Non soltanto le parole possono essere abusate. Le metafore sono ancora più a rischio, perché sono fondanti del nostro modo di pensare, ma lo sono in modo sottile e insidioso. George Lakoff se ne è occupato a lungo, dal classico Metaphors We Live By del 1980 (scritto con Mark Johnson; la traduzione italiana è Metafore e vita quotidiana) al più recente ma popolarissimo Don’t Think of an Elephant (Non pensare all’elefante).
La metafora abusata di oggi è quella dei pilastri. Non so se ci avete prestato sufficiente attenzione, ma da un po’ di tempo tutto si regge sui pilastri. Potrebbero anche essere uno solo o due, ma allora la metafora non verrebbe bene. E allora sono sempre almeno 3. Mai 6 od 8 però, altrimenti la metafora perde di efficacia: e qui, come vedremo, sorgono alcuni problemi.
Se non mi ricordo male, la prima volta che questa metafora è stata utilizzata in Italia è stato a proposito della riforma delle pensioni: il primo pilastro era la previdenza pubblica obbligatoria (il messaggio era che non sarebbe stata sufficiente a campare dignitosamente, o a campare tout court), il secondo i fondi pensione gestiti collettivamente, il terzo la previdenza integrativa individuale. Non mi ricordo bene se fossero il secondo o il terzo pilastro a suscitare le preoccupazioni maggiori. Mi ricordo però che il terzo pilastro non mi faceva venire in mente un tempio greco, ma piuttosto (ma io sono notoriamente un porco, e dei più lubrichi) le battute da spogliatoio maschile sulla “terza gamba”.
Per aiutare quelli come me (suppongo) a visualizzare meglio la metafora hanno cominciato a essere onnipresenti le immagini. Ed è subito apparso chiaro che il riferimento era, per l’appunto, al tempio classico, greco o romano che fosse.
Il primo problema, e il più serio, è che usare una metafora (questa è la lezione principale dello studio di Lakoff e Johnson) serve fondamentalmente a collegare una cosa ignota a una nota, in modo da capire la prima. Se dico che in Maremma piove meno che in Lucchesia perché la Maremma è “all’ombra” delle montagne della Corsica, sto applicando metaforicamente un concetto familiare (sono all’ombra perché qualche cosa mi scherma dal sole) a una situazione meno familiare “mappando” i diversi elementi della situazione familiare con quella nuova (come un muro alto fa ombra schermando dai raggi del sole, allo stesso modo le alte montagne della Corsica riducono la piovosità schermando la Maremma dalle perturbazioni che provengono da Occidente). Attraverso questa mappatura, faccio un’operazione teorica: applico un modello noto a una situazione ignota, e la spiego. Il bello delle metafore, del ragionare per metafore e modelli, è che posso costruire una catena di spiegazioni che mi può portare a una teoria coerente: capire che la metafora che ho usato prima (l’ombra e la pioggia in Maremma) si applica a una classe di fenomeni che hanno degli elementi e una spiegazione in comune (la creazione di una spiaggia tra due promontori, la funzione di una diga foranea, il comportamento degli animali quando proteggono la prole, la falange macedone e la testuggine romana, il feudalesimo, l’invenzione dell’ombrello e dello scudo, …).
Naturalmente, quella del tempio greco è una metafora consueta e potente. Si presta a essere applicata a una situazione in cui voglio tenere una struttura sollevata da terra in un contesto in cui opera la forza di gravità: la funzione dei pilastri è quella di separare la struttura dalle fondamenta, e devono essere abbastanza forti da contrastare la forza di gravità senza cedere; le fondamenta, a loro volta, devono essere abbastanza forti da sostenere il peso del tetto e anche quello dei pilastri.
Ma l’uso sciatto e corrivo della metafora intorbida le acque invece di renderle più limpide (sì, anche questa è una metafora, e precisamente una metafora su segnale e rumore). Tanto per cominciare, nella presentazione della metafora del tempio greco che ho fatto nel capoverso precedente, ho trascurato un elemento cruciale: la funzione di tutta la struttura del tempio, che è quella di disporre di uno spazio coperto. Nelle situazioni in cui la metafora viene normalmente utilizzata, invece, lo spazio tra fondamenta e timpano non conta niente, la struttura è fine a sé stessa. Per parafrasare Lao Tzu, è come ridurre la coppa all’argilla di cui è fatta (cito a memoria):
Si plasma l’argilla per formare una coppa, ma è dal suo non-essere che dipende la sua utilità. Per fare una stanza devi tagliare via dai muri le porte e le finestre: è dal suo non-essere che dipende la sua utilità. Perciò, trasforma l’essere in vantaggio e il non-essere in utilità.
Tacerò, per non sembrarvi più pedante di quanto già mi giudichiate, sulla circostanza che l’architettura ha trovato tecniche più efficienti per creare spazi coperti tra pavimento e soffitto, a cominciare dall’arco (una bella metafora, se ci pensate, in cui non conta la forza bruta, ma il risultato netto delle spinte e controspinte, in un gioco delle parti in cui nessuna può adempiere al suo compito da sola).
Ma anche trascurando questo, in quasi tutti gli esempi che mi vengono in mente, i pilastri non hanno la funzione di tenere distanti e separate le fondamenta e il tetto, ma al contrario di connetterli. Qualche volta staticamente, ma il più delle volte dinamicamente, come nell’esempio qui sopra. Insomma, sarebbe più efficace e più adeguato a trasmettere il messaggio il caro, vecchio, diagramma a blocchi, in cui i flussi sono rappresentati da frecce.
E qui potrei finire il post. Non fosse che ho ancora qualche sassolino da togliermi dalle scarpe.
Non pretendo che abbiate fatto tutti il liceo classico e abbiate studiato storia dell’arte, né che allo scientifico o al tecnico siate sempre stati attenti nelle lezioni di disegno. Ma penso che nella vostra vita qualche tempio greco o romano l’abbiate visto, dal vivo o in fotografia. Se non il Partenone ad Atene, almeno i templi di Agrigento o di Paestum o di Metaponto. Qualcosina a Roma? Tivoli?
Provate a fare mente locale. Pronti?
Prima cosa. I templi classici non hanno i pilastri, hanno le colonne. Secondo il Vocabolario Treccani, un pilastro è [i]n architettura, [un] elemento strutturale ad asse verticale di forma per lo più prismatica; è, in genere, ripetuto ritmicamente o inserito in pareti portanti continue e costituisce la struttura predisposta al sostegno di altre membrature, consentendo la riduzione degli ingombri e la concentrazione delle sollecitazioni su una limitata zona d’appoggio: p. quadrangolare, ottagonale, cruciforme; p. marmoreo; p. monolitico, a blocchi; p. a fascio o polistilo, detto anche piliere (v.). Una colonna, invece, è un [e]lemento verticale, a sezione per lo più circolare e composto di base, fusto e capitello, atto a resistere al peso di elementi sovrastanti (muro, solaio, tetto, arco, volta) e adoperato anche in funzione decorativa: c. di pietra, di marmo, di travertino; le c. di un tempio, di un palazzo, di un portico; c. accoppiate, appaiate,binate; c. scanalata, a spirale; c. tortile (o c. tòrta, o anche a tortiglione), col fusto ritorto a spirale; c. rudentata, con scanalature riempite fino a un terzo dell’altezza da bastoncini detti rudenti; c. bugnata (o rustica), con fusto rivestito di bugne; c. a balaustra, dal fusto a profilo mosso, variamente sagomato, come avviene spesso nel balaustro; c. coclide, con scala interna a chiocciola (v. anche coclide).
Il problema, lo avrete immaginato, è il solito. La metafora è di origine anglosassone e, come spesso accade, l’abbiamo adottata un po’ alla garibaldina (su questo, al solito, incide la cialtroneria dei giornalisti), traducendo con pilastro l’inglese pillar. Le due parole condividono l’etimologia latina (pila) ma non il significato: second l’OED online, [a pillar is] a tall vertical structure of stone, wood, or metal, used as a support for a building. Per contro, [a column is] an upright pillar, typically cylindrical, supporting an arch, entablature, or other structure. Insomma, mentre in inglese una column è, per così dire, una specie cilindrica del genus pillar, in italiano pilastro e colonna appartengono a due categorie diverse, distinte dalla sezione poligonale o tonda.
Seconda cosa. Io non ho presente nemmeno un tempio classico che abbia sulla facciata un numero dispari di colonne. Certamente non nella classica tassonomia tramandataci dal De Architectura di Vitruvio.
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domenica, 23 febbraio 2014 alle 12:36
[…] In questo romanzo di Coetzee – un autore che mi piace molto, e che ha scritto libri che a me sono sembrati capolavori, non ultimo Diary of a Bad Year che ho recensito qui qualche anno fa – la mistificazione comincia dal titolo: secondo me (ma forse non ho capito niente, e se è così scusatemi voi e mi scusi Coetzee), Gesù non c’entra niente e il titolo serve soltanto a farci provare empatia e a farci trovare profondo David, il bambino di 6 anni che è uno dei personaggi principali del romanzo. Insomma, è la vecchia tecnica del framing, dell’inquadramento, quella tanto ben spiegata da George Lakoff in Non pensare all’elefante: ne ho parlato anch’io, anche se un po’ obliquamente e in un contesto diverso, in un post dedicato a I pilastri della pigrizia mentale. […]