Bolaño, Roberto (2004). 2666. Milano: Adelphi. 2009.
Sono piuttosto restio a leggere i “casi letterari”: un po’ per snobismo (lo ammetto), un po’ per la considerazione (che suppongo razionale) che sulle opere recenti non hanno ancora avuto modo di operare quei processi di selezione naturale che producono i “classici”. La vita è breve, il tempo per leggere poco, non ho certo letto tutti i libri (anche se la carne è triste almeno come quella di Mallarmé): meglio evitare di buttare il proprio tempo. Ma anche allo snobismo è opportuno mettere un limite, e allora mi sono dato una regola empirica: resisto a una o due sollecitazioni fatte da amici e conoscenti, ma se più di una persona che stimo mi consiglia una lettura mi lascio convincere.
Così è stato per 2666 di Roberto Bolaño: più d’un amico mi ha detto che era un capolavoro. Lo è?
Non lo so. Sinceramente, penso di no. Però è un libro interessante, anche se discontinuo, che contiene alcune pagine memorabili. Soprattutto, un libro inconcepibile se non nella sua sterminata durata, come La Grande di Schubert: ogni volta che sembra avviarsi alla conclusione, si apre a una nuova modulazione. Secondo alcuni (e lo stesso editore italiano nelle note di copertina), Bolaño avrebbe desiderato che i 5 romanzi di cui 2666 si compone fossero pubblicati separatamente e potessero dunque essere letti in qualunque ordine. Un gioco diverso, ma in un certo senso simile e complementare a quello proposto da Cortázar nel suo Il gioco del mondo. Come se ci fosse una via latino-americana al romanzo sperimentale. Ma penso, dopo aver letto 2666 , che l’ordine “canonico” delle 5 parti (La parte dei critici, La parte di Amalfitano, La parte di Fate, La parte dei delitti e La parte di Arcimboldi) sia quello strutturalmente giusto, pensato fin dall’inizio dall’autore, e che la spiegazione più prosaica sia anche quella giusta: Bolaño aveva pensato a una pubblicazione in 5 volumi, sentendosi avvicinare la fine, come un modo di meglio tutelare i suoi figli.
Il romanzo parla del male. Della serialità del male, della sua ripetitività. Una ripetitività che non si fa mai storia, o meglio Storia. In qualche modo (se posso usare anch’io questa frase ormai abusata), anche della sua ineluttabilità, nell’essere il male un corollario inevitabile. Di cosa? dell’incompletezza umana? del Novecento? dello sviluppo economico? della globalizzazione? Ancora una volta: non lo so. Non sono convinto del pessimismo cosmico di Bolaño, scrittore apocalittico se mai ve ne furono. Ma trovo invece convincente il percorso che Bolaño ci propone nella sequenza delle 5 parti di cui il romanzo si compone. Il movimento (anche se è un movimento lentissimo, non è certo un “falso movimento“) parte dalla ricerca di un misterioso romanziere (Benno von Arcimboldi) da parte di un gruppo di accademici intenti soprattutto a trescare tra loro, ma nel tempo libero apparentemente convinti che Benno sia una personificazione del male assoluto. Soltanto nel romanzo finale si scopre invece che Benno è il testimone “innocente” dell’intero Novecento: innocente, cioè, nel senso del Borís Godunóv di Puškin-Musorgskij, che al calare del sipario sulla tragedia intona: “Sgorgate, sgorgate, lacrime amare […] Presto arriverà il nemico e scenderà l’oscurità, tenebre profonde e impenetrabili.” E infatti Hans Reiter, dopo avere attraversato tutta la notte hitleriana e le macerie post-belliche, è costretto a cambiare nome per potersene distanziare abbastanza da raccontarle. Al tempo stesso, il romanzo finale è una specie di contraltare diacronico (ma non storico, perché mi sembra di capire che per Bolaño la storia non ha un senso, e forse nemmeno uno svolgimento) della tremenda sincronicità del quarto, scandito dalla ripetitiva elencazione delle donne ammazzate e violentate di Santa Teresa.
Il disegno di Bolaño non appare immediatamente chiaro. Un problema non soltanto mio, se lo stesso autore ha definito 2666 “un groviglio delirante che sicuramente non verrà capito da nessuno”.
Mi ha molto aiutato la lettura della recensione di Marcela Valdes (qui l’originale in inglese, e qui la traduzione di Manuela Vittorelli). Più che aiutato, è stata una lettura illuminante che ha dato ordine a queste mie riflessioni soltanto dopo che avevo finito 2666. Perché forse la sua bellezza – e in questo 2666 si avvicina a essere un capolavoro – è la capacità di continuare a lavorarti dentro come l’assestamento delle macerie dopo la fine della guerra (come accade ad Hans-Benno nella quinta parte del romanzo), e la grandezza di Bolaño sta nel non concedersi nella pagina, facendoti star male a pagina chiusa. Per questo mi sembra necessario proporvi il mio stesso cammino di comprensione, con un mash-up delle pagine di Marcela Valdes.
Bolaño una volta disse che nelle Americhe tutta la narrativa moderna deriva da due fonti: Le avventure di Huckleberry Finn e Moby Dick. […] 2666 dà la caccia alla balena bianca. Per Bolaño, il romanzo di Melville è capace di addentrarsi nel “territorio del male”; e al pari della saga di Melville 2666 può essere straordinario o soporifero, a seconda del gusto del lettore per i libri a lenta combustione.
2666, come tutta l’opera di Bolaño, è un cimitero. […] I suoi romanzi precedenti commemoravano i morti degli anni Sessanta e Settanta. Le sue ambizioni per 2666 erano più grandi: scrivere un referto d’autopsia per i morti del passato, del presente e del futuro.
[2666 si ispira] a un fatto di cronaca agghiacciante: l’uccisione, a partire dal 1993, di più di 430 donne e ragazze nello Stato messicano di Chihuahua, precisamente a Ciudad Juárez. Spesso le vittime scompaiono mentre vanno a scuola o tornano a casa dal lavoro o quando escono per andare a ballare con le amiche. Giorni o mesi dopo rispuntano i loro corpi – gettati in una fossa, nel deserto o in una discarica cittadina. La maggioranza delle vittime è morta per strangolamento; alcune sono state accoltellate o carbonizzate o uccise con armi da fuoco. Un terzo mostra segni di stupro. Alcune recano segni di tortura. Le più anziane sono trentenni; le più giovani sono bambine delle elementari. […] Secondo Amnesty International, più della metà dei cosiddetti “femminicidi” non ha portato a una condanna.
Ambientando il suo romanzo a Santa Teresa, una città immaginaria nel Sonora, invece che nella vera Ciudad Juárez, Bolaño poté sfumare la linea di confine tra ciò che sapeva e ciò che inventava.
Già abbeveratoio degli americani durante il Proibizionismo, Juárez prosperò rapidamente negli anni Novanta, dopo l’entrata in vigore del NAFTA. Spuntarono centinaia di impianti di assemblaggio, che attirarono centinaia di migliaia di poveri provenienti da tutto il Messico e disposti ad accettare lavori pagati talvolta solo 50 centesimi l’ora. Le stesse caratteristiche che avevano reso Juárez appetibile agli occhi degli industriali del NAFTA – buone vie di comunicazione, vicinanza di un esteso mercato dei beni, abbondanza di manodopera non organizzata – la resero un crocevia ideale del narcotraffico. Nel 1996 per la città passavano 42 milioni di persone e 17 milioni di veicoli all’anno, rendendola uno dei più trafficati punti di transito della frontiera tra Stati Uniti e Messico e luogo ideale per gli sconfinamenti illegali. La città si trasformò in un crocevia di commerci lucrosi e illeciti; in quel momento cominciarono a spuntare i cadaveri di ragazze appartenenti a famiglie povere e operaie.
L’atteggiamento di Bolaño nei confronti degli omicidi nelle prime due parti di 2666 – “La parte dei critici” e “La parte di Amalfitano” – è schivo, ellittico. La violenza fulminea di Patricia Cornwell o di Stephen King non fa per lui. La prima fugace allusione ai delitti appare solo dopo quarantatré pagine, e solo due dei tre professori che si recano a Santa Teresa sentono parlare dei crimini. “La parte di Amalfitano” […] si avvicina di più alla popolazione locale, anche se continua a tenere a distanza gli omicidi. Se la prima parte è un ingegnoso romanzo sentimentale, la seconda è un dramma esistenziale. Un professore di filosofia cileno che ha lasciato l’Europa per l’Università di Santa Teresa sprofonda in una quieta disperazione. Teme di precipitare nella pazzia: la notte sente una voce che gli parla. Ha paura che la violenza della città possa raggiungere e ghermire sua figlia – proprio davanti alla loro casa continua ad apparire un’auto nera.
In queste due sezioni i lettori più attenti coglieranno gli indizi di quello che accadrà, come altrettante impronte digitali insanguinate, ma è solo nella terza parte, “La parte di Fate”, che la violenza di Santa Teresa balza in primo piano. In un bar, un ignaro cronista americano vede un uomo schiaffeggiare una donna in un angolo della sala: “Il primo schiaffo le fece girare violentemente la testa e il secondo schiaffo la buttò a terra”. Il reporter si trova in Messico per assistere a un altro genere di incontro – quello tra un pugile americano e il suo avversario messicano –, ma capisce presto che le vere botte a Santa Teresa arrivano fuori del ring. Alcuni dei più squallidi elementi della città lo prendono sotto la loro ala e gli mostrano quello che sembra essere il video di uno stupro su una donna. Incontra il principale sospettato dei delitti commessi in città e finisce per fuggire intimorito dalla polizia.
Questa fuga noir fa da preludio a un canto funebre. “La parte dei delitti” si apre nel gennaio 1993 con la descrizione del cadavere di una tredicenne e si chiude 108 corpi dopo durante il Natale del 1997. Ciascuno di questi ritrovamenti è descritto nei dettagli – con le sue 284 pagine questa sezione è la più lunga del libro – e macabra cronaca che ne consegue si intreccia con le storie di quattro detective, un giornalista, il principale sospettato e vari personaggi accessori. Nelle mani di Bolaño questo collage produce una fuga di sequenze straordinarie e di ripetizioni schiaccianti (“Il caso fu presto chiuso” diventa un tormentone ossessivo). Bolaño illumina queste lugubri storie con lampi di umorismo patibolare e occasionalmente con una sottotrama sentimentale. Complessivamente, tuttavia, a leggere “La parte dei delitti” si ha l’impressione di fissare l’abisso. Strangolamenti, colpi d’arma da fuoco, percosse, mutilazioni, pugnalate, stupri, ricatti e tradimenti sono descritti nei dettagli con una prosa impassibile.
Nella sezione finale di 2666, “La parte di Arcimboldi”, Bolaño offre una visione più sinistra del male. La sezione si apre alla fine della Prima guerra mondiale, con il ritorno a casa di un prussiano ferito. Sta cambiando tutto, gli dice uno sconosciuto: “La guerra era alla fine e sarebbe iniziata una nuova epoca. [Il prussiano] rispose, mentre mangiava, che non sarebbe mai cambiato nulla”. E in effetti tutta l’ultima sezione di 2666, che va dalla Prima guerra mondiale alla fine degli anni Novanta, sembra pensata per dimostrare la convinzione di Arcimboldi che la storia è solo una proliferazione di istanti, di attimi fugaci “che competono fra loro in mostruosità”. Quando Arcimboldi combatte per il Terzo Reich sul fronte orientale e intraprende la sua carriera di romanziere sulle rovine di Berlino, Bolaño ci intrattiene con una serie incessante di stupri e omicidi. Nella campagna tedesca un uomo uccide la moglie e la polizia fa finta di non vedere. Durante la guerra i cittadini in fuga verso la campagna vengono regolarmente derubati, stuprati e uccisi. La terra che circonda un castello romeno è piena di ossa umane sepolte. Le allusioni all’Olocausto abbondano.
In questo panorama di brutalità e impunità Santa Teresa sembra meno aberrante. Sembra solo uno dei tanti luoghi in cui un male pervasivo e sotterraneo è salito in superficie. Com’è ora a Santa Teresa, sembra dire il romanzo, com’è sempre stato, come sarà nei cimiteri del 2666. Il male è immenso ed eterno come il mare.
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Dopo la recensione, alcune citazioni.
Piedi caldi e pieno il ventre, me ne infischio della gente [p. 196. È una citazione di Gongora: Luis de Góngora, Le solitudini e altre poesie, Milano: Rizzoli, 1996]
[…] una preferenza netta, indiscussa, per l’opera minore a scapito dell’opera maggiore. Sceglieva La metamorfosi invece del Processo. Sceglieva Bartleby invece di Moby Dick, sceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard e Pécuchet e Canto di Natale invece di Le due città o del Circolo Pickwick. Che triste paradosso, pensò Amalfitano. Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire le vie dell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore. [p. 252]
Perché la mia casa le piaceva più della sua? Perché la mia aveva classe mentre la sua aveva solo stile, capisce la differenza? La casa di Kelly era bella, molto più comoda della mia, con più comfort, voglio dire, una casa luminosa, con un salone grande e piacevole, l’ideale per ricevere visite o dare feste, con un giardino moderno, con l’erba e il tagliaerba, una casa razionale, come si diceva in quegli anni. La mia, come può vedere, perché è questa, anche se naturalmente molto più trascurata di come è adesso, un palazzone che puzzava di mummie e di candele, più che una casa una gigantesca cappella, ma in cui erano presenti gli attributi della ricchezza e della continuità del Messico, ma di classe. E sa cosa vuol dire avere classe? Vuol dire essere, in ultima istanza, sovrano. Non dovere nulla a nessuno. Non dover dare spiegazioni di nulla a nessuno. [p. 643 – ne abbiamo già parlato qui]
Mi sembra che lei si sopravvaluti, disse Loya. Cazzo, certo che mi sopravvaluto, se non lo facessi non sarei dove sono, dissi. [p. 677]
Canetti e anche Borges, credo, due uomini così diversi, hanno detto che come il mare era simbolo e specchio degli inglesi, il bosco era la metafora in cui vivevano i tedeschi. Hans Reiter fece eccezione a questa regola fin dal momento della sua nascita. Non gli piaceva la terra né tanto meno il bosco. Non gli piaceva nemmeno il mare o quello che la maggior parte dei mortali chiama mare e che in realtà è solo la superficie del mare, le onde mosse dal vento che a poco a poco sono diventate la metafora della sconfitta e della follia. Quello che gli piaceva era il fondo del mare, quell’altra terra, piena di pianure che non erano pianure e di valli che non erano valli e di precipizi che non erano precipizi. [p. 691]
“Peccato che io sia troppo vecchia e abbia visto troppo cose per crederci”.
“Non si tratta di credere,” disse Ansky “si tratta di capire e poi di cambiare.” [p. 775]
Quelli che hanno fatto la rivoluzione, quelli che sarebbero caduti divorati dalla stessa rivoluzione, che non era la stessa ma un’altra, non il sogno ma l’incubo che si nasconde dietro le palpebre del sogno. [p. 788]
La lettura è piacere e gioia di essere vivo o tristezza di essere vivo e soprattutto è conoscenza e domande. La scrittura, invece, di solito è vuoto. [p. 849]
[…] una cifra, pensò quando rimase di nuovo solo, è sempre approssimativa, non esiste la cifra giusta, solo i nazisti credevano alle cifre giuste e i maestri di matematica, solo i settari, i pazzi delle piramidi, gli esattori delle imposte (che Dio li stermini), i numerologi che leggevano il destino per quattro soldi credevano alla cifra giusta. Gli scienziati, al contrario, sapevano che ogni cifra è sempre approssimativa. I grandi fisici, i grandi matematici, i grandi chimici e gli editori sapevano che uno vaga sempre nel buio. [p. 890]
sabato, 15 ottobre 2011 alle 13:17
[…] Roberto Bolaño – 2666 […]
domenica, 24 giugno 2012 alle 12:52
[…] messicano di Chihuahua, vicino al confine degli Stati Uniti, a partire dal 1993. Ne avevamo parlato recensendo lo sterminato romanzo 2666 di Roberto Bolaño, di cui quei fatti sono un’ispirazione […]
sabato, 11 gennaio 2014 alle 21:30
[…] media) e a me piace più il respiro lungo del romanzo di quello breve del racconto. E, soprattutto, 2666 mi era piaciuto ma non mi aveva […]