Necropoli

Pahor, Boris (1966). Necropoli. Roma: Fazi. 2008.

Ho letto, come quasi tutti i miei coetanei (almeno spero), molti libri sui campi nazisti: a partire da Primo Levi, naturalmente. Questo di Pahor è molto bello, anche sotto il profilo letterario, se è lecito applicare una categoria di questo genere a un libro dal contenuto tanto orribile, raggelante. Letteralmente. Ma sono in buona compagnia: la pensa così anche Claudio Magris, anche chi ha proposto più volte l’autore per il Nobel della letteratura, anche gli ascoltatori di Fahrenheit che proprio ieri l’hanno votato libro dell’anno.

Eppure questo libro ha dovuto attendere quasi 40 anni per essere tradotto in italiano (Pahor, nato a Trieste, è di lingua e cultura slovena) in un’edizione locale e qualche anno ancora per essere ripreso e diffuso da un editore nazionale. Perché? Presto detto. Gli italiani, noi italiani, siamo responsabili di 25 anni di repressione anti-slovena a Trieste e in Venezia Giulia. Di italianizzazione forzata. Ancora oggi non riconosciamo agli sloveni nella sostanza la dignità linguistica e culturale che riconosciamo ad altre minoranze. Pahor, e tanti come lui, sono finiti in campo di concentramento come diretta conseguenza della nostra politica anti-slovena. I più non sono tornati.

Certo, questo non giustifica le fòibe. Nel mio caso non aiuta nemmeno a capirle, perché penso che orrore non scaccia orrore. Ma spiega, almeno, perché mi ripugna che a Trieste ci sia chi (e sono molti) chiama sciavi (schiavi) gli slavi, senza sapere o senza ricordare che è un epiteto che gronda sangue, e sangue innocente. E spiega anche il mio fastidio per la retorica nazionale che riempie le pagine dei giornali (non soltanto di quelli fascisti, anche di quelli indipendenti) quando cercano di “bilanciare” l’orrore e la scientifico-burocratica distruzione della vita nei campi di concentramento e annientamento (Vernichtung, parola tedesca, quasi hegeliana, che mi fa sempre venire la pelle d’oca), contrapponendo alla giornata della memoria del 27 gennaio una giornata del ricordo (delle fòibe) celebrata il 10 febbraio.

Ma sentiamo la pacata voce di Boris Pahor, prima dal libro e poi in 2 interviste:

Già in gioventù ogni illusione ci era stata spaz­zata via dalla coscienza a colpi di manganello e ci erava­mo gradualmente abituati all’attesa di un male sempre più radicale, più apocalittico. Al bambino a cui era capi­tato in sorte di partecipare all’angoscia della propria co­munità che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro. Il cielo color sangue sopra il porto, i fascisti che, dopo aver cosparso di benzina quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi attorno al grande rogo: tutto ciò si era impresso nel suo animo infantile, traumatlzzandolo. E quello era stato soltanto l’inizio, perché in seguito il ragazzo si ri­trovò a essere considerato colpevole, senza sapere contro chi o che cosa avesse peccato. Non poteva capire che lo si condannasse per l’uso della lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo. Tutto divenne ancora più mostruoso quando a decine di migliaia di persone furono cambiati il cogno­me e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abi­tanti dei cimiteri. Ed ecco che quella soppressione, du­rata un quarto di secolo, raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l’individuo a un numero. [pp. 42-43]