Alexandre Dumas – Il conte di Montecristo

Dumas, Alexandre (1844). Il conte di Montecristo (trad. Lanfranco Binni). Milano: Garzanti. 2011. ISBN 9788811132165. Pagine 1313. 1,99 €

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Avrei voluto scrivere qualche cosa di intelligente su Il conte di Montecristo, ma mi sono dovuto arrendere all’evidenza: tutte le cose intelligenti sull’argomento le ha già scritte Umberto Eco (ne metto comunque uno stralcio alla fine di questa recensione). Ed eccomi costretto a scrivere cose, se non proprio cretine, quanto meno irrilevanti.

Prima considerazione: ho preferito questa edizione a quella storica della BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), che pure riporta il saggio introduttivo di Umberto Eco, perché quella si avvale della vecchia traduzione attribuita a Emilio Franceschini: un traduttore di cui non si sa nulla, ed è probabilmente una finzione editoriale (si tratterebbe in realtà di una traduzione anonima dell’Ottocento). La sua traduzione non è soltanto lontana dal testo dell’edizione critica – che nel frattempo (1993) è stata stabilita da Claude Schopp, autorevole studioso di Dumas, e pubblicata dall’editore Robert Laffont – ma è anche zeppa di tagli e censure: ad esempio, non consente a Dumas di paragonare i suoi personaggi a dio (Luigi Vampa per Dumas è beau, fier et puissant comme un dieu ma per Franceschini è soltanto bello, superbo e potente). Quanto ai tagli, basti questo esempio:

Dumas (Franz d’Epinay sperimenta per la prima volta l’ebbrezza dell’hashish):
Alors ce fut une volupté sans trêve, un amour sans repos comme celui que promettait le Prophète à ses élus. Alors toutes ces bouches de pierre se firent vivantes, toutes ces poitrines se firent chaudes, au point que pour Franz, subissant pour la première fois l’empire du haschich, cet amour était presque une douleur, cette volupté presque une torture, lorsqu’il sentait passer sur sa bouche altérée les lèvres de ces statues, souples et froides comme les anneaux d’une couleuvre; mais plus ses bras tentaient de repousser cet amour inconnu, plus ses sens subissaient le charme de ce songe mystérieux, si bien qu’après une lutte pour laquelle on eût donné son âme, il s’abandonna sans réserve et finit par retomber haletant, brûlé de fatigue, épuisé de volupté, sous les baisers de ces maîtresses de marbre et sous les enchantements de ce rêve inouï.
Franceschini:
Allora, per Franz che subiva la prima volta l’effetto dell’hashish, fu una voluttà, un amore come quello che prometteva il Vecchio della Montagna ai suoi seguaci.

Seconda considerazione: la copertina di questa edizione è bellissima. È Il disperato di Gustave Courbet, uno dei miei pittori preferiti, ed è in realtà un suo autoritratto. È un quadro di piccole dimensioni (per gli standard di Courbet, 45 x 55 cm) ed è stato dipinto nel 1843: cioè è coevo con il romanzo.

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Terza considerazione. Avevo letto Il conte di Montecristo in gioventù (e quanto alle letture, e a nient’altro, la mia gioventù è stata singolarmente precoce). Naturalmente in un’edizione “per ragazzi”, tagliata non soltanto delle parti più cupe e scabrose, ma anche di quelle (a insindacabile giudizio del signor censore di cui sopra) più noiose e meno interessanti per un ragazzo. Il risultato è stato (per me) che alcune parti mi sono risultate del tutto nuove, mentre altre erano ancora presenti in tutta la loro vividezza nei miei ricordi. Soprattutto i capitoli iniziali, fino alla fuga dalla fortezza e l’arrivo all’isola del tesoro. Ha evidentemente ragione Robert Louis Stevenson, un altro che di romanzesco se ne intendeva:

La prima parte di Montecristo, fino alla scoperta del tesoro, è un pezzo perfetto di racconto a effetto; non c’è mai stato un uomo che abbia partecipato a queste commoventi avventure senza un fremito, eppure Faria è un personaggio di cartapesta e Dantès poco più di un nome. Il seguito non è che il dilungarsi di un errore, cupo, sanguinoso, innaturale e stupido; ma quanto a questi primi capitoli, non credo esista un altro volume nel quale si possa respirare la stessa inconfondibile atmosfera di romanzo.

Quarta considerazione: l’idea che la vendetta è perfetta soltanto se si realizza nel contrappasso, cioè rovinando i colpevoli con gli stessi mezzi con cui hanno realizzato le loro malefatte e le loro fortune, è alla base – oltre che de Il conte di Montecristo – di un film che ho adorato (probabilmente al di là dei suoi meriti: L’abominevole dottor Phibes con Vincent Price:

Quinta, ultima e secca considerazione: vendicatore per vendicatore, superuomo per superuomo, romanzo d’appendice per romanzo d’appendice, 1840 per 1840, preferisco I misteri di Parigi di Eugène Sue.

* * *

Le mie annotazioni (saltatele se volete, ma ricordatevi che ancora più sotto metto uno stralcio del celebre saggio di Eco; riferimento alle posizioni Kindle).

[…] era uno di quegli uomini calcolatori che nascono con una penna dietro l’orecchio e un calamaio al posto del cuore; per lui in questo mondo tutto era moltiplicazione e sottrazione, e una cifra gli sembrava decisamente più preziosa di un uomo, quando tale cifra poteva accrescere il totale che quell’uomo poteva diminuire. [1936; ecco il modello per i «maschi intellettuali con il cuore a forma di granchio e gli occhi a forma di dollaro» cari a Gramellini]

«Non nella loro applicazione; nei loro principî, sì: imparare non è sapere; ci sono gli eruditi e i sapienti: è la memoria a fare i primi, ma è la filosofia che fa i secondi». [3290]

[…] quel muro di granito impenetrabile come l’avvenire. [6017]

[…] Albert era partito da Parigi con la convinzione che in Italia avrebbe riscosso il più grande successo, per poi deliziare il boulevard de Gand con il racconto dei suoi trionfi.
Ahimè! niente di tutto questo: le incantevoli contesse genovesi, fiorentine e napoletane, si erano conservate, non per i loro mariti ma per i loro amanti, e Albert aveva maturato la crudele convinzione che le italiane avessero sulle francesi almeno il vantaggio di restare fedeli alla propria infedeltà. [6745]

[…] il meglio è nemico del bene». [6909]

[La] cucina italiana, cioè una delle peggiori cucine del mondo. [7088]

“Svegliatemi soltanto per le cattive notizie”. [7798: la massima è attribuita a Napoleone]

“Ho rischiato di attendere!” [8795: questa invece a Luigi XIV]

[…] in Italia si paga la giustizia per farla tacere, ma in Francia al contrario la si paga quando parla. [8897]

“A tutti i mali ci sono due rimedi: il tempo e il silenzio”. [9440]

La baronessa alzò le spalle con un’aria di profondo disprezzo.
Danglars non sembrò neppure accorgersi di questo gesto più che coniugale […] [9722]

[…] l’applicazione dell’assioma Fai vedere che ti dai importanza, e ti sarà data importanza, assioma cento volte più utile nella nostra società di quello dei greci Conosci te stesso, rimpiazzato ai giorni nostri dall’arte meno difficile e più vantaggiosa di conoscere gli altri. [9877]

«[…] Non è l’albero a lasciare il fiore, è il fiore che lascia l’albero». [10103]

Nessuno è più avido di palchi di un milionario quando non costano nulla. [10719]

[…] Delacroix, il nostro Rubens moderno […] [12095]

[…] tutti i vini dell’Arcipelago, dell’Asia Minore e del Capo […] [12399: non il Capo di Buona Speranza, temo]

[…] cupitor impossibilium […]  [12421: detto di Nerone da Tacito]

«Sapete, signore – disse la baronessa, imperturbabile, – che state facendo dei progressi? Di solito siete solo grossolano, questa sera siete brutale». [12773]

È raro che ciò che si desidera ardentemente non sia difeso con tenacia da coloro dai quali si vuole ottenerlo o ai quali si tenta di sottrarlo. Così la maggior parte delle cattive azioni degli uomini sono venute loro incontro mascherate sotto la forma pretestuosa della necessità; poi, commessa la cattiva azione in un momento di esaltazione, di timore o di delirio, ci si rende conto che si sarebbe potuto passarle accanto evitandola. [13069]

«Mio caro visconte – disse Montecristo, – avete il dono fatuo dell’impertinenza». [14899]

«Questo perché, mio caro amico, capirete, non bisogna mai essere categorici. Quando si vive con dei pazzi, bisogna fare il proprio tirocinio di follia […]». [15420]

«Importante e urgente» disse. [16097]

Come tutti i nuovi ricchi era stato costretto, per mantenersi all’altezza del suo rango, a ostentare un’eccessiva superbia. L’antica nobiltà rideva di lui, gli uomini d’ingegno lo evitavano, gli uomini celebri lo disprezzavano istintivamente. [16740]

[…] aveva ascoltato imperturbabile tutta questa tirata ma senza capirne una parola, assorto com’era, da uomo abituato ai secondi fini, a cercare il filo delle proprie idee nelle idee dell’interlocutore. [18136]

[…] senza condividere, in linea generale, la vostra simpatia per la franchezza, mi ci sottometto quando mi sembra conveniente. [18178]

Io non disprezzo i bancarottieri, credetemi, ma i bancarottieri che si arricchiscono, non quelli che si rovinano. [18227]

«Fate attenzione: un consiglio è peggio di un favore». [18321]

La signora Danglars, dal suo punto di vista, e sventuratamente in questo mondo ognuno ha il proprio punto di vista che gli impedisce di comprendere il punto di vista degli altri […]. [18754]

[La folla,] ugualmente avida del lusso e del lutto dei ricchi […]. [19402]

Ben presto Marsiglia, bianca, tiepida, animata; Marsiglia, la sorella minore di Tiro e di Cartagine, a loro succeduta nel dominio del Mediterraneo; Marsiglia, sempre più giovane quanto più invecchia, apparve ai loro occhi. [20795]

[…] quegli affaccendati senza faccende, o piuttosto dai mille espedienti, che a Roma presidiano le porte delle banche, delle chiese, delle rovine archeologiche, dei musei o dei teatri. [21153]

[…] in questo mondo non ci sono né felicità né infelicità, esiste solo il confronto tra una condizione e l’altra, ecco tutto. [21739]

* * *

Il promesso estratto dal saggio di Umberto Eco, Elogio del “Montecristo” (Umberto Eco. Sugli specchi e altri saggi: Il segno, la rappresentazione, l’illusione, l’immagine. Milano:Bompiani):

Il conte di Montecristo è senz’altro uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d’altra parte è uno dei romanzi più mal scritti di tutti i tempi e di tutte le letterature.
Il Montecristo scappa da tutte le parti. Pieno di zeppe, spudorato nel ripetere lo stesso aggettivo a distanza di una riga, incontinente nell’accumulare questi stessi aggettivi, capace di aprire una divagazione sentenziosa senza più riuscire a chiuderla perché la sintassi non tiene, e così procedendo e ansimando per venti righe, è meccanico e goffo nel disegnare i sentimenti: i suoi personaggi o fremono, o impallidiscono, o si asciugano grosse gocce di sudore che colano loro dalla fronte, o balbettando con una voce che non ha più nulla di umano, si alzano convulsamente dalla sedia e vi ricadono, con l’autore che si premura sempre, ossessivamente, di ripeterci che la sedia su cui son ricaduti era la stessa su cui erano seduti un secondo innanzi.
Perché Dumas facesse così, lo sappiamo bene. Non perché non sapesse scrivere. Il Tre Moschettieri è più secco, rapido, magari a scapito della psicologia, ma fila via che è un piacere. Dumas scriveva così per ragioni di denaro, era pagato un tanto a riga e doveva allungare. A parte che mentre scriveva a due mani il Montecristo stava nel frattempo stendendo la Signora di Monsoreau, i Quarantacinque, il Cavaliere della Maison Rouge e iniziava a pubblicare il romanzo da Pétion quando ancora il feuilleton doveva finire (né lui sapeva come, interrompendosi talora per sei mesi) sul Journal des Débats (siamo tra il 1844 e il 1846).
Ecco che si spiegano così quelli che altrove ho chiamato “dialoghi a cottimo” (rinvio al mio Il superuomo di massa) dove gli interlocutori, andando a capo a ogni battuta, si dicono per una o più pagine frasi di puro contatto, come due scioperati in ascensore: allora vado, bene vai, addio allora, addio, ci rivedremo?, forse stasera, lo spero bene, posso prendere congedo?, ti prego, sei sui carboni ardenti, buongiorno, grazie di tutto, allora vado, vai, addio.
[…]
Per non dire dell’esigenza, comune a tutto il romanzo d’appendice, anche per ricuperare i lettori disattenti da puntata a puntata, di una ripetizione ossessiva del già noto, così che un personaggio racconta un fatto a pagina cento, ma a pagina centocinque incontra un altro personaggio e gli ripete paro paro la stessa storia – e si veda nei primi tre capitoli quante volte Edmond Dantès racconta a cani e porci che intende sposarsi ed è felice: quattordici anni al castello d’If sono ancora pochi per un piagnone di questa razza.
E poi gli equilibrismi metaforici, da circo, da vecchia nonna arteriosclerotica che non riesce a tenere la consecutio temporum... C’è per esemio una sequenza di similitudini mirabile (ma se ne potrebbero trovare a centinaia) nel capitolo sul telegrafo ottico (LXII) dove la vecchia torre sulla collina, vetusta e slabbrata, è paragonata a una vecchietta: “On n’eût pas dit, à la voir ainsi ridée et fleurie comme une aïeule à qui ses petit-enfants viennent de souhaiter la fête, qu’elle pourrait raconter bien des drames terribles, si elle joignait una voix aux oreilles menaçantes qu’un vieux proverbe donne aux murailles”.
[…]
Detto questo bisogna tornare all’affermazione d’inizio. Montecristo è uno dei romanzi più appassionanti che mai siano stati scritti. In un colpo solo (o in una raffica di colpi, in un cannoneggiamento a lunga gittata) partendo dalla storia sciapa di Peuchet riesce a inscatolare nello stesso romanzo tre situazioni archetipe capaci di torcere le viscere anche a un boia.
Anzitutto, l’innocenza tradita. In secondo luogo l’acquisizione, per colpo di fortuna, da parte della vittima perseguitata, di una fortuna immensa che lo pone al di sopra dei comuni mortali. Infine la strategia di una vendetta in cui periscono personaggi che il romanzo si è disperatamente ingegnato a rendere odiosi oltre ogni limite del ragionevole.
Ma non basta. Su questa ossatura si dipana la rappresentazione della società francese dei cento giorni e poi della monarchia di Luigi Filippo, coi suoi dandie, i suoi banchieri, i suoi magistrati corrotti, le sue adultere, i suoi contratti di matrimonio, le sue sedute parlamentari, i rapporti internazionali, i complotti di Stato, il telegrafo ottico, le lettere di credito, i calcoli avari e spudorati di interessi composti e dividendi, i tassi di sconto, le valute e i cambi, i pranzi, i balli, i funerali.
E su tutto troneggia il topos principe del feuilleton, il Superuomo. Ma diversamente che in Sue (I misteri di Parigi) e in tutti gli altri artigiani che han tentato questo luogo classico del romanzo popolare, Dumas del superuomo tenta una sconnessa e ansimante psicologia, mostrandocelo diviso tra la vertigine dell’onnipotenza (dovuta al denaro e al sapere) e il terrore del proprio ruolo privilegiato, in una parola, tormentato dal dubbio e rasserenato dalla coscienza che la sua onnipotenza nasce dalla sofferenza. Per cui, nuovo archetipo che si innerva sugli altri, il conte di Montecristo (potenza dei nomi) è anche un Cristo, dovutamente diabolico, che cala nella tomba del castello d’If, vittima sacrificale dell’umana malvagità, e ne risale a giudicare i vivi e i morti, nel fulgore del tesoro riscoperto dopo secoli, senza mai dimenticare di essere figlio dell’uomo. Si può essere blasé, criticamente avveduti, saper molto di trappole intertestuali, ma si è presi nel gioco, come nel melodramma verdiano. Mélo e Kitsch, per virtù di sregolatezza, rasentano il sublime, mentre la sregolatezza si ribalta in genio.
Ridondanza, certo, a ogni passo. Ma potremmo gustare le rivelazioni, le agnizioni a catena attraverso le quali Edmond Dantès si svela ai suoi nemici (e noi si freme, ogni volta, anche se sappiamo già tutto) se non intervenisse, e proprio come artificio letterario, la ridondanza?
[…]
Ed ecco che a questo punto sorgono dubbi preoccupanti. Se Dumas fosse stato pagato non a righe in più ma a righe in meno, e avesse accorciato, Montecristo sarebbe ancora quella macchina romanzesca che è? Se fosse riassunto, se la condanna, la fuga, la scoperta del tesoro, la riapparizione a Parigi, la vendetta, anzi le vendette a catena, avvenissero tutte nel giro di due o trecento pagine, l’opera avrebbe ancora il suo effetto, riuscirebbe a trascinarci anche là dove, nell’ansia, si saltano le pagine e le descrizioni (si saltano, ma si sa che ci sono, si accelera soggettivamente ma sapendo che il tempo narrativo è oggettivamente dilatato)? Si scopre così che le orribili intemperanze stilistiche sono, sì, “zeppe” ma le zeppe hanno un valore strutturale, come le sbarre di grafite nei reattori nucleari, rallentano il ritmo per rendere le nostre attese più lancinanti, le nostre previsioni più azzardate, il romanzo dumasiano è una macchina per produrre agonia, e non conta la qualità dei rantoli, conta il loro tempo lungo.
È una questione di stile, salvo che lo stile narrativo non ha nulla a che vedere con lo stile poetico, o epistolare. Il Grande amico di Alain Fournier è indubbiamente scritto molto meglio del Montecristo, ma alimenta la fantasia e la sensibilità di pochi, non è immenso come Montecristo, non così omerico, non è destinato a nutrire con pari vigore e durata l’immaginario collettivo. È solo un’opera d’arte. Il Montecristo invece ci dice che, se narrare è un’arte, le regole di quest’arte sono diverse da quelle di altri generi letterari. E che forse si può narrare, e far grande narrativa, senza fare necessariamente quello che la sensibilità moderna chiama opera d’arte.
Ci sono epopee sbilenche, che non pongono capo a un’opera perfetta ma a un fiume lutulento. Può darsi che non soddisfino le regole dell’estetica, ma soddisfano la funzione fabulatrice, che forse non è così direttamente connessa alla funzione estetica. Sconnesse come una serie di miti Bororo, forse riscrivibili come il ciclo Bretone – e per questo poco importa se nel Montecristo conti più la mano di Dumas o quella di Maquet.
Montecristo è falso e bugiardo come tutti i miti, veri di una loro verità viscerale. Capace di appassionare anche chi conosca le regole della narrativa popolare e si accorga quando il narratore prende il proprio pubblico ingenuo per le viscere.
Perché si avverte che, se c’è manipolazione, il gesto manipolatorio ci dice pur sempre qualcosa sulla fisiologia delle nostre viscere: e quindi una grande macchina della menzogna in qualche modo dice il vero.

Pubblicato su Recensioni. Tag: . 1 Comment »

Una Risposta to “Alexandre Dumas – Il conte di Montecristo”

  1. Daniel C. Dennett – Intuition Pumps and Other Tools for Thinking | Sbagliando s'impera Says:

    […] What is it like to be a philosopher? (questa sezione è proprio appiccicata lì e non c’entra nulla con tutto quello che viene detto prima; forse Dennett è pagato a righe come Dumas?) […]


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