Apparecchio automatico situato specialmente nei locali pubblici, contenente un giradischi e numerosi dischi di musica leggera che possono essere selezionati e ascoltati mediante inserimento di monete o gettoni (De Mauro online).
Molto interessante l’etimologia. Originariamente, l’aggeggio si chiamava nickel-in-the-slot ed era diffuso nei bar e nei locali di ritrovo. Particolarmente in quelli lungo le vie di comunicazione, dove si poteva bere e ballare tutta notte (e forse anche godere di qualche altro piacere). Questo tipo di locali, negli anni Trenta e Quaranta, nel sud degli Stati Uniti si chiamava juke joint, e juking voleva dire “andare in giro a trovare un posto per divertirsi” o anche semplicemente “ballare”. Le “macchine da musica a pagamento” onnipresenti in quei locali cominciarono a essere chiamate Juke-box per antonomasia, piuttosto che nickel-in-the-slot.
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Adesso viene il bello. Juke è una parola arrivata all’americano dal Gullah, lingua parlata dagli afro-americani della Carolina del sud e della Florida: juke significa “cattivo” e da questo dovrebbe essere chiaro che le juke joints erano luoghi malfamati, se non case di malaffare. A sua volta, il termine Gullah è una chiara derivazione delle lingue dell’Africa occidentale, dato che in Wolof, ad esempio, dzug significa “vivere malamente”.

giovedì, 22 Maggio 2008 alle 22:39
Nel mio liceo esisteva una variante umana del jukebox. A quei tempi noni si parlava di bullismo, al limite di nonnismo.
Il nostro jukebox era costituito da un armadietto di dimensioni medio-piccole in finto legno in cui veniva rinchiuso uno del ginnasio (il jukebox umano era rigorosamente di sesso maschile). Poi da una fessura laterale veniva inserita una monetina e il malcapitato doveva cantare il pezzo richiesto. Se non cantava o cantava male (a giudizio insindacabile degli astanti) l’armadio veniva scosso vigorosamente. Mi sembra che il significato originario del termine si adatti molto bene alla variante umana del jukebox