Roma, 7 giugno 2008, ore 19. C’è stato il corteo del Gay Pride. Ormai tutti sono entrati a Piazza Navona, molti ballano, i più chiacchierano tra loro, s’incontrano, si abbracciamo. Tanti cominciano ad andarsene, alla spicciolata. E a piedi, perché i mezzi pubblici non hanno ripreso a funzionare. Tra loro anch’io, un tranquillo signore di mezza età, capelli grigi, pacifico e disarmato. Vado verso Piazza Venezia e, a Piazza del Gesù, mi accingo a imboccare Via del Plebiscito. Ma un cordone di polizia mi impedisce il passaggio a piedi, per motivi di ordine pubblico.
A me pare molto grave. Primo, per quanto una sfilata di gay e lesbiche possa essere sgradita all’attuale maggioranza – incrinandone le granitiche certezza sull’ortodossia dei comportamenti sessuali – dubito che possa rappresentare un qualsivoglia rischio per l’ordine pubblico. Secondo, in Via del Plebiscito non vi è alcuna sede istituzionale, ma l’abitazione privata del Presidente del consiglio pro tempore. Questa è una violazione dello spirito e della lettera non soltanto della nostra Costituzione repubblicana, ma degli stessi principi affermati dalla Rivoluzione francese del 1789, di abolizione dei privilegi e di eguaglianza dei cittadini, cui anche il Popolo delle libertà (sic!) dice di ispirarsi.
È un problema che ci riguarda tutti, perché se restiamo acquiescenti le libertà elementari ci saranno sfilate sotto il naso prima che ce ne accorgiamo. Principiis obsta, direbbero Ovidio e mia madre.
SVEGLIA!, dico io.