Guida all’acquisto dei regali per economisti comportamentali

In questo periodo dell’anno, sappiamo tutti che l’acquisto dei regali è un’attività costosa e stressante. Negli Stati Uniti la spesa media pro capite è di 700 $. E poi, meglio un regalo molto personale, o andare sul sicuro e comprare uno di quei “buoni” che sono la vera novità dell’anno? Il regalo deve rispecchiare i desideri di chi riceve o i gusti di chi dona?

Pacchetto

Domande difficili e apparentemente intramontabili, cui The Atlantic risponde mettendo in campo il parere degli economisti comportamentali.

The Behavioral Economist’s Guide to Buying Presents – The Atlantic

  1. Qual è il regalo migliore? Denaro contante!
    In un celebre articolo del 1993 (The Deadweight Loss of Christmas) Joel Waldfogel mostra, sulla base di un esperimento condotto su un campione di studenti di Yale, che chi riceve un regalo ne stima il valore in una cifra tra il 10 e il 30% più bassa di quanto ha effettivamente speso chi il regalo l’ha comprato. Naturalmente, ci sono differenze basate sul grado di conoscenza e di parentela: nonni e zii fanno i regali peggiori (quelli che valutiamo molto meno di quello che sono costati); fidanzati e fidanzate i migliori. Nel dubbio, regalare soldi è dunque meno romantico, ma più efficiente.
  2. Troppo impersonale: e se non voglio regalare soldi? Concentrati sul messaggio.
    I regali sono messaggi: che cosa vuoi dire? Afferma Mary Finley Wolfinbarger (Motivations and Simbolism in Gift-Giving Behavior): “in primitive cultures, the gift was equally economic and symbolic. In societies with well-developed markets, it is hardly surprising that the gift has been at least partially stripped of its economic importance, leaving in a much more prominent position the symbolic value…”
    Secondo Canice Prendergast e Lars Stole (The non-monetary nature of gifts) i regali hanno anche un ruolo nella scelta del partner: “an individual who can show that he understands the preferences of his partner is likely to be a more desirable partner than one who has no idea what his partner wants or believes in.”
    Insomma, è diverso regalare al tuo partner un whisky qualsiasi, o la sua marca preferita.
  3. E allora, che cosa regalo al mio fidanzato o alla mia fidanzata? A un maschio un gadget, a una donna una cosa costosa e inutile.
    Russell W. Belk e Gregory S. Coon (Gift Giving as Agapic Love: An Alternative to the Exchange Paradigm Based on Dating Experiences) hanno individuato tre principali scopi del regalo: lo scambio sociale (il regalo come pegno di una promessa), lo scambio economico (per i maschi, il regalo è un modo di ottenere sesso in cambio) e l’amore “agapico” o disinteressato (più importante per le donne). Per questo, concludono, agli uomini regalate qualcosa di utile, alle donne qualcosa di sentimentale e stravagante.
  4. E se quest’anno non volessi comprare regali? Che cosa direbbe su di me? Che sei probabilmente un maschio, e per di più pidocchioso.
    In uno studio ormai classico (Christmas Gifts and Kin Networks), il sociologo Theodore Caplow argomenta che lo scambio natalizio di doni è un rituale complesso che coinvolge l’intera popolazione, governato da regole non scritte ma non per questo meno sanzionate, volto soprattutto a rafforzare legami considerati importanti ma a rischio (come, in America, quelli matrimoniali e dunque tra le famiglie dei coniugi).
  5. Mi avete convinto, compro i regali. Ma li devo impacchettare? Sì.
    Libero di non crederlo, ma gli economisti studiano anche questo. Un team di ricerca australiano (To wrap or not wrap? What is expected? Some initial findings from a study on gift wrapping) conclude (sulla base di 20 interviste, ahimè) che un regalo deve sembrare un regalo, e dunque deve essere infiocchettato.

Sull’argomento intrerviene anche Dan Ariely, autore del best-seller Predictably Irrational, sul suo blog chiedendosi Fare regali è irrazionale?

Ariely distingue vari tipi di regali:

  1. lo scambio economico: regalo a mio nipote delle calze perché sua madre mi ha detto che ne ha bisogno…
  2. lo scambio sociale: ci invitano a cena e portiamo un “pensierino.” Nulla a che fare con l’efficienza economica, stiamo rafforzando un legame sociale.
  3. il regalo paternalistico: ti regalo qualcosa che dovresti conoscere e apprezzare (un disco o un libro) o apprendere (lezioni di yoga o di muisca).
  4. il regalo empatico: per scegliere il tuo regalo provo a mettermi nei tuoi panni. È un serio investimento sociale.
  5. il regalo desiderante: regalo un oggetto che mi piace ma che se comprassi per me mi farebbe sentire in colpa. Sotto il profilo economico è insensato: se una cosa mi piace e posso permettermela me la dovrei comprare.

Un’ultima raccomandazione di Ariely: se volete essere ricordati e massimizzare la connessione sociale, non regalate nulla di deperibile. Non fiori o dolci, ma un vaso o una stampa, Non importa se a chi lo riceve non dovesse piacere particolarmente, conta che sia duraturo. Meglio ancora, qualcosa che si usa a intermittenza. Un oggetto che sta sempre sotto i vostri occhi, dopo un po’ sparisce. Regalate un robot da cucina.

O delle cuffie per la musica: ogni volta che le ascolterà, sarà come parlare all’orecchio

L’orecchio del tiranno

Nelle istituzioni – non sto ovviamente parlando di quella istituzione totale in cui sono volontariamente detenuto, ma delle istituzioni in generale.

Anzi, cerchiamo di essere il più generici possibile: nelle istituzioni e nelle imprese, insomma nei corpi sociali organizzati gerarchicamente, insomma …

Oggi l’avvio è lento.

Insomma, c’è la gerarchia rappresentata nelle scatolette dell’organigramma, e poi c’è organigramma reale, il pecking order informale ma noto a tutti, salvo agli sciocchi e a quelli irreparabilmente tagliati fuori.

Non potendo essere rappresentato sull’organigramma, il potere reale si deve rivelare simbolicamente. Uno dei simboli, che è al tempo stesso un rito, è quello dell’orecchio del tiranno.

Si svolge così. Deve essere una situazione formale. Il capo supremo presiede un consesso dei quadri. Disposizione a teatro. Lui seduto al centro del tavolo di presidenza, meglio se su una sedia un po’ più grande delle altre che ne chiarisca simbologicamente il ruolo, circondato dai gerarchi dell’organigramma formale. I quadri seduti in platea. A un certo punto da uno degli scranni, ma più spesso dalla platea, il consigliere (o più spesso la consigliera) si alza, sale i due-tre scalini che separano il palco dalla platea, si avvicina con studiata lentezza al capo seduto, si china e gli dice qualche cosa all’orecchio.

Oppure – supponiamo che nel frattempo il capo sia cambiato, per un normale avvicendamento, e che di conseguenza siano anche cambiati l’organigramma ufficiale e quello reale. Questo capo – giusto per immaginare una situazione all’apparenza diversa, ma simile nella sostanza – questo capo, dicevamo, è più democratico, o più populista, o più alla mano. O tutte tre le cose insieme: la sostanza non cambia. Ma la forma sì. Questa volta niente teatro con podio e platea. Questa volta i dirigenti sono disposti tutti intorno a un grande tavolo. Tutte le sedie sono uguali. La centralità del capo è segnalata soltanto dalla sua posizione: al centro del tavolo, e fronteggia l’ingresso, luce alle spalle (prossemica, si chiama). Ma anche in questa situazione, lui o lei – che non siede vicino al capo, perché quelle posizioni sono dedicate ai “vice” della gerarchia formale – si alza e con studiata lentezza …

Orecchio del tiranno

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