Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Gadda, Carlo Emilio (1957). Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. In: Romanzi e racconti II. Milano: Garzanti. 2007.

Non penso di doverlo dire io (molti l’avranno certo detto in modo più autorevole) ma siamo qui davanti a uno dei grandi romanzi del Novecento. Su scala mondiale, intendo dire. Ma c’è qualcosa di più, secondo me, che affratella questo romanzo agli altri grandi che vengono in mente: ed è la sensazione che la realtà sia un inestricabile garbuglio senza un discernibile senso e che la città, la grande città, sia il più ambizioso tentativo umano di mettere ordine al caos.

Gadda – bravo ingegnere oltre che grande scrittore – la sua ipotesi la illustra fin dalla seconda pagina:

Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.­» sosteneva, tra l’altro, che le inopinate catatastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui un’opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quannome chiammeno!… Già. Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano.

La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». [pp. 16-17]

Va da sé che, date queste premesse, ci troviamo davanti a un poliziesco sui generis e non ci aspettiamo di trovare un colpevole, e tanto meno una causa, o causale che sia.

Prima di tornare al tema principale (il caos e la città), consentitemi una digressione sullo gnommero e sullo gliuommero. Lo “gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo” non l’ho trovato attestato altro che in questo celebre brano gaddiano, ed è dunque un hapax [in linguistica e in filologia, un hapax, dal greco ἅπαξ λεγόμενον (hàpax legòmenon, “detto una volta sola”) è una forma linguistica (parola o espressione), che compare una sola volta nell’ambito di un testo, di un autore o dell’intero sistema letterario di una lingua]. Lo gliuommero è invece attestato nel Vocabolario Treccani, sia pure nella variante gliommero.

glïòmmero s. m. [lat. glŏmusmĕris «gomitolo»]. – Voce del dialetto napoletano («gomitolo»), usata anche per indicare un componimento poetico dei secoli 15° e 16°, formato di una serie di endecasillabi con rima al mezzo, in cui si affastellano gli argomenti più varî, allusioni a fatti del giorno, ricordi di vecchie storie, proverbî, ecc.

Ma, per tornare ai grandi romanzi del Novecento, ecco la Roma fascista di Gadda gemellarsi con la Dublino di Joyce (quella di Ulysses e ancora di più quella di Finnegans Wake – che però quasi nessuno ha letto e che nemmeno io sono riuscito a finire), la Praga di Kafka (penso soprattutto a Il processo e a Il castello), la Vienna di Musil (L’uomo senza qualità; Musil non è un ingegnere, ma si laureò in filosofia sulle teorie di Mach…) e, in misura minore, la Parigi di Proust (Alla ricerca del tempo perduto).

Al “nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero”, al caos del reale si contrappone l’ordine cercato della città (e della legge), letteralmente come un meccanismo a orologeria progettato per imbrigliare il caso:

Da ritta, ove il piano s’infoltiva di abitacoli e discendeva a fiume, Roma gli apparì distesa come in una mappa o in un plastico: fumava appena, a porta San Paolo: una prossimità chiara d’infiniti penzieri e palazzi, che la tramontana avea deterso, che il tepido sopravvenire di scirocco aveva dopo qualche ora, con la cialtroneria abituale, risolto in facili imagini e dolcemente dilavato. La cupola di madreperla: cupole, torri: oscure macchie de’ pineti. Altrove cinerina, altrove tutta rosa e bianca, veli da cresima: uno zucchero in una haute pâte, in un mattutino di Scialoia. Pareva n’orloggione spiaccicato a terra, che la catena dell’acquedotto claudio legasse… congiungesse… alle misteriosi fonti del sogno. [p. 191]

E subito dopo, per me irresistibile (anche se poco ci azzecca con quanto andiamo argomentando – o forse un po’ sì, essendo un altro modo di mettere ordine ancorché morto al vitale brulicante caos) questa annotazione sui tempi della burocrazia:

Come delle pere, delle nespole, anche il maturare d’una pratica s’insignisce di quella capacità di percettibile macerazione che la capitale dell’ex-regno conferisce alla carta, si commisura ad un tempo non revolutorio, ma interno alla carta e ai relativi bolli, d’incubazione e d’ammollimento romano. S’addobbano, di muta polvere, tutte le filze e gli schedari degli archivi: di ragnateli grevi tutti gli scatoloni del tempo: del tempo incubante. Roma doma. Roma cova. In sul pagliaio de’ decreti sua. Un giorno viene, alfine, che l’ovo della sospirata promulga le erompe alfine dal viscere, dal collettore di scarico del labirinto decretale: e il relativo rescritto, quello che abilita il macilento petente a frullar quel cocco, vita natural durante a frullarlo, vien fulgorato a destino. In più d’un caso ci arriva insieme l’Olio Santo. Abilita il destinatario entrato in coma, carta canta villan dorme, a esercitar quell’arte assonnata, quel mestieruccio zoppo che aveva tocche tocche esercitato fin là, fino all’Olio: e che d’allora in poi, de jure decreto, si studierà esercitare un po’ per volta all’inferno con tutto l’agio partecipatogli dall’eternità. [pp. 191-192]

Naturalmente, la recherche d’Ingravallo (e nostra) resta frustrata. Anche se il nostro “cercava, cercava di tirar le somme a ragione: di tirare i fili, si sarebbe detto, all’inerte burattino del probabile.” [p. 272]

Sono tentato di iscriverlo come motto o impresa dei miei propositi: “Tirare i fili all’inerte burattino del probabile”.

Del film e della canzone di Alida Chelli parleremo un’altra volta. Consentitemi invece di concludere con questo vertiginoso baccanale, in cui un topazio diventa un topaccio trasformato da Circe nella pineta di Castel Porcano/Porcino…

Avea veduto nel sonno, o sognato… che diavolo era stato capace di sognare?… uno strano essere: un pazzo: un topazzo. Aveva sognato un topazio: che cos’è, infine, un topazio? un vetro sfaccettato, una specie di fanale giallo giallo, che ingrossava, ingrandiva d’attimo in attimo fino ad essere poi subito un girasole, un disco maligno che gli sfuggiva rotolando innanzi e pressoché al di sotto della ruota della macchina, per muta magia. La marchesa lo voleva lei, il topazio, era sbronza, strillava e minacciava, pestava i piedi, la faccia stranita in un pallore diceva delle porcherie in veneziano, o in un dialetto spagnolo, più probabile. Aveva fatto una cazziata al generale Rebaudengo perché i suoi carabinieri non erano buoni a raggiungerlo su nessuna strada o stradazia, il topazio maledetto, il giallazio. Tantoché al passaggio a livello di Casal Bruciato il vetrone girasole… per fila a dest! E’ s’era involato lungo le rotaie cangiando sua figura in topaccio e ridarellava topo-topo-topo-topo: e il Roma.Napoli filava filava a tutta corsa dietro al crepuscolo e pressoché già nella notte e nella tenebra circèa, diademato di lampi e scintille spettrali sul pantografo, lucanocervo saturato d’elettrico. Fintantoché avvedutosi come non gli bastava a salvezza chella rotolata pazza lungo le parallele fuggenti, il topo-topazio s’era derogato di rotaia, s’era buttato alla campagna nella notte verso le gore senza foce del Campo morto e la macchia e l’intrico del litorale pometino: le donne del casello strillavano, gridavano ch’era ammattito: lo fermassero, lo ammanettassero: il locomotore lo rincorreva in palude, coi due occhi gialli tutta perscrutava e la giuncaia e la tenebra fino laggiù, dove i nomi si diradano, appiè il monte della contessa Circia, ove luminarie e ghirlande dondolavano sopra le altane a lido, nello spiro seròtino del mare. Nereidi, ivi, appena emerse dal flutto e subito ignudàtesi della lor veste d’alghe e di spuma fra l’andirivieni dei camerieri in bianco e de’ sifoni ghiacci e delle fistule, solevano allegrare la notte fascinosa di Castel Porcano. La contessa, tra languide nenie, dimandava una fiala al sonno, all’oblio: ai ghirigori vani, agli smarrimenti del sogno. Del sogno di non essere. A Castel Porcino, sotto festoni di pere gialle da due watt e palloncini sbronzi e dolcemente obesi nell’alitare e nello smorire d’ogni mèlode, la maga dalla tabacchiera in apertura (perpetua) elicitava al fiuto gli imminenti suini, coloro che di quel filtro, e di quell’olezzo, erano per tornare in porci grifuti, dopo essersi fatti orecchiuti asini a la scuola: del manganello del machiavello. Già le alunne si divincolavano, bianchissime eccettoché il trigono cesputo, da ogni torquente veto dei padri, si storcevano in una muta profferta: che di moresca lenta e ritenuta sarabanda s’esaltava a mano a mano fino al ritmo trocàico d’una estampida, ove il bàttito risoluto del piede regalasse fiere arsi al piancito: mentre la sùbita erezione e lo scotimento e del collo e del capo ridava all’abisso i capelli, significando la indomita alterezza e della cervice e dell’animo, ribadita dal taratatà delle nàcchere. Intervenendo indi nel coro l’aggressione degli ignudi (e non per anco ebefatti) la stampita si esasperava a sicinnide, a danza simulatamente apotropàica: una frotta di spaurite mamillone facevan le viste d’aborrire un branco di satiri, di farsi schermo e ricovero e delle mani e della fuga verso i rubescenti e fumiganti lor tirsi: di già mezzo imbecillati, per vero, delle trasmodate officiature: del naso. Piombatogli in quel punto tra le gambe come la nera fólgore d’ogni solletico e d’ogni nero evenire, il topaccio pazzo aveva impaurato a un tratto le belle. Schegge d’un cuore esploso, erano chizzate via in ogni direzione in ogni canto, dimesso d’un subito, alla sola vista di quella spiritata pantegana, il loro ancheggiante e mamillato sacerdozio. Ed erano gridi ed acuti da non dire, mentre saettava qua e là il baffone come cocca di balestra, nera acuminata polpetta. Molte, smemoratesi d’essere ignude, avevano fatto il gesto d’abbassare la gonna ai ginocchi, a proteggere una delicatezza indifesa: ma la gonna se la sognaveno. E la delicatezza artrettanto.

Così, nel delirio, avevano domandato scampo alla fuga, agli specchi del padùle, alle ombre dei giunchi, alla notte, all’argentata macchia dei lecci, dei pini a lido, alle risciacquature libere del lido, signoreggiato da bullicante maretta: altre, poetesse ed oceanine precipiti da le scogliere lunari del circèo, s’erano buttate a le spume del frangente. Ma la contessa Circia ebriaca arrovesciava il capo all’indietro, ricadendole i capelli zuppi (mentre palloncini gialli ridevano e dondolavano in cinese) nella torpida benignità della notte: zuppi d’uno shampo di white label: la fenditura della bocca, quale in un salvadanaio di coccio, s’inarcava sguaiata fino a potersi appuntare agli orecchi, le spaccava il volto come il cocomero dopo la prima incisione, in due batti batti, in due sottosuole di ciabatte: e dagli occhioni strabuzzati, che gli si vede il bianco di sotto a l’iridi come d’una Teresa riposseduta dal demonio, le gocciolavano giù per il volto lacrime etiliche, stille azzurrine>: opalescenti perle d’un contrabbandato pernod. Invocava la fiasca del ratafià, chiamava le sovvenzioni del Papà, del Papè, del grande Aleppo; dell’invisibile Onnipresente, ch’era, tutt’al contrario dell’Onnivisibile fetente salutato salvatore d’Italia, onnipotente nel praticare il solletico, ogni maniera di solletico: quanto era quello impotente a combinare checchefosse, e men che meno le sue verbose bravazzate. Stillava perle azzurrine, lacrime di àloe, di terebinto e di wodka: arrovesciato il capo, smarriti nella notte i capelli, coi due diti pollice indice con un topazio giallo cadauno aveva sollevato la gonna, sul davanti, palesato a tutti che ciaveva le mutanne. Ce l’aveva, la santa donne, le mutanne: sì sì ce l’aveva ce l’aveva. Lo spiritato ratto aveva infilato quella via, ch’era la via del dovere per lui e per l’annasante sua fifa, le rampicava ora le cosce come un’edera, grasso e nel suo terrore fremente, la faceva ridere e ridere a cascatella grulla, smaniare dal solletico: ecco là: ce l’aveva di cartone e di gesso, le mutanne, quella volta. Perché una volta in vita le avevano ingessato la trappola. [pp. 192-194]

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6 Risposte to “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”

  1. .mau. Says:

    gliommero, come suono per lo meno, lo si studiava a scuola 🙂

  2. Notizie dai blog su L'attesa: quer pasticciaccio brutto de Via Berlusconiana Says:

    […] Quer pasticciaccio brutto de via Merulana Gadda, Carlo Emilio (1957). Quer pasticciaccio brutto de via Merulana . In: Romanzi e racconti II . Milano: Garzanti. 2007. Non penso di doverlo dire io (molti l’avranno certo detto in modo più autorevole) ma siamo qui davanti a uno dei grandi romanzi del Novecento. Su scala mondiale, intendo dire. blog: Sbagliando s'impera | leggi l'articolo […]

  3. Yo Says:

    In calabrese reggino esiste “jommarù” (la j pronunciata cone in ja) che vuol dire appunto gomitolo, secondariamente può indicare l’organo sessuale maschile.

    • borislimpopo Says:

      In molti dialetti italiani e nella stessa lingua madrfe, tantissime parole hanno un secondo significato che rimanda ai genitali, maschili o femminili, all’accoppiamento in tutte le sue combinazioni e varianti, eccetera. Quindi il fatto che “jommarù” abbia anche un significato osceno non mi sorprende. Quello che trovo stupefacente è che una parola che significa primariamente “gomitolo” denoti anche l’organo sessuale maschile, che nell’immaginario collettivo maschile, in piena attività e nel suo fulgore virile, a tutto dovrebbe assomigliare fuorché a un gomitolo.

  4. Tiresia e la sinestesia « Sbagliando s'impera Says:

    […] andiamo in ordine perché c’è un groviglio o gnommero da dipanare, ed è opportuno farlo in modo più accorto di Tiresia. Cominciamo dal significato di […]

  5. Maximus Says:

    Vorrei solo ricordare che lo gliommero (gomitolo) è un tipo di componimento di Jacopo Sannazzaro.


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