La Germania alle prese con una macchina infernale – Financial Times

Dell’editoriale di Gideon Rachman comparso sul Financial Times il 13 febbraio scorso ne hanno parlato in molti (compreso il Daily Mail che l’ha riprodotto tal quale e, da noi, Panorama con un riassuntino in un articolo di Stefano Cingolani) ma pochi l’hanno letto.

Penso che valga la pena di farlo.

La Germania alle prese con la macchina infernale

ft.com

Germany faces a machine from hell – FT.com

Much of the current German-bashing is wild and unfair. But there is one respect in which Germany does bear responsibility for the current crisis. Germany was in the forefront of the countries pushing for the creation of the euro. And yet it is increasingly apparent that creating a single currency, without a single nation behind it, is at the root of the current crisis.

When Chancellor Merkel talks of the need for “political union” in Europe as the long-term solution to the current crisis, she is acknowledging this design flaw. But political union must involve deep losses of national sovereignty. And the current crisis shows that Greeks, Germans and Italians do have one important thing in common – a deep aversion to ceding control of their national budgets.

The result is that the euro is in a dangerous and unstable position. The actions that are being urged on Germany are unreasonable. But Germany’s own solution – structural reform now, political union later – is unworkable.

Amid all these dangers, German officials remain outwardly calm. They shrug off the insults, while continuing to pledge financial aid to southern Europe and to make the case for supply-side reforms as the only long-term solution to the woes of the European periphery.

Behind the scenes, however, some of the brightest minds in the German government have a sense of deep foreboding. Twice in the past year I have found myself sitting next to different senior German officials at a dinner who have proceeded to tell me that the whole single currency was a terrible mistake. Speaking of the euro, one of my companions said: “It seems to me that we have invented a machine from hell that we cannot turn off.” The image was so bleak and Strangelovian that I laughed. But, I am afraid, it’s not really very funny.

Qui o si disfa l’Italia o si muore

COPAFF: Commissione Tecnica Paritetica per l’Attuazione del Federalismo Fiscale

Le conseguenze delle riunioni [1]

Qualche giorno fa, il 14 febbraio, Rachel Emma Silverman ha pubblicato sul Wall Street Journal un articolo intitolato “Dov’è il capo? In riunione” (Where’s the Boss? Trapped in a Meeting) in cui confermava che la credenza che chi ricopre posizioni dirigenziali passi una parte consistente del suo tempo in riunioni non soltanto è fondata, ma documentata quantitativamente da una serie di ricerche condotte dalla London School of Economics e dall’Harvard Business School nell’ambito di un progetto internazionale sull’uso del tempo dei manager (Executive Time Use Project). Secondo il progetto citato, il tempo trascorso in riunione è più di un terzo del tempo di lavoro settimanale.

Executive Time Use Project

Executive Time Use Project / The Wall Street Journal

Il working paper di cui parla l’articolo del WSJ, Span of Control and Span of Activity, è stato pubblicato l’11 febbraio 2012 dalla Harvard Business School da 4 autori, di cui 3 italiani (Oriana Bandiera, Andrea Prat, Raffaella Sadun e Julie Wulf). Gli autori hanno indagato un campione di 65 CEO (direttori generali) presenti a un corso della Harvard Business School, per 2/3 di imprese americane e per il resto di aziende europee e asiatiche. Con riferimento a una settimana rappresentativa, per intervista diretta e attraverso l’agenda tenuta dall’assistente personale, gli autori sono stati in grado di ricostruire la giornata e la settimana di lavoro di questi manager con una “definizione” temporale di 15 minuti. In media, gli intervistati hanno lavorato per 55 ore la settimana, di cui 18 spese in riunioni, più di 3 in telefonate e 5 in pranzi di lavoro. Al lavoro da soli erano dedicate in media 6 ore su 55. Circa 3/4 del tempo speso in riunioni è dedicato a riunioni interne, e l’impegno temporale cresce al crescere del numero di collaboratori che rispondono direttamente al CEO.

Interessante la discrepanza tra la percezione dei CEO rispetto al loro impiego del tempo e le evidenze emergenti dalle agende tenute dagli assistenti: i CEO pensano di impiegare più razionalmente il loro tempo e di dedicarne meno alle riunioni. Eppure, l’82% delle riunioni risulta essere stato programmato in anticipo, e la maggior parte delle riunioni interne vede coinvolta una pluralità di partecipanti.

Lo studio più recente riprende i temi di una ricerca precedente, condotta all’estero da 4 ricercatori italiani (Oriana Bandiera, Luigi Guiso, Andrea Prat e Raffaella Sadun; 3 sono coautori dello studio riassunto in precedenza) e “generosamente finanziata” (lo dicono gli autori) dalla Fondazione Roberto Debenedetti. La ricerca si era concentrata sui vertici di 94 imprese italiane e circola in rete, per quello che ho potuto vedere io, in almeno due versioni, peraltro pressoché identiche: una, datata 8 ottobre 2010, la trovate qui; l’altra, datata 25 febbraio 2011, si scarica da qui.

Il risultato saliente della ricerca “italiana” è che l’allocazione del tempo dei direttori è fortemente correlata alla produttività e alla profittabilità dell’impresa. A sua volta, la performance aziendale dipende in misura cruciale dalle scelte dei vertici: le riunioni esterne non danno un apporto significativo alla produttività, mentre le riunioni interne si associano a performance migliori.