Angelo Maria Ripellino – Praga magica

Ripellino, Angelo Maria (1973). Praga magica. Torino: Einaudi. 2005.

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Ci ho messo anni prima di affrontare questo libro, che pure desideravo molto leggere e che molti mi avevano consigliato, per un motivo molto semplice e personale: era il libro che mio padre stava leggendo nei suoi ultimi giorni ed era sul comodino dell’ospedale quando è morto.

Mio padre non aveva viaggiato moltissimo: erano altri tempi. Per di più, mio padre era tecnicamente “sobrio” ben prima che Monti rimettesse in auge il termine. A Praga però c’era stato, con mia madre, nei primissimi anni Settanta: quando Praga era ancora sotto il cupo shock della repressione sovietica della Primavera del 1968.

Invece io ci sono stato pochi anni fa, dopo che la città era già stata trasteverizzata, sammarinata, monsammiscelizzata, scegliete voi. Sul ponte Carlo si fa a spallate e non sono neppure riuscito a entrare nella cattedrale di San Vito dalla fila che c’era.

Mio padre era tornato con qualche 33 giri della Supraphon: ricordo, tra le altre cose, le danze slave di Dvorak. Quando ci sono andato io, il negozio della Supraphon c’era ancora (le altre prestigiose etichette dell’est, dalla russa Melodia, all’ungherese Hungaroton, alla rumena Electrecord, sono stae tutte sacrificate alle divinità del libero mercato, che della cultura di disinteressa …) e i commessi restarono stupiti dal saccheggio che feci del loro catalogo.

Ripellino racconta un’altra Praga ancora, quello dell’incontro personalissimo e universale tra un siciliano, barocco per cultura e scrittura, e una città, barocca per stratificazione costruttiva e per atmosfera. Non c’è che da abbandonarsi all’evidente amore di Ripellino per la sua città e perdersi tra le sue divagazioni (coltissime ma non non esibite) che attraversano i tempi e i luoghi di Praga.

Naturalmente, chi non ama il barocco si astenga dalla lettura.

Intanto iniziamo (e da dove, sennò?) dal celeberrimo incipit:

Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse) a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hasek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria.
Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Vítézslav Nezval ritorna dall’afa dei bar, delle bettole alla propria mansarda nel quartiere di Troja, attraversando la Vltava con una zàttera. Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, i massicci cavalli dei birrai escono dalle rimesse di Smíchov. Ogni notte, alle cinque, si destano i gotici busti della galleria di sovrani, architetti, arcivescovi nel triforio di San Vito. Ancor oggi due zoppicanti soldati con le baionette inastate, al mattino, conducono Josef Svejk giú da Hradcany per il Ponte Carlo verso la Città Vecchia, e in senso contrario, ancor oggi, la notte, a lume di luna, due guitti lucidi e grassi, due manichini da panoptikum, due automi in finanzíera e cilindro accompagnano per lo stesso ponte Josef K. verso la cava di Strahov al supplizio.
Ancor oggi il Fuoco effigiato dall’Arcimboldo con svolazzanti capelli di fiamme si precipita giú dal Castello, e il ghetto si incendia con le sue scrignute catapecchie di legno, e gli svedesi di Königsmark trascinano cannoni per Malá Strana, e Stalin ammnicca malèfico dal madornale monumento, e soldatesche in continue manovre percorrono il paese, come dopo la sconfitta della Montagna Bianca. Praga «fu sempre città di avventurieri», si legge in un dialogo di Milos Marten, «per secoli nido di avventurieri senza pietà né legami. Venivano a frotte dalle quattro parti del mondo a predare, a spassarsela, a spadroneggiare»: «e ciascuno strappava, ingoiava un pezzo della viva polpa di questa misera terra, la quale dava sino a esaurirsi, senza che alcuno le si desse, per ripagarla di ciò che le aveva tolto».
Troppo spesso asservita ed afflitta da ruberie e da soprusi, troppo spesso teatro alla spocchia di prepotenti stranieri, di masnade bruttissime di lanzichenecchi e gradassi, che ne fecero strazio e si lupeggiarono ogni sua sostanza. Quanti grugni porcini, impacciandosi nelle occorrenze di Praga, vi si sono accampati nel corso dei tempi: squassapennacchi dalle armature dorate e dal gonfio petto tintinnante di ciondoli, fratacchioni di tutte le confratèrnite e prelati del porta inferi, Obergauner che piombavano in side-car, seminando rovina, e machiavellisti e fratelli traditorissimi, e ceffi mongolici come in racconti di Meyrink, e qualche assessore di collegio caucasico, preposto a imbavagliare il pensiero, e ciurme di regolisti e di sgherri che, puntando il mitra, sbaiaffano fagiolate ideologiche, e interi conclavi di generali capocchi, tra i quali sia ricordato; per le innumere placche e medaglie che lo avviluppano, lo zelante Episciòv, coglione in crèmisi.
Alla soglia della seconda guerra mondiale Josef Capek, che sarebbe perito in un Lager nazistico, narrò in un ciclo di caricature la storia di due protervi stivali, due neri viscidi guitti che, moltiplicandosi come le salamandre, spargono per l’uníverso menzogna, sfacelo e morte. Ancor oggi pesanti stivali calpestano Praga, ne strozzano l’inventiva, il respiro, l’intelligenza. E, sebbene ciascuno di noi non si stanchi di sperare che queste sciagurate scarpacce, come quelle che disegnò Josef Capek, finiscano tra le cianfrusaglie di Chronos, il Gran Rigattiere, tuttavia molti si chiedono se, data la brevità della vita, ciò non accadrà troppo tardi. [pp. 5-6]

Vertiginoso, vero? Rileggetelo, vi prego. Non si può gustare e capire se lo si legge una volta sola. [E scusatemi per l’assenza dei caratteri tipografici speciali.]

La leggenda secondo cui gli alchimisti risiedevano nella Viuzza d’Oro risale, come quella golemica, al periodo del tardo romanticismo. Il Castello, città nella città, non era soggetto alle leggi vigenti nel resto di Praga: e per questo nel XVI secolo una ciurma di bottegai, di artigiani non registrati, di rivenduglioli, di gente fregiata di mal nome  pigliò alloggio nella cornice delle sue mura. Col muto consenso delle autorità nacque sopra il Fossato dei Cervi una spalliera di case-giocattolo aggrappate come un’aggiunta parassitica al complesso organismo del Castello. [p. 113]

Ma le cose si fanno funeste, quando è il Golem, l’argilla imbecille, ad imbertonirsi. Odor di cunno risveglia anche il limo, dentro le brache dell’orco si accende la mostruosa candela. E che tetraggine gufesca, che sentore di apocalisse in questa libidine. Si chiami Esther o Golde o Mirjam o Abigail, la figlia civetta del rabbi desta le voglie del grosso mandrone di luto. È conseguenza delle sue brame lascive l’ansia che lo bistratta, di uscire dalla condizione d’automa, di avere un’anima umana. [p. 170]

Secondo Capek, gli slogan, le rivolte, le prodigiose scoperte, anziché migliorare la condizione dell’uomo, conducono l’umanità allo sfacelo.
Di qui la sua propensione al buon senso, all’equilibrio, alla giusta misura, – propensione che potrebbe apparire irritante, se troppe esperienze, troppe ubbie progressiste, troppe falcate di superuomini non ci avessero ormai resi canuti e disposti, pur col rammarico di smettere gli attraenti tabarri romantici, a dargli in fondo ragione. Alquist, quasi alterego di Capek, asserisce: «Penso che sia più giusto collocare un solo mattone che tracciar piani troppo grandi». […] Un altro personaggio di R.U.R., il console Busman, afferma che non sono i grandi sogni, ma i minuti bisogni dei piccoli uomini a fare la storia. [p. 185]

In questa tragedia, folta di orrori, di ipèrboli, di forzature patetiche, di maccheronismi da cavalocchi […] [p. 193]

La città vltavina è oggi immersa di nuovo nell’oblivione del sonno, sotto un tórbido cielo non salutevole alla vita. E per le sue fogne, per le sue intercapèdini, per le sue cripte strisciano occulti Mydlári, Città-Kiebitz, che può solo guardare passivamente il giuoco a carte degli altri sulla sua carne. Immenso emporio di corde e di cànapi. Città dove, in ogni taverna, l’ombra sugnosa di un delatore, di un Bretschneider, tende l’udito al chiacchierìo degli ubriachi, dei disperati. Città-strega con maschera disciplinare dalle orecchie asinesche e col giogo sul collo. Città in cui basta un bagliore di pensiero ribelle negli ochi, per essere scaraventati in sozze e spaventevoli carceri, in immonde catorbie, con pane ed acqua di tribolazione. [pp. 233-234]

In un suo racconto Egon Erwin Kisch  narra di un ricco e maturo mercante di tappeti persiani, l’armeno Zadriades Patkanian che, trasferitosi a Praga, sposò Miluška, la giovane figlia di uno sbricio sellaio. Giorno e notte costui portava al fianco la sciàbola, con cui aveva ucciso a Erzurum la prima moglie. Nella fantasia di Miluška spaurita il truculento armeno prese a immedesimarsi col malèfico Turco del Ponte. Mentre quell’affumato babbione ciondolava nelle taverne, la puella correva dal proprio coetàneo Toník, un  cacaspezie, per giocare con lui a spaccafico. Una sera, tornando tardi dal congiungimento, Miluška per sacramanzìa scagliò un sasso contro la scimitarra del musulmano di pietra: e l’arma, staccatasi dall’impugnatura, cadde a terra in frantumi. L’armeno, che aspettava già da qualche ora col cervello fumante di gelosìa paladinesca e con un ghigno impiccatoio, consorte disavventurato, nell’estrarre la sciàbola per decapitare Miluška, si trovò tra le mani soltanto l’elsa. [p. 254]

Viviane, la crudele Dame du Lac, creatura Art Nouveau, alloppia il mago Merlino, che di lei si è invaghito, e, felice di aver incantato l’incantatore, lo inuma in un’arca nel folto della profonda foresta. Ma sul far della notte da ogni parte convengono a compiangere il mago in catalessi e a dialogare con la sua voce sepolta drùidi, serpenti, rospi, lucertole, pipistrelli, ranocchie, posticci santoni, un corvo, un gregge di sfingi, un gufo, la fata Morgana, elfi calzati di cristallo, Lilit, Angelica, Dalila, biscioni araldici, falsi Re Magi, San Simone stilita, e innumerevoli altre parvenze dei bestiari e delle favole antiche. [p. 328]

A distanza di oltre 35 anni, mi dà conforto pensare che mio padre malato possa aver tratto piacere in extremis dalle fantasmagorie barocche di Ripellino.

Una Risposta to “Angelo Maria Ripellino – Praga magica”

  1. Philip Ball – Curiosity: How Science Became Interested in Everything | Sbagliando s'impera Says:

    […] vertice è toccato, fuori d’Italia, da Rodolfo II, che ben conosciamo grazie al vertiginoso Praga magica di Antonio Maria Ripellino. Ma oltre che per Keplero e Tycho Brahe e per l’Accademia dei […]


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