, catturare, uccidere la preda: solo in quel caso lo spettacolo di carni sanguinolente, indifese, denudate e scuoiate può avere un senso. Qui invece la esponevano in bella mostra… e noi, cosa abbiamo fatto per meritarla?…
E ancora ghirlande di polli nudi, e oche lunghe e altezzose, anche se spennate e senza testa.
Ortaggi fragranti come in sogno, pomodori grandi e rossi come se ne mangiavano da bambini, cetrioli che non entrerebbero per intero in una natura morta.
Banchi di frutta stracolmi, succulente angurie spaccate a metà, grappoli di uva mollemente adagiati, arance dai fianchi rotondi, mandarini facili da sbucciare, la buccia leggera come un soprabito gettato sulle spalle. Kiwi irsuti come le attrattive maschili di un neanderthaliano, mele di tutti i colori, abbordabili pere, indecenti banane e certi frutti somiglianti all’occhio rosso di un semaforo staccato dai vandali.
File e file di bottiglie di birra, di marche ignote. File e file di bottiglie di vodka dalle forme più disparate, come se a progettarle fossero stati grandi architetti, distoltisi per un attimo dalla costruzione della città del futuro. E ancora alcolici, tanti da non riuscire a ricordare le etichette… [4805]

Emmanuel Carrère – Limonov

Carrère, Emmanuel (2011). Limonov (trad. F. Bergamasco). Milano: Adelphi. 2012. ISBN 9788845973291. Pagine 356. 11,99 €

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I miei lettori – qualcuno più dei 25 che con ironica modestia si attribuiva Manzoni, a dare retta alle statistiche di WordPress – e soprattutto il diretto interessato sanno che ho, in un paio di occasioni (qui e qui), reso nota su questo blog la mia insofferenza per lo stile di conduzione di Attilio Scarpellini della trasmissione mattutina di Rai Radio3 Qui comincia.

E invece qui voglio ringraziarlo pubblicamente per aver segnalato questo libro nella trasmissione dello scorso 3 gennaio 2013 (se volete, potete ascoltare il podcast).

Avevo già incontrato una volta Carrère nelle mie letture, e ancora prima nelle mie visioni cinematografiche. Carrère, infatti, è l’autore di L’avversario (L’adversaire), da cui è stato tratto nel 2002 l’omonimo bellissimo film di Nicole Garcia interpretato da un grandissimo Daniel Auteuil.

Jean-Marc Faure vive in Franca Contea, nei pressi del confine con la Svizzera, assieme alla moglie Christine e i piccoli Alice e Vincent. Da parecchi anni finge di essere ciò che non è: un medico e ricercatore presso l’OMS di Ginevra. Anche i genitori, i suoceri, gli amici e tutti quelli che lo conoscono lo pensano tale, e lui, apparentemente insospettabile, gode di una stima indiscussa.
In realtà ha smesso di dare esami al secondo anno di Medicina, e da allora ha mentito trascinando se stesso e gli altri in un vortice della menzogna da cui non può ormai più uscire. Ogni mattina parte “per il lavoro”, salvo poi sostare per ore in parcheggi fuori mano o affittare stanze d’albergo quando simula improvvise partenze per l’estero, o farsi vedere a Ginevra nei rari casi in cui ha dovuto concordare un appuntamento. Nei frequenti momenti di solitudine cresce in lui il tormento per una vita fittizia che comincia a condurlo, già fragile ab origine, nel baratro della pazzia.
I pochi soldi che è riuscito ad ottenere con la truffa (prevalentemente prestiti) stanno volgendo al termine e la moglie comincia ad avvicinarsi alla verità. Jean-Marc, allora, decide: un giorno di gennaio stermina la famiglia, qualche ora più tardi sopprime i genitori e durante la sera tenta di uccidere anche l’amante Marianne. Poi, per completare il folle disegno, dà fuoco alla casa e ingerisce barbiturici scaduti. Nello sconcerto generale vengono rinvenuti i cadaveri mentre i pompieri portano in salvo lo sventurato pseudo-dottore. (Wikipedia)

Per quanto agghiacciante (anche climaticamente) sia la trasposizione cinematografica, la storia vera raccontata da Emmanuel Carrère lo è ancora di più. E lo è, secondo me, non tanto perché – a differenza di quanto accade nel film – Carrère con cambia nessun nome e nessuna circostanza, ma aderisce con scrupoli da giornalista investigativo a ogni dettaglio, che cerca di ricostruire e chiarire quanto meglio è possibile, ma soprattutto perché “entra” personalmente nella storia che racconta, raccontandoci che cosa stava facendo quando ha sentito per la prima volta del tragico fatto di cronaca, confrontando la sua vita ed esperienza personale con le vicende narrate (come quando si mette un oggetto conosciuto vicino a un manufatto archeologico e a  uno scheletro di dinosauro per farcene apprezzare meglio le dimensioni), seguendo da vicino il processo. Diamogli la parola.

Il 9 gennaio 1993, Jean-Claude Romand ha ucciso moglie, figli e genitori. Poi ha tentato, invano, di suicidarsi. L’indagine ha rivelato che non era un medico come aveva sempre sostenuto e, cosa ancor più difficile da credere, non era nient’altro. Mentiva da diciotto anni, ma la sua menzogna non copriva nulla. Quando stava per essere scoperto, ha preferito sopprimere tutte le persone di cui non avrebbe mai potuto reggere lo sguardo. E’ stato condannato all’ergastolo. Io sono entrato in contatto con lui, ho assistito al suo processo. Ho tentato di raccontare con precisione, giorno dopo giorno, questa vita di solitudine, d’impostura e d’assenza. Di immaginare cosa gli passava per la testa durante le lunghe ore vuote, senza progetti né testimoni, che avrebbe dovuto trascorrere al lavoro e invece passava nei parcheggi autostradali o nel boschi del Jura. Di capire che cosa, in un’esperienza umana tanto estrema, mi ha toccato cosi da vicino. E tocca, credo, ciascuno di noi. [dalla quarta di copertina]

Ecco, con Limonov Carrère realizza un’operazione simile. Eduard Limonov è anche lui una persona vera e vivente, non un personaggio da romanzo (qui sotto la vediamo quando, non più tardi del 31 dicembre 2012, viene arrestato dalla polizia russa in una manifestazione contro Putin).

L’arresto di Limonov, il 31 dicembre 2012 (radio3.rai.it)

Ma Carrère ne fa un ritratto iperrealistico, una statua più grande del vero. Penso che si possa inventare per questo libro il termine meta-iperrealismo, perché Ed Limonov stesso è un’invenzione di Eduard Savenko, un’invenzione prima biografica che letteraria. Bigger than life, si dice in inglese. E perché lo stesso Limonov è autore di oltre 50 volumi e biografo di sé stesso: e questo mi sembra tutt’altro che secondario. Anzi è probabilmente la vera sfida che ha stimolato Carrère: scrivere qualche cosa di nuovo e di diverso, se non di definitivo, su un uomo che di sé ha scritto (e vissuto) tutto e il suo contrario. Diamo, ancora una volta, la parola allo stesso Carrère:

Limonov […] è stato teppista in Ucraina, idolo dell’underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell’immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio. Comunque, […] ho pensato che la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non solamente di lui, Limonov, non solamente della Russia, ma della storia di noi tutti dopo la fine della seconda guerra mondiale. [357]

Il libro è – secondo me – molto bello: si legge d’un fiato e la scrittura di Carrère mi piace. Mi piace anche la traduzione di Francesco Bergamasco, salvo che per 2 dettagli cui, da incorreggibile pedante, attribuisco la massima importanza: l’uso dell’orrendo e burocratico prosieguo (pos. 4465: eppure poteva scrivere “nel resto della serata”) e una curiosa frase in cui i pesci si puliscono asportandone le branchie [pos. 4653: non sarebbe stato più igienico e ragionevole “asportarne le interiora”? Che cosa aveva scritto Carrère?). La cosa migliore che potete fare è andarlo a leggere direttamente, lasciando perdere le mie elucubrazioni.

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Nel caso invece siate rimasti qui: se gironzolate un po’ su YouTube, le interviste a Carrère e al suo Limonov non mancano. Il 16 dicembre 2012 è anche stato intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa?

Ma mi sembra più divertente sentire come the one and only Ed Limonov ha commentato il Premio Renaudot vinto da Carrère per il libro su di lui:

* * *

Qualche citazione (riferimento come sempre alle posizioni sul Kindle).

[…] questa storia dell’opposizione democratica in Russia è come l’arrocco nella dama: un espediente non contemplato dalle regole del gioco, che non ha mai funzionato e non funzionerà mai. [262]

Eduard non ne conosce altri: le famiglie di ufficiali e sottufficiali che abitano nel palazzo dell’NKVD, in via dell’Armata Rossa, si frequentano solo tra loro e hanno scarsa considerazione per i civili, individui frignoni e indisciplinati che si fermano senza preavviso in mezzo al marciapiede, costringendo a modificare la sua traiettoria il soldato che invece cammina con andatura regolamentare, costante e sostenuta: sei chilometri all’ora. Così camminerà Eduard sino alla fine dei suoi giorni. [445: anch’io, per quello che conta, ho fatto dei 6 km/h una regola di vita…]

Eduard capisce allora una cosa fondamentale, ossia che ci sono due categorie di persone: quelle che si possono picchiare e quelle che non si possono picchiare, non perché siano più forti o meglio allenate, ma perché sono pronte a uccidere. È questo il segreto, l’unico, e il bravo piccolo Eduard decide di passare nella seconda categoria: sarà un uomo che nessuno colpisce perché tutti sanno che è capace di uccidere. [537]

«Agisci con coraggio e decisione, senza aspettare che ci siano tutte le condizioni ideali, perché le condizioni ideali non esistono» [590]

Nel mondo dei «decadenti» di Char’kov, infatti, il genio ha il dovere di essere non soltanto misconosciuto ma anche avvinazzato, eccentrico, disadattato. [856]

Il grande adagio dell’epoca, equivalente al nostro «lavorare di più per guadagnare di più», era: «Noi facciamo finta di lavorare e loro fanno finta di pagarci». Non è uno stile di vita esaltante, ma comunque funziona: si tira avanti. Non ci sono pericoli reali, a meno che uno non sia un vero piantagrane. Tutti se ne sbattono di tutto e, chiusi in cucina, rifanno dalle fondamenta un mondo che, a meno di non chiamarsi Solženicyn, si è certi resterà immutato per secoli, perché la sua ragion d’essere è l’inerzia. [974]

Il fatto è che a Eduard non piacciono i culti di cui non sia lui il destinatario. [1257: ne conosco più d’uno…]

A Saltov nessuno ha mai visto né vedrà mai un posto come quello. Nessuno tra gli invitati dei Liberman ha la più pallida idea di che cosa sia Saltov. Lui solo conosce entrambi i mondi, ed è questa la sua forza. [1562]

Uno dei migliori ricordi della vita di Eduard è quello di avere inculato Tanja davanti alla televisione, alla faccia del profeta che arringava l’Occidente e ne stigmatizzava la decadenza. [1610]

Per come la vede Eduard, in amore c’è chi dà e chi riceve, e lui ritiene di aver già dato abbastanza. [1809]

[…] la botte schifosamente piena e la moglie completamente ubriaca […] [2265]

[…] penso che quest’idea – ripeto: «L’uomo che si ritiene superiore, inferiore o anche uguale a un altro non capisce la realtà» — rappresenti il vertice della saggezza e non basti una vita a farsene permeare, ad assimilarla, a interiorizzarla in modo che cessi di essere un’idea e plasmi invece il nostro modo di vedere e di agire in ogni situazione. [2522]

Si sono separati più volte, e più volte rimessi insieme, secondo il classico schema: né con te, né senza di te. [2618]

E non a George Orwell, ma a Pjatakov, un compagno di Lenin, si deve questa frase straordinaria: «Se il partito lo richiede, un vero bolscevico è disposto a credere che il nero sia bianco e il bianco nero». [2699]

[…] c’era dentro di lui un pagliaccio amaro e autolesionista che boicottava l’opera delle fate buone che si erano chinate sulla sua culla. [2787]

Se mi considero incapace di ogni violenza gratuita, riesco pure a immaginare facilmente – forse troppo – le ragioni o le concatenazioni di eventi che in altre epoche avrebbero potuto spingermi al collaborazionismo, allo stalinismo o alla rivoluzione culturale. Forse tendo anche troppo a chiedermi se fra i valori accettati senza discutere dal mio ambiente – i valori che le persone del mio tempo, del mio paese e della mia classe sociale giudicano irrinunciabili, eterni e universali – non possa essercene qualcuno che un giorno risulterà grottesco, scandaloso o semplicemente sbagliato. [3428]

I moldavi erano talmente poveri che sognavano di ridiventare romeni, il che è tutto dire. [3816]