Per prima cosa una confessione: non ero mai stato al Teatro Argentina. Molti amici romani si scandalizzano per questa mia mancanza, ma a me non sembra una colpa grave, tanto più ora che ci sono andato. Merito architettonico e fascino del teatro mi sono sembrati modesti.
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Primo Levi invece l’ho frequentato, eccome. Prima Se questo è un uomo, naturalmente, che girava per casa e che i miei genitori mi consigliarono di leggere che ero ancora ragazzo (e questa è soltanto una delle cose, e soprattutto dei consigli di lettura, di cui sono loro grato). Poi le Storie naturali, che – come molti, suppongo – lessi quando ancora non si sapeva che dietro lo pseudonimo di Daniele Malabaila si nascondeva Levi stesso: era dunque la prima edizione, quella del 1966. Ero già appassionato di storie fantastiche: in interesse partito da Jules Verne, che divoravo da quando sapevo leggere, e continuato disordinatamente per il resto della vita, a partire da Poe (che avrei incontrato di lì a poco). A me ragazzo, Storie naturali era piaciuto più di Se questo è un uomo: insomma, Se questo è un uomo era un dovere morale (anche se non un obbligo, almeno per me), bello e anche molto interessante, ma non piacevole; Storie naturali era piacere puro, intrattenimento, acqua minerale frizzante per il cervello.
Vizio di forma, Il sistema periodico e, qualche anno dopo, La chiave a stella proseguono nella scia di Storie naturali. Questo è il Primo Levi che amo di più, che sento più vicino a me, e che mi sembra anche più autentico nei suoi interessi e nelle sue sensibilità. Forse è vero – come lui stesso ha scritto – che «esiste un legame intimo tra l’opera precedente e questo mio ultimo libro. In entrambe vi è l’uomo ridotto a schiavitù da una cosa: la “cosa nazista”, e la “cosa cosa”, cioè la macchina.» e che «se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere» [G. D’Angeli, Il sonno della ragione genera mostri, in «Famiglia cristiana», 27 novembre 1966]. Però, altrove – ma nello stesso periodo – Levi riconosce questa duplicità della sua natura d’autore: «Io sono un anfibio, un centauro (ho anche scritto dei racconti sui centauri) e mi pare che l’ambiguità della fantascienza rispecchi il mio destino attuale. Io sono diviso in due metà.» [E. Fadini, Primo Levi si sente scrittore “dimezzato”, in «L’Unità», 4 gennaio 1966]. E perciò, forte di queste argomentazioni dello stesso autore, mi sento autorizzato a esprimere la mia preferenza per il Levi “narratore puro” rispetto al Levi memorialista.
Ma, come spesso mi accade, ho divagato.
Ieri sera (11 novembre 2019) sono andato al Teatro Argentina
per una lettura di cinque dei racconti che compongono Il sistema periodico:
Idrogeno, Zinco, Cerio, Vanadio e Carbonio.
Il progetto è di qualche anno fa (cito dal programma di sala):
Nel 2010, in occasione della EuroScience Open Forum, nasceva a Torino la lettura scenica Il segno del chimico, di Domenico Scarpa con la regia e l’interpretazione di Valter Malosti. Oggi quel lavoro viene rilanciato, rinnovato e amplificato nella nuova esecuzione scenica affidata ad una voce d’eccezione, quella dell’attore siciliano Luigi Lo Cascio.
Il progetto ha circolato un po’ (è stato a Torino e Asti, e sarà a Milano), ma questa è stata l’unica data romana. Peccato, perché i racconti sono veramente belli (sopra tutti, Vanadio e Carbonio) e l’interpretazione di Lo Cascio è molto partecipata e aggiunge drammaticità ai testi. Molto belle anche le musiche elettroniche, eseguite dal vivo da Gup Alcaro, che contribuiscono al fascino della serata.
Comprato d’istinto ad aprile in libreria (e dunque su carta), attratto dall’immagine in copertina, dal titolo e (lo confesso) dal riferimento a Primo Levi. Letto un po’ per volta, per lo più immerso nella vasca da bagno la domenica mattina (questa è la sorte ormai destinata ai libri di carta), infischiandomi bellamente – prima per ignoranza, e poi per testarda determinazione – delle polemiche che intorno al libro si andavano affollando, dividendo i critici tra favorevoli (capostipite Paolo Mieli sul Corriere) e contrari (Gad Lerner su Repubblica). Dirò subito, senza peraltro schierarmi troppo, che a me il libro è piaciuto e che non lo catalogherei nel filone del revisionismo.
Vorrei però soprattutto parlare d’altro, seguendo spunti che il libro mi ha ispirato.
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Nella prima metà degli anni Settanta – per me gli anni dell’Università, alla Statale di Milano sostanzialmente cogestita (oltre che dalle autorità accademiche) dal Movimento studentesco (poi MLS) di Mario Capanna – era diffuso nella sinistra, parlamentare ed extra-parlamentare, il timore di un colpo di Stato. Ossessione non del tutto peregrina: c’erano stati in Italia più tentativi, da quello di De Lorenzo a quello grottesco di Junio Valerio Borghese (fallito, si dice, per un acquazzone), la strategia della tensione era in pieno dispiegamento (ogni volta che passo un controllo in aeroporto non posso fare a meno di ricordare che in Italia sono saltati soprattutto treni e stazioni), c’era stato il colpo di stato cileno del settembre 1973. C’era gente che di tanto in tanto, avvertita di un pericolo, non dormiva a casa. Se volete avere idea del clima di cui stiamo parlando vi raccomando la bella biografia di Giangacomo Feltrinelli scritta dal figlio Carlo (Senior Service).
Io non ero certo ossessionato come Feltrinelli e dormivo a casa sonni più o meno sereni. Però pensavo di essere schedato (qualche anno dopo ebbi conferma che era vero) e che, in un’ipotesi cilena, prima o poi sarebbero venuti a prendermi. Ma soprattutto pensavo che, in un’ipotesi del genere, sarebbe stato mio dovere far parte della resistenza. E qui, per me, sorgevano i problemi e gli interrogativi. Miope, scartato alla visita militare, che tipo di resistenza avrei potuto fare? Mi avrebbero ammazzato alla prima azione militare? e, soprattutto, i compagni mi avrebbero voluto nella loro banda? quando era evidente che sarei stato una palla al piede? (e adesso potete smettere di ridere, per favore?)
Non ho potuto fare a meno di pensare a questo leggendo il libro di Luzzatto: Primo Levi nel 1943 aveva grosso modo l’età che avevo io nei primi anni Settanta, era entrato da poco in contatto con gli ambienti dell’antifascismo senza aver avuto nessun contatto diretto con la resistenza armata (così mi pare d’aver capito), nell’agosto del 1943 era in vacanza a Cogne. Dopo l’armistizio dell’8 settembre si trasferì con la madre e la sorella all’Albergo Ristoro di Amay, una frazione di Saint Vincent: sfollati ed ebrei che ritengono prudente stare alla larga dalle città ormai sotto il pieno controllo nazista e repubblichino. Qui Levi matura la sua scelta partigiana, che mi sembra così simile a quella che avrei fatto anch’io: una scelta politica e anche morale, accompagnata da un’esperienza militare nulla, e che quindi doveva mettere in conto l’elevata probabilità di restare ammazzato o di essere catturato alla prima azione.
Una decisione politica e morale che distingue e distinguerà per sempre chi scelse la clandestinità e la resistenza rispetto ai “ragazzi di Salò”, come ha egregiamente notato Giorgio Bocca su Micromega rispondendo al famoso (e imperdonabile) discorso di Luciano Violante al suo insediamento come presidente della Camera dei deputati:
[Capire i ragazzi di Salo? S]ono cinquant’anni che noi non ecumenisti cerchiamo di farlo, percorrendo tutte le ramificazioni della psicologia umana: quelli che andarono a Salò perché ignoravano la storia, compresa quella del fascismo, quelli che per l’onore, per il mussolinismo, perché orfani di fascisti, per un ritorno al diciannovismo, per il Duce tradito, anche quelli che erano più nazisti che fascisti. Ma cercar di capire i moventi e le pulsioni personali o di gruppo non significa cancellare, stravolgere quella che fu la storia di Salò in quei venti mesi, la storia di uno Stato fantoccio, tenuto in piedi dagli occupanti nazisti, e subìto per sopravvivere o alimentato dalla speranza che i tedeschi vincessero, che cioè si attuasse il mondo della rigenerazione razziale, dei popoli eletti pronti a praticare una nuova schiavitù mondiale.
Anche noi della montagna eravamo giovani e ignoranti e mossi dai più svariati motivi personali e dalle casualità, ma una cosa ci era molto chiara: se vincevano i nazisti finivamo impiccati o in fuga verso remoti rifugi. Non ci venga a dire, onorevole Violante, che i «ragazzi di Salò» queste cose non le sapevano.
Seconda considerazione, a proposito dei 2 ragazzi che – secondo la ricostruzione di Luzzatto – furono giustiziati dalla banda cui apparteneva Primo Levi nel dicembre del 1943: sono caduti della resistenza o no? il loro nome deve degnamente stare sui monumenti? devono essere loro dedicate strade?
Io penso di sì, e provo a spiegare il perché. A questo punto, dopo le figuracce fatte prima, posso anche confessare di un essere un pacifista quasi estremo. Penso che la guerra, in qualunque sua forma e quali che siano le sue giustificazioni morali (che citavo prima) sia una cosa brutta sporca e cattiva, da cui tutti, tutti, escono malissimo. E che però, proprio per questo, non può e non deve andare troppo per il sottile nel decidere chi merita di essere definito eroe e chi no. Quei due ragazzi sono caduti – anche se per mano amica – dopo avere fatto, come i loro compagni, la scelta partigiana: scelta partigiana che poteva avere e aveva, come abbiamo visto anche nel caso di Primo Levi, mille singole motivazioni personali, ma trovava il comune denominatore nella scelta etica del prendere posizione, costi quel che costi.
So ben poco più di quello che racconta Luzzatto sulla vicenda di quei due. Ma so qualche cosa di più – anche se non ho fatto uno studio storiografici e se i dubbi sono molti – su una storia più vicina a me. Nel borgo selvaggio ma non propriamente natio, non lontano dalla casa sul confine dei ricordi che oscura e silenziosa se ne sta, c’è una via che l’odonomastica resistenziale del Comune ha dedicato a un giovanissimo martire della resistenza. La versione ufficiale vuole che il giovane, insieme a 2 altrettanto giovani compagni, sia morto su un argine del fiume, il giorno dopo la liberazione del centro principale, in uno scontro con una sacca di tedeschi sbandati. Gira da anni un’altra versione, di cui ignoro la fonte, che insinua che invece il ragazzo morì sì a liberazione avvenuta, ma per un tragico incidente occorsogli armeggiando una bomba a mano.
Ammettiamo per un attimo che questa seconda versione sia quella più vicina alla verità. Cambierebbe lo status di martire della resistenza di questo ragazzo? la cosa dovrebbe indurre il Comune a revocare la dedicazione della strada, per votarla magari a un ragazzo di Salò? Io penso proprio di no, perché qualunque sia stata la causa prossima della sua morte, questa circostanza nulla toglie alla scelta di questo ragazzo di entrare, non ancora ventenne, nelle Brigate Garibaldi.
C’era una volta, tanto tanto tempo fa, l’aristocrazia operaia. Erano lavoratori manuali che con i loro utensili prima, e con le loro macchine utensili dopo, sapevano fare cose straordinarie. Dico con le loro macchine, ma è un modo di dire. Eravamo già in una società capitalistica, e gli strumenti del lavoro, gli utensili, le macchine, non erano loro di proprietà. Erano di proprietà del padrone. Loro le potevano usare durante l’orario di lavoro, e ci facevano cose da virtuosi.
Erano i tempi in cui la manifattura si chiamava così perché la manualità aveva ancora una sua importanza, anche se gli operai lavoravano tutti insieme, in fabbrica, e non ognuno da solo, o pochi in piccoli gruppi, nell’officina.
L’idealtipo di questi operai, per me almeno, è il Tino Faussone di La chiave a stella di Primo Levi, di cui abbiamo parlato qui:
È sui trentacinque anni, alto, secco, quasi calvo, abbronzato, sempre ben rasarto. Ha una faccia seria, poco mobile e poco espressiva. Non è un gran raccontatore: è anzi piuttosto monotono, e tende alla diminuzione e all’ellissi come se temesse di apparire esagerato, ma spesso si lascia trascinare, ed allora esagera senza rendersene conto. Ha un vocabolario ridotto, e si esprime spesso attraverso luoghi comuni che gli sembrano arguti e nuovi; se chi ascolta non sorride, lui li ripete, come se avesse da fare con un tonto. [p. 3]
Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una felicità che non molti conoscono. [p. 81]
È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabli, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoto, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge. [p. 81]
Faussone è in cima all’aristocrazia operaia: lavora in proprio e viene chiamato in giro per il mondo per la sua competenza e per la sua abilità. In questo è una rarità, se non un’eccezione.
Di solito, invece, si trattava di operai salariati particolarmente bravi. E questo, anche nel capitalismo selvaggio dell’accumulazione originaria dei robber barons, della giungla di Upton Sinclair, dava loro un potere contrattuale: potevano andare a lavorare da un’altra parte, con buone probabilità che la loro bravura li rendesse appetibili sul mercato del lavoro. In ogni caso, altri padroni (padroni B, chiamiamoli) potevano fare un’asta per assicurarsi le loro prestazioni portandoli via ai primi padroni (chiamiamoli padroni A). L’unico rimedio a disposizione dei padroni A era quello di alzare artificialmente il costo della transazione, sia per il lavoratore sia per i padroni B.
Nascono così una serie di strumenti: la liquidazione, retribuzione differita che cresce con la durata della permanenza presso lo stesso padrone; la pensione di anzianità, proporzionale anch’essa agli anni passati nella stessa occupazione; e gli scatti di anzianità, progressioni di salario che si realizzano dopo un certo numero di anni trascorsi nella stessa posizione.
Come avrete già capito, gli operai specializzati (e qualificati: non è la stessa cosa) sono disposti su un continuum, che va dal vertice di Tino Faussone al grado zero di Lulù Massa (il protagonista di La classe operaia va in paradiso di Elio Petri), che è un operaio di catena, ma un virtuoso del cottimo, almeno all’inizio del film.
Ecco, dopo arriva il fordismo, e con il fordismo l’operaio-massa. Nella prima metà del XX secolo negli Stati Uniti. Molto dopo da noi. L’aristocrazia operaia viene spazzata via dall’operaio massa. Anche Ludovico Massa, detto Lulù, si risveglia dalla falsa coscienza dello stakanovista per scoprirsi una pedina tra le tante (se volete vedere il film, su YouTube c’è tutto).
Adesso il valore è la flessibilità, la mobilità. Dunque, l’anzianità non andrebbe premiata, ma scoraggiata. E allora, perché gli incentivi alla tenure restano nei contratti, amati dai sindacati come dai datori di lavoro. Per la verità, nel privato i datori di lavoro cominciano a chiederne l’abolizione, come mi raccontava mia moglie. Nella pubblica amministrazione, invece il feticcio dell’anzianità resta, caro al sindacato ma, in realtà, anche all’amministrazione, che ne fa uno strumento di governo un po’ paternalistico.
Me lo sono chiesto qualche tempo fa, quando nell’amministrazione pubblica in cui lavoro ho dovuto dedicare molte ore ai cosiddetti «passaggi di fascia». Trovo curioso che in una situazione in cui il dipendente pubblico di ruolo, che per avere vinto un concorso matura un diritto quasi reale a restare abbarbicato al suo scoglio come una cozza (c’è stata una volta che uno mi ha detto, scherzando ma non proprio: «Io 15 anni fa ho vinto un regolare concorso, e quindi lo stipendio il 26 del mese mi spetta; se volete anche vedermi lavorare, mi dovete dare un incentivo, o almeno una prospettiva di carriera!»), ci si preoccupi di premiare l’anzianità. Eppure, per farla breve, i contratti di lavoro prevedono che oltre ai “livelli” (per passare di livello ci vuole un concorso, anche se non sempre e non necessariamente un concorso “pubblico”, cioè aperto a tutti) ci siano delle “fasce” che si raggiungono per anzianità. Tipicamente, dopo un certo numero di anni passati in un dato livello nella fascia di base si “matura” il diritto di passare alla fascia superiore, che dà diritto a uno scatto retributivo.
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Questa la sostanza della cosa. Ma siamo nel regno dell’apparenza, quello che rende la nostra burocrazia più borbonico-spagnolesca che sabaudo-napoleonica o germanico-calvinista. Quindi non si matura un diritto alla fascia, ma soltanto un requisito oggettivo a poter essere preso in considerazione per il passaggio di fascia. Che viene attribuito sulla base di una relazione scritta dall’interessato, che racconta che cosa ha fatto negli anni trascorsi nella fascia inferiore; poi il suo diretto superiore controfirma la relazione (ne prende visione senza responsabilità sui contenuti? oppure l’assevera nel merito?); e se per caso – ma evidentemente accade quasi sempre – il candidato ha cambiato posizi0ne lui oppure se si sono avvicendati più superiori, le firme aumentano a dismisura.
A questo punto viene formata una commissione interna, che non fa un vero concorso, ma comunque valuta “nel merito” le relazioni presentate. Ma che in ogni caso poi attribuisce il passaggio di fascia, solo che ne esistano i requisiti soggettivi (x anni trascorsi nella fascia inferiore): non si è mai visto che una fascia non venga attribuita. Quand’anche si stesse parlando di un tossicodipendente assenteista conclamato, perché «si creerebbe un precedente», cosa che evidentemente non vogliono né l’amministrazione né il sindacato.
A rendere la situazione ancora più paradossale, le retribuzioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono congelate dal 24 maggio 2010 e la norma stabilisce chiaramente che gli aumenti che sarebbero dovuti intervenire durante il blocco (la cui fine non sembra imminente) non potranno essere recuperati mai. Quindi tutto l’esercizio che ho appena descritto, che costa tempo e danaro ai lavoratori e all’amministrazione, ha come unico risultato che sul cedolino dello stipendio e sugli altri documenti dell’ufficio del personale il dipendente troverà scritto, ora, terza fascia invece di seconda fascia. Bello, no? Son soddisfazioni. Ma non un centesimo in più.
E non finisce qui. Nel contratto è anche previsto che un’esigua minoranza dei lavoratori (al massimo il 10%, mi pare stabilisca il contratto integrativo), se è trascorsa almeno le metà della durata della permanenze prevista per il passaggio alla fascia successiva, possa accedere a un passaggio anticipato di fascia, con procedure naturalmente un pochino più complesse e time consuming, ma con lo stesso risultato pratico: potersi fregiare di una dicitura cui non corrisponde alcun vantaggio economico, né lavorativo, né di prestigio. Credetemi.
Molti si ricorderanno della tavola periodica degli elementi dai tempi della scuola, anche se magari non hanno più avuto modo di frequentarla negli anni successivi.
Per chi proprio non se ne ricordasse, qui in piccolo riassunto da Wikipedia:
La tavola periodica degli elementi (o semplicemente tavola periodica) è lo schema con il quale vengono ordinati gli elementi sulla base del loro numero atomico Z.
Ideata dal chimico russo Dmitrij Mendeleev nel 1869 – ma anche, contemporaneamente e indipendentemente, dal chimico tedesco Julius Lothar Meyer (1830 – 1895) – inizialmente contava numerosi spazi vuoti, previsti per gli elementi che sarebbero stati scoperti in futuro, alcuni nella seconda metà del 1900.
In onore del chimico russo, la tavola periodica degli elementi è anche detta tavola periodica di Mendeleev.
È stata proprio la fascinazione del libro di Sachs a spingere Theo Gray, uno dei co-fondatori di Wolfram Research, a costruirsi una tavola-tavola, fatta di legno e con piccoli ripostigli sotto ogni coperchietto. Tutta fatta e popolata da lui nel tempo libero.