Un’accusa frequente a chi si riconosce in una visione naturalistica dell’universo è che un approccio scientifico e razionale impoverisce la vita, privandola delle dimensioni delle emozioni e dei sentimenti. Non per sparare sulla Croce rossa, ma il primo esempio che viene in mente, qui e ora, è il Gramellini che se la prende con gli algoritmi:
La dittatura dell’algoritmo è l’ultimo rifugio di un certo tipo di persone, per lo più maschi intellettuali con il cuore a forma di granchio e gli occhi a forma di dollaro, che non riuscendo più a sentire niente si illudono di domare le loro insicurezze con una serie di algide formulette attinte dalla marea di dati personali che le nuove tecnologie mettono a disposizione. [Massimo Gramellini, “Abbasso gli algoritmi“, La Stampa del 6 novembre 2013; lo stesso Gramellini ha poi fatto una parziale marcia indietro]
Invece, a me pare che le emozioni più profonde vengano da quella comprensione dei fenomeni che (a parer mio, va da sé) soltanto la scienza sa offrire.
Nessuna tragedia è più grande, o più universale, del secondo principio della termodinamica, nelle sue diverse formulazioni:
- È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo senza l’apporto di lavoro esterno (formulazione di Clausius).
- È impossibile realizzare una trasformazione ciclica il cui unico risultato sia la trasformazione in lavoro di tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea (formulazione di Kelvin-Planck).
- È impossibile realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%.
- In un sistema isolato l’entropia è una funzione non decrescente nel tempo (quest’ultima è oggi la formulazione più diffusa, per motivi che vedremo in un prossimo post).
Il principio fu scoperto intorno al 1850, ma opera dal momento del big bang: da allora l’entropia dell’universo (il sistema isolato per eccellenza) è sistematicamente cresciuta (o, più esattamente, non è mai diminuita).
Probabilmente è soltanto una coincidenza che nei medesimi anni Richard Wagner – nel disegnare nell’Anello del Nibelungo la sua personale cosmogonia – abbia contaminato una visione “ciclica” delle età del mondo, mutuata dalle filosofie e dalle religioni orientali per il tramite della filosofia di Schopenauer, con l’idea che i cicli non si ripetano sempre eguali, ma che nella ripetizione si degradino inesorabilmente. Singolarmente vicina alla formulazione di Kelvin-Planck, no?
L’Anello è, in fin dei conti, il racconto dell’origine dell’universo e dell’era degli dei, fino al crollo (al crepuscolo) di quel mondo, reinterpretato a partire dalle leggende nordiche (Ragnarok). Ogni intervento di Wotan nella storia è un tentativo maldestro, che causa il degrado della preesistente armonia: ogni toppa è peggio del buco.
Al termine della vicenda, il Valhalla crolla in una tempesta di fuoco, appiccato dalla pira di Sigfrido, innocente strumento delle macchinazioni del dio. Ma al tempo stesso il Reno straripa e con le sue acque il mondo si rigenera: l’oro è tornato in seno al fiume primigenio, il vulnus è stato risanato (non dalle gesta di un eroe, ma dall’amore di una donna, che per amore ha rinunciato a essere dea), tutto può ricominciare da capo, in un ciclo nuovo.
L’Anello si chiude con un tema, chiamato dai wagneriani doc «Redenzione d’amore», che era comparso una sola volta in precedenza, nella scena della Valchiria in cui Sieglinde scopre di essere incinta di Sigfrido: quello della redenzione attraverso l’amore è un tema scopertamente schopenaueriano (nella versione che ho messo qui sotto cominciate a sentirlo da poco prima del 16° minuto, mescolato con gli altri leitmotiv, e poi da solo, purissimo, da 17’30” alla conclusione).
L’Anello era cominciato con un altro tema (quello della «Quiete della natura primigenia»), un mi bemolle grave suonato dai contrabbassi e tenuto per 136 battute, su cui via via si innestano gli altri temi legati alle onde e al fluire del Reno.
Comincia tutto con due note … un mib in ottava grave eseguito da otto contrabbassi, secondo la leggenda il suono emesso dal Reno scorrendo! Su queste due note Wagner costruisce un tema sul quale le Ondine figlie del Reno cominciano a giocare tra loro proteggendo l’Oro che giace sul fondo da possibili ladri. Certo è Wagner, non Smetana (La Moldava), e ci vogliono 4 minuti prima che il fiume si sia formato e le Ondine facciano la loro apparizione! [Affrontiamo la Tetralogia (Parte I). L’Oro del Reno: una strana storia di anelli e mele!]
Non a tutti questo incipit convince. Mario Bortolotto, per esempio, è molto critico:
Singolarmente, il Ring, che è anche una enorme allegoria della processualità musicale, dello stesso comporre, s’apre con un elemento discutibile. Wagner vuole cogliere l’essenza elementare del mondo, l’acqua, le onde del Reno: nel profondo nuotano e scherzano le figlie del fiume: ancora un’allitterazione: «Traulich und treu / ist’s nur in der Tiefe» [Sicuro e fido è solo nel profondo]. È il mondo innocente, in cui non è penetrato l’inganno della coscienza, che, come la décadence nietzschiana, si inizia con l’insorgere del pensiero. È questo uno dei momenti che Adorno ha riportato a fantasmagoria: sedurre col suono. Si ha – per 136 battute – un unico accordo di mi bemolle maggiore. [Mario Bortolotto. Wagner l’oscuro. Milano: Adelphi. 2003. p. 229]
Ho citato queste considerazioni per onestà intellettuale: è possibile, forse addirittura probabile che la scelta di Wagner, di cui parleremo tra un momento, abbia tutto a che fare con la décadence nietzschiana e nulla con il secondo principio della termodinamica. E che anche Nietzsche e Schopenauer non fossero minimamente toccati dallo Zeitgeist, neppure inconsciamente, e che dunque non ci sia nessuna, neppure confusa, consapevolezza cosmologica in Wagner.
Eppure …
Quando il tema ricompare verso la fine del Crepuscolo degli dei, il mi bemolle maggiore si è abbassato di un tono: è diventato un re bemolle. Suggestivo pensare che Wagner abbia voluto segnalare in questo modo l’aumento dell’entropia tra un ciclo cosmico e il successivo: di nuovo la formulazione di Kelvin-Planck («È impossibile realizzare una trasformazione ciclica il cui unico risultato sia la trasformazione in lavoro di tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea»).
L’idea discende da un’intuizione di Teodoro Celli (l’anti-Bortolotto, verrebbe da dire):
Quanto alla nota fondamentale dei contrabbassi, essa rimane immobile, per centotrentasei battute, cioè finché non incomincia il canto delle Figlie del Reno: è la più lunga e ristagnante di tutta la letteratura musicale, vero prologo nel prologo. È la «parola originaria delle parole». Vogliamo proporre un’ipotesi paradossale? (Ma nel paradosso è sempre contenuta una verità.) Potremmo ipotizzare che questa nota duri, quale insensibile ma pur esistente «pedale», per tutta la Tetralogia, come eco del big bang originario (analogamente alle ipotesi che si fanno oggi in cosmologia); e che via via «s’abbassi», però, quasi per decadenza della tensione, fino a scendere di un tono, sul finire del Crepuscolo degli Dei, e a divenire re bemolle. Paradosso; ma da meditare. [Teodoro Celli, L’Anello del Nibelungo. Milano: Rusconi. 1983. p. 101]
Più ipotesi spericolata che paradosso: ma proprio per questo ne sono sempre stato affascinato.
D’altro canto, mi pare che si muova nella stessa direzione Isaiah Berlin in un passo della sua ultima opera, The Roots of Romanticism. Berlin ha appena individuato la “sindrome byroniana” nella polarità tra volontà da una parte (quella che forse Daniel Dennett chiamerebbe intentional stance) e assenza di struttura del mondo dall’altra:
The whole of the Byronic syndrome consists in adhesion to the two values which I have tried to expound, the will and the absence of a structure of the world to which one must adjust oneself. From Byron the syndrome passes to others, to Lamartine, to Victor Hugo, to Nodier, to the French romantics in general; from them it goes further, to Schopenhauer, who sees man as being tossed in a kind of frail bark upon a vast ocean of the will, which has no purpose, no end, no direction, which man can resist only at his own peril, with which man can come to terms only if he manages to rid himself of this unnecessary desire to order, to tidy himself up, to create a cosy home for himself in this wild and unpredictable element. From Schopenhauer it goes on to Wagner, whose whole sermon in The Ring, for example, is the appalling nature of unsatisfiable desire, which must lead to the most fearful suffering and ultimately to the immolation in the most violent fashion of all those who are possessed by a desire which they can at one and the same time neither avoid nor satisfy. The result of this must be some kind of ultimate extinction: the waters of the Rhine rise and cover this violent, this chaotic, this unstoppable, this incurable disease by which all mortals are affected. That is the heart of the romantic movement in Europe. [Isaiah Berlin. The Roots of Romanticism. Londo: Random House. 2000. Posizione Kindle 2515]
Per Schopenhauer e per Wagner, secondo Berlin, il desiderio che non si può né evitare né soddisfare è un’affezione dei mortali, cui è preferibile il destino della morte termica prefigurata dalle acque del Reno. Ma dal punto di vista speculare, quello dei viventi, l’unica possibile strategia è quella di contrastare localmente e temporaneamente l’inesorabile progresso dell’entropia. Questo, e questo soltanto, è propriamente la vita.
Ne parleremo in un prossimo post.
lunedì, 6 gennaio 2014 alle 21:56
[…] Wagner e la termodinamica [La decrescita felice 2] […]
giovedì, 30 Maggio 2019 alle 18:15
[…] o comunque di essere (in questo caso) un lettore difficile. Come ho scritto altrove (per esempio qui), sono un wagneriano fanatico, e la mitologia nordica (reinterpretata) è al fondamento […]