Nato questo giorno nel 1845, a Pamiers, Ariège.
La sua opera più famosa è il Requiem in re minore, opera 48, che era anche la colonna sonora di un bellissimo film di Paul Vecchiali (Corpo a cuore: riporto sotto la recensione di Giovanni Grazzini, comparsa sul Corriere della sera all’epoca).
Ma guardando su Imdb, scopro che è stato utilizzato in molte colonne sonore, da Broken flowers a La sottile linea rossa.
Nonostante il tema funereo, è una musica sensualissima, ai limiti del disfacimento…
Né “corpo a corpo” né “cuore a cuore”, ma “corpo a cuore”. Fin dal titolo il film si annuncia una contaminazione: verbale, ma anche di affetti e linguaggi. Dunque un gioco espressivo, che – diciamolo subito – sta in rischioso equilibrio sulla corda dello spettacolo, popolare e coltissimo, grazie al talento d’un regista d’origine corsa, Paul Vecchiali, fatto conoscere dalla Biennale cinema del ’74 ai cinéphiles e che nello scorso settembre, ancora a Venezia, ci dette il deludente C’est la vie. Corpo a cuore è ora, per la grande platea, la prima occasione d’incontro con Vecchiali. Il nostro consiglio è di non mancare all’appuntamento. Il film è infatti molto diverso dalla produzione corrente: non lo diremmo stupendo, come taluno vorrebbe, ma attraente e talvolta ammirevole. Spesso bizzarro, sempre gradevole all’occhio. E a suo modo molto romantico, se è questo che il pubblico vuole, perché tutto d’amore e di morte. E tutto passione, con musica bella e dolci paesaggi.
C’è, al centro, Pierrot, un trentenne che fa il meccanico in un’officina della periferia parigina. Gran rubacuori, ma anche appassionatissimo di musica classica, s’invaghisce d’una sconosciuta sui cinquanta vista al concerto. Com’è sua abitudine, la vuole subito, la vuole tutta. La donna, rivelatasi la proprietaria d’una farmacia, gli dice subito di no: non precisa nemmeno se si chiama Jeanne o Michèle. E Pierrot si dispera: piange come un bambino, scazzotta un amico che lo sfotte, lascia il lavoro, poi si piazza notte e giorno davanti alla farmacia, s’inginocchia e supplica quell’anima di ghiaccio fra la curiosità dei passanti. È un assedio in piena regola, che sembra dar frutto quando la donna gli dichiara di essere affetta da un male incurabile e di aver deciso di trascorrere con lui i tre mesi di vita che le restano. Fuga dei due in Provenza, e trionfo d’amore fra i campi. Richiamato Pierrot a Parigi per una festa d’amici, l’incanto si rompe. A lui che si offre di sposarla, Jeanne-Michèle dichiara d’averlo ingannato. Di non essere affatto condannata, ma di aver voluto provare cos’è un grande amore, e d’esserne sazia. Pierrot stupisce, ferito nell’orgoglio, e torna a disperarsi quando la donna gli rivela d’essersi avvelenata, e lo scongiura d’aiutarla, e gli muore tra le braccia. Né noi né Pierrot sapremo mai il perché di quel gesto, ma serberemo di lei un’immagine sorridente, come fosse ancor viva, mescolata alla folla. Giacché nessuno muore, finché il cuore ne serba memoria…
L’originalità del film è, si è detto, nella sua natura di cocktail. Nel rifarsi ai modelli del realismo francese degli anni Trenta (dichiarati nella dedica al regista Jean Gremillon) ma nel calarli in una struttura duttilmente più moderna, nel mischiare echi farseschi a tocchi lirici, notazioni sociologiche a timbri da bozzetto populista e a scorci erotici. E nell’esprimere così quell’intreccio fra ragioni dell’anima e ragioni della carne che tocca il suo vertice misterioso nella follia della passione, cui conviene un unico commento, quello della musica. Dedicato anche al compositore Gabriel Faure, il film trova appunto nel suo “requiem Opus 48” e nella sua pavana il filo che lega situazioni e figure a un universo d’irrealtà, proprio del melodramma cui Vecchiali ambisce. I risultati sono più convincenti nella prima metà, perché poi la matassa s’ingarbuglia e il racconto un po’ sbanda, ma il film serba quasi ovunque un fervore visivo inconsueto. Per dire i segreti del cuore umano, e lasciarli indecifrati, Vecchiali costruisce una trama fittissima di personaggi, moltiplica le prospettive, passa dal tragico al comico. con una scioltezza rara. Il segreto di Corpo a cuore sta nel connubio fra l’irragionevolezza della sua materia e l’indisciplina della sua forma. Siamo, ripetiamo, sul filo del rasoio, in una tastiera di finzioni e rifrazioni, sui più vari registri, che un cinema vivacissimo e corposo rende molto piacevole.
I protagonisti hanno trovato nel vanitoso Nicolas Silberg (esordiente nel cinema dopo aver fatto teatro e Tv) e soprattutto in Hélène Surgère due attori di ottima scuola, ma non è trascurabile nemmeno l’apporto dei molti altri, fra cui Madeleine Robinson che fa la madre di Pierrot, ai quali sono spesso affidati compiti da comprimari, sia come abitanti del vicolo dove parte dell’azione è ambientata sia come dati di riscontro d’una condizione umanissima, dunque percorsa di presagi funesti e di vene grottesche. [Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera, 10 ottobre 1980]