Bourdieu e lo spazio dei consumi alimentari – un aggiornamento

Nel classico di Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, si parla di consumi alimentari per poco più di 20 pagine sulle quasi 600 del libro. Ma a pagina 199 dell’edizione che ho io c’è una figura interessante, che accompagna considerazioni come questa:

In quanto cultura divenuta natura, cioè incorporata, classe che si fa corpo, il gusto contribuisce a plasmare il corpo di ogni classe»

La figura è questa (metto quella dell’edizione in inglese, perché non ho modo di mettere quella della mia edizione):

Lo spazio dei consumi alimentari

gastronomica.org

Adesso Molly Watson su Gastronomica, The Journal of Food and Culture ha aggiornato il grafico, per adattarlo alla situazione americana di oggi.

L’originale è qui: Bourdieu’s Food Space – Gastronomica

Buon divertimento.

Bourdieu e lo spazio dei consumi alimentari – un aggiornamento

gastronomica.org / Illustration by Leigh Wells, http://leighwells.com

Dati: la metafora dell’acqua e il nuoto sincronizzato

Il post è di Nathan Yau, che l’ha pubblicato su Flowing Data il 21 giugno 2012:

Ma è troppo bello perché non mi cimenti nella sua traduzione (libera, consentitemelo):

L’alluvione. La valanga. Lo tsunami. Annegare nei dati.

Da alcuni anni, un paio di volte alla settimana, esce un articolo per raccontarci a quanti dati abbiamo accesso e quanto dobbiamo dibatterci per restare a galla in un mare di dati che si gonfia sempre più. Troppi dati, e crescono ancora, ci dicono.

La metafora dell’acqua va bene, ma la paura dell’inondazione di dati è irrazionale, e possiamo provare a nuotarci in scioltezza.

Cominciamo dalle alluvioni e dagli tsunami. Parole fatte apposta per darci l’impressione che l’afflusso di dati sia fuori controllo e che non ci sia modo di arginarli quando lambiscono la tua porta di casa. Ma puoi semplicemente chiudere il rubinetto. Fuor di metafora: filtrare, tagliar fuori, cercare quello che vuoi. Per di più, oggi come oggi, la capacità di storage è pressoché infinita: anche se l’acqua sale, la diga e il bacino possono crescere di pari passo.

Se i dati ti sembrano troppi, premi il tasto «DELETE». Oppure, imbottigliali e conservali per dopo.

Quando impari a nuotare, cominci dove si tocca e vai al largo solo quando ti senti più sicuro. Se sei più portato all’avventura, fai snorkeling o addirittura immersioni. Anche in questo caso non attraversi subito l’oceano a nuoto. Esplori un po’ per volta. Affronti il database pezzo per pezzo, e quello che hai imparato in un’immersione te lo porti nella successiva. Lo ammetto: nell’oceano si può annegare. Ma quando anneghi nei dati hai sempre un’altra chance: puoi riprovarci e imparare di nuovo.

Non devi per forza affrontare subito l’oceano. Stagni e laghi sono più piccoli, ma non meno interessanti. Pensa locale. E se proprio devi, fatti amico uno di quei marinai tosti del telefilm Deadliest Catch e fatti portare da lui il pesce che vuoi studiare. Meglio ancora: diventa il mozzo del miglior capitano che trovi e impara l’arte della navigazione tu stesso.

Alla fin fine, più dati vuol dire più possibilità, e se impari a tenerti a galla te la caverai. Sai nuotare meglio di così? Tanto meglio. Continua a imparare …

E persino se non sai nuotare, ci sono tante alternative: salvagente, zattere, persino quelle poltroncine gonfiabili con il posto per metterci una birra ghiacciata. Annegare nei dati? Ma va là …

Even if you can’t swim, there are a variety of alternatives — life preservers, rafts, and those inflatable floating chairs with the cup holder to put your ice cold beer. Drowning in data? Nah…

Synchronized Swimming in Data and the Water Metaphor

by Nathan Yau

The flood. The avalanche. The tsunami. Drowning in data. For the past few years, a couple of times a week, there’s an article about all the data we have access to and how we’re struggling to stay afloat in the growing sea of data. Big data is getting too big they say.

The water metaphor is fine, but the fear of the data flow is irrational, so let’s run swim with the former.

First, the floods and tsunamis. This makes it sound as if the flows of data are uncontrolled, and there’s no way to contain them when they storm to our doorstep. However, you could just turn off the nozzle, or filter, cut, and query to what you want. And these days, we practically have infinite storage, so although the source of water increases, the reservoir and dam can grow with it.

Hit delete if the data gets too big, or bottle it and save it for later.

When you learn to swim, you start at the shallow end, and work your way towards the deep end. If you’re more adventurous, you snorkel or go deep sea diving. Even then you don’t swim the entire ocean right away. You explore a little bit at a time. You chip away at the database a little bit at a time, and what you learn during one dive carries over to the next. Sure, people drown in the ocean, but the good news is that when you drown in data, you still get more chances to learn and try again.

You don’t even have to go to the ocean right away. Although they’re small, ponds and lakes can be interesting too. (Think hyperlocal.) If you really must, make friends with one of those guys from Deadliest Catch and have him bring you what you want to study. Better yet, become a greenhorn with the best captain you can find and learn the subtleties of the sea.

At the end of the day, more data means more opportunity, and if you know how to doggy paddle, you’re going to be okay. Know how to do more than that? All the better. Keep learning.

Even if you can’t swim, there are a variety of alternatives — life preservers, rafts, and those inflatable floating chairs with the cup holder to put your ice cold beer. Drowning in data? Nah.

Tsunami

wikipedia.org

Apologia della raccomandazione

See on Scoop.itSpigolature

«Se tutti sono d’accordo su una questione socialmente rilevante, vuol dire o che non l’hanno capita veramente o che conviene a tutti, oppure entrambe le cose.»


Riprendo da libernazione.it

Postato da in società • 18 giu 2012
Negli ultimi anni si è scritto e detto fino alla nausea (mia) che una delle piaghe italiane, uno dei morbi da debellare, è l’assenza di meritocrazia.

Geniacci della carta stampata, politicanti di varia estrazione e sindacalisti di ogni sigla si sono dimostrati polifonicamente d’accordo e hanno ricondotto a questa mancanza fondamentale numerosi fenomeni, tra cui la fuga dei cervelli, l’incapacità dell’attuale classe politica e le esplosive carriere di giovani rampolli nel settore pubblico e privato.

Ebbene, una cosa credo d’averla imparata lungo il cammino: se tutti sono d’accordo su una questione socialmente rilevante, vuol dire o che non l’hanno capita veramente o che conviene a tutti, oppure entrambe le cose.
Nel nostro caso, mi pare che la storiella sia stata confezionata bene e resa commestibile e digeribile. È stata confezionata talmente bene che ha accontentato tutti: dai giovani precari, che hanno trovato una valida giustificazione alla loro precarietà, agli esclusi dai posti di rilievo, che hanno trovato una giustificazione alle loro carriere bloccate, fino ai giovani politici e sindacalisti, che si sono presentati come pronti a succedere ecologicamente ai vecchi trapani della Seconda Repubblica.

Ma il problema è davvero l’assenza di meritocrazia? Secondo il nuovo e pugnace Forum della Meritocrazia, ovviamente sì. Questi nuovi profeti del Merito con la emme maiuscola (ennesimi titolari di una giustezza quasi divina), sostengono che quest’ultimo riguardi nientepopodimeno che “ogni azione dell’uomo e non si fonda su risultati di breve periodo, ma è un valore che implica la persona nella sua interezza.”
Insomma, se uno è meritevole, è meritevole dalla testa ai piedi.

Il primo errore che commettono i novelli meritocratici è quello di attribuire al merito un carattere sempiterno (come ogni divinità che si rispetti, del resto), dimenticando che, come ogni cosa che riguarda la sfera dell’umano, anch’esso può svilupparsi, affermarsi e poi non esserci più.
La seconda fesseria è quella di trascurare la dimensione “tecnica” del merito a favore di quella strettamente valoriale.
Ebbene sì, perché il discorso intorno al merito non può fondarsi soltanto su una concezione condivisa, alla pari del bene e del male (moralisti!) ma deve seguire, a mio avviso inevitabilmente, la strada della formalizzazione, che è di natura tecnica: quali sono i parametri per stabilire se uno è meritevole oppure no? L’ha capito Roger Abravanel, che ha esposto nel suo libro “Meritocrazia” quattro proposte concrete per far sorgere il merito. Ma a loro non interessa perché è troppo complicato e non fa audience.

Tuttavia, oltre all’approccio moralistico, contesto pure il principio. Lasciando da parte che nel tempo è avvenuta una storpiatura bella e buona del termine “meritocrazia” (che sarebbe altra cosa dal semplice essere meritevoli), quel che proprio non mi piace è la natura totalizzante (sia concettualmente che socialmente) della questione, nonché la colpevole disattenzione verso l’individuo – sembra che siamo obbligati ad essere meritevoli nel senso comune. È chiaro che sia il singolo ad essere potenzialmente più o meno meritevole – questo gli va riconosciuto – ma chi può stabilire che lo sia per davvero? Allo stato dei fatti, cioè in un contesto che si disinteressa dell’aspetto “tecnico” e che predilige quello retorico-pubblicistico, nessuno. O, meglio, tutti. Perché non vi sono strumenti in grado di aiutare coloro che si trovano nella posizione di scegliere, per esempio in un colloquio di lavoro, a parità di titoli, chi sia il più meritevole.

Sebbene possa sembrarlo, non è una questione secondaria. Perché questi apostoli del merito diffondono il loro verbo, provando a convincerci tutti che coloro che si affidano ancora a strade alternative, come quella della raccomandazione, siano da fustigare pubblicamente, da scomunicare, da esiliare. Non meritano – scusate il gioco di parole – di far parte della vicenda storica collettiva, che è indubitabilmente pervasa dal loro spirito.

I cinesi utilizzano il termine guanxi per indicare il complesso gioco di relazioni sociali che aiutano l’individuo a superare gli ostacoli della pratica quotidiana (quindi, anche lavorativa). Qui in Italia si è parlato a lungo di clientelismo e familismo. Siamo stati abituati a sentirci dire che il nostro bel paese, che pure ha avuto un’economia interessante per quasi due decenni, si è fondato su un sistema moralmente deprecabile.

Ora, riconosco anch’io che un certo tipo di clientelismo ha condannato ampie zone del nostro paese all’immobilità; non sono ottuso. Ma voglio chiedervi: come pensate che si sia sviluppato il modello vincente della cosiddetta Terza Italia? Con la meritocrazia o con le reti sociali dei piccoli distretti industriali? Be’, sappiate che Renzo Rosso, patron della Diesel, negli anni ottanta andava a pescare nel bacino della provincia del nord-est, assumendo spesso parenti dei suoi dipendenti. Qualcuno ha il coraggio di parlare di mancanza di meritocrazia?

I modelli vincenti si costruiscono sulla base di variabili che non possono ricondursi esclusivamente al merito così come è inteso dai nostri scienziati della semplicità, e cioè come un “valore”. I modelli vincenti si fanno con le persone e le intelligenze e, talvolta, pure con le spintarelle.

Per questo, in assenza di criteri adeguati e di una discussione seria, che tenga conto della reale complessità delle cose, preferisco mille volte il vecchio sistema delle raccomandazioni. Per lo meno conosciamo il criterio e sappiamo cos’è che non funziona.