Seconda puntata. Almeno adesso sappiamo qualche cosa di più.

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Per esprimere la mia profonda (ma purtroppo irrilevante) distonia, proverò ad andare per punti. Con la piena consapevolezza che queste semplificazioni costringono a essere un po’ rozzi e un po’ banali.
- La democrazia, come ha detto Churchill (che però a sua volta citava qualcun altro), è la peggior forma di governo escluse tutte le altre che sono state sperimentate in questa valle di lacrime.
«Many forms of Government have been tried and will be tried in this world of sin and woe. No one pretends that democracy is perfect or all-wise. Indeed, it has been said that democracy is the worst form of government except all those other forms that have been tried from time to time.» [discorso tenuto alla House of Commons l’11 novembre 1947]wikimedia.org/wikipedia/commons
Il filosofo del diritto che ha scritto le cose più importanti sulla democrazia (secondo me, ma anche secondo molti altri) è Hans Kelsen (su questo blog ne ho parlato già qui): Kelsen non ha soltanto scritto molti testi teorici importanti, ma si è anche “sporcato le mani” ispirando e aiutando a scrivere molte carte costituzionali del XX secolo. Anche la nostra costituzione ha una forte ispirazione kelseniana.
Farò riferimento qui soprattutto a un lungo articolo del 1955, “Foundations of Democracy”, pubblicato sul numero di ottobre della rivista Ethics. È una buona summa del pensiero di Kelsen in materia e ha il vantaggio di essere in inglese (e non in tedesco). Le citazioni che seguono, salvo diversa indicazione, vengono da quel testo.
- Democrazia vuol dire governo del popolo (non per il popolo); implica la partecipazione del governato al governo e la libertà nel senso di autodeterminazione politica:
«The original meaning of the term “democracy,” coined in the political theory of ancient Greece, was: government by the people (demos = people, kratein = govern). The essence of the political phenomenon designated by the term was the participation of the governed in the government, the principle of freedom in the sense of political self-determination; and this was the meaning with which the term has been taken over by the political theory of Western civilization.» - Per Kelsen, la democrazia è (soprattutto) democrazia rappresentativa. Fino a poco tempo fa, la democrazia diretta non era tecnicamente “fattibile”, salvo che su piccola scala (dal condominio al cantone svizzero, per così dire). Adesso, più d’uno sostiene – Casaleggio in testa – che la democrazia diretta sia diventata tecnicamente possibile grazie al web: la situazione è molto più complicata da così, ma affrontare questo tema ci porterebbe molto lontano. Il tema è approfondito in un libro molto interessante, che vi consiglio di leggere [Cass R. Sunstein (2006). Infotopia: How Many Minds Produce Knowledge. Oxford: Oxford University Press].
Ma torniamo a Kelsen:
«The term [democracy] designates a government in which the people directly or indirectly participate, that is to say, a government exercised by majority decisions of a popular assembly or of a body or bodies of individuals or even by a single individual elected by the people. The individuals elected by the people are called its representatives.» - La rappresentanza è una relazione tra elettori ed eletti, attuata attraverso le elezioni.
«This representation of the people means the relationship, constituted by election, between the electorate and the elected. By “people” all the adult individuals are to be understood who are subject to the government exercised directly by the assembly of these individuals or indirectly by the elected representatives. Democratic elections are those which are based on universal, equal, free, and secret suffrage. According to the extent to which these requirements, especially the universality of suffrage, are fulfilled, the democratic principle may be realized in different degrees. It has considerably increased during the twentieth century by the fact that the right of voting, restricted during the nineteenth century to taxpaying people and to the male sex, has been extended to nontaxpaying wage earners and to women. Democracy became a mass democracy.»
Dunque, il sistema elettorale non è neutrale, ma discrimina tra diversi gradi di realizzazione dell’ideale democratico: ad esempio, le elezioni a suffragio universale sono più democratiche (per così dire) di quelle che limitano il diritto di voto ai possidenti maschi. Per Kelsen, sono elezioni democratiche quelle in cui il suffragio è universale, eguale, libero e segreto. Non è affatto un caso che questa affermazione ricordi da vicino quello che proclama l’art. 48 della nostra Costituzione: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto.» - Nella prima parte di questa discussione abbiamo visto (ce lo ha ricordato la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum) che l’Assemblea costituente, pur approvando in un ordine del giorno un’esplicita preferenza per il sistema proporzionale, lasciò la materia alla legge ordinaria.
- Non così Kelsen, che si esprime sull’argomento con estrema chiarezza, discutendo le posizioni di due economisti prestati alla filosofia del diritto, Joseph Schumpeter e Friedrich von Hayek. Schumpeter e von Hayek erano esponenti del liberalismo in senso tanto economico quanto politico, erano per così dire liberisti e liberali. Per sostenere che il capitalismo è per sua natura più affine alla democrazia del socialismo avevano bisogno di denotare la democrazia come una forma di competizione: «that institutional arrangement for arriving at political decisions in which individuals acquire the power to decide by means of a competitive struggle for the people’s vote.» [Joseph A. Schumpeter (1942). Capitalism, Socialism and Democracy. New York: Harper & Bros.].
Per capire meglio il punto di Schumpeter, tenete presente che in inglese si usa lo stesso vocabolo, competition, per denotare tanto quella che noi chiamiamo concorrenza in senso economico, quanto quella che noi chiamiamo competizione in senso sportivo o, appunto, elettorale. - No, obietta Kelsen: la competizione per conquistare il voto del popolo è la conseguenza delle libere elezioni, non il suo scopo.
«The competitive struggle for the people’s vote is the consequence of free elections; it is not its purpose. In a direct democracy there are no elections at all. The primary criterion of democracy is that the power of government is with the people. If the people cannot or will not exercise this power directly, they may delegate it by free election to representatives and thus, instead of governing themselves, create a government. Hence free election and its consequence, the competitive struggle for the people’s vote, is a secondary criterion.» [i corsivi sono miei] - In questo modo si cambia la definizione stessa di democrazia: da governo del popolo a governo fondato sulla competizione: «the definition of democracy as government by the people is replaced by the definition as government established by competition».
- Per di più, questa inversione (tra criterio primario e criterio secondario) è in contraddizione con la circostanza che il sistema della rappresentanza proporzionale riduce al minimo la competizione per il voto popolare: con il sistema proporzionale, per essere rappresentato un gruppo politico non ha necessità di conquistare la maggioranza dei votanti; ogni gruppo è rappresentato sulla base della sua forza numerica:
«[Such reversion between the two criteria is] in conflict with the fact that even where the governmental body is elected, the most democratic electoral system is the one which eliminates, or at least reduces to a minimum, the competitive struggle for the people’s vote: the system of proportional representation. It is characterized by the fact that in the procedure of the election the majority-minority relation has no importance. In order to be represented, a political group does not need to comprise the majority of the voters; for every group is represented, even if it is not a majority group, according to its numerical strength. In order to be represented, a political group must have only a minimum number of members. The smaller this minimum number, the more members the representative body has.» - Al tendere di questo minimo a uno, la democrazia rappresentativa tende alla democrazia diretta, che si avvicina di più all’ideale del governo del popolo della democrazia indiretta. E il sistema della rappresentanza proporzionale va chiaramente in questa direzione:
«In the mathematical borderline case where the minimum is one, the number of delegates is equal to the number of voters-the representative body coincides with the electorate. This is the case of direct democracy. Such democracy is certainly to a much higher degree a government by the people than an indirect or representative democracy. The system of proportional representation shows a clear tendency in this direction.» - Kelsen cerca poi di controbattere all’obiezione che la rappresentanza proporzionale, a differenza del sistema maggioritario, non garantisce un esecutivo efficiente. Questa è un’obiezione che abbiamo sentito spesso anche nel nostri dibattiti politici: ci tornerò più avanti.
- Il punto però, insiste Kelsen, qui è un altro: quello dell’essenza della democrazia, non della sua efficienza. E dal quel punto di vista, la volontà del popolo è meglio rappresentata da un corpo di eletti in cui sono presenti tutti i gruppi politici o da un corpo di eletti in cui sono rappresentati soltanto un gruppo politico di maggioranza e uno di minoranza?
«Our question is not the efficiency but the essence of democracy. And from this point of view there can be no doubt that a governmental body in which all political groups are represented is more likely to express the will of the people than a body in which only the majority group or the majority group and one minority group are represented.» [corsivi miei]. - Questo risultato, per di più, lo si ottiene minimizzando la concorrenza (e dunque l’acrimonia) tra candidati appartenenti a partiti politici differenti.
«And one of the greatest advantages of the system of proportional representation is that no competition of candidates of different political parties is necessary. According to the system of majority representation, every delegate is elected with the votes of one group, the majority, against the votes of another group, the minority. According to the system of proportional representation, every delegate is elected only with the votes of his own group without being elected against the votes of another group.» - Alla fine del suo lungo e complesso ragionamento (che mi auguro di essere riuscito a dipanare efficacemente) è proprio qui che risiede – a giudizio di Kelsen – la superiorità del sistema proporzionale: essere la migliore approssimazione possible all’ideale dell’autodeterminazione in una democrazia rappresentativa:
«The system of proportional representation is the greatest possible approximation to the ideal of self-determination within a representative democracy and, hence, the most democratic type of electoral system, precisely because it does not require a competitive struggle for the people’s vote.» - Ecco, ci siamo arrivati. Questo è il ragionamento con cui Kelsen arriva a fare l’affermazione citata molte volte (per esempio qui):
«Il sistema della rappresentanza proporzionale costituisce la maggiore approssimazione possibile all’ideale dell’autodeterminazinne in una democrazia rappresentativa e quindi il sistema elettorale più democratico».
Quello che pensava Kelsen (e con cui io concordo) dovrebbe adesso essere chiaro a tutti.
Mi restano due quesiti cui rispondere.
- Il primo: ma davvero l’Assemblea costituente riteneva possibile un voto eguale in un sistema elettorale diverso da quello proporzionale? Se sì, l’onere è su di voi maggioritariofili: mostratemelo un sistema non proporzionale in cui il voto sia eguale. Se no, allora l’argomentazione della Corte costituzionale è speciosa. L’argomentazione della Corte, infatti, si basa sulla possibilità di uno scarto tra esercizio dell’elettorato attivo e risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore, che dipenderebbe dal sistema elettorale adottato.
L’argomentazione è mutuata dalla sentenza n. 43 del 1961.
Ma a me sembra veramente capziosa.
È vero (trivialmente vero, direbbe un matematico) che in qualsiasi sistema elettorale è presente «una distorsione fra voti espressi ed attribuzione di seggi» (così si esprime la Corte costituzionale nella sentenza sul Porcellum): anche in un sistema proporzionale perfetto sono sufficienti piccole imperfezioni nel disegno dei collegi per introdurre una distorsione. Ipotizziamo, ad esempio, che 51 milioni di aventi diritto al voto debbano eleggere 630 rappresentanti. In teoria, esattamente 80.952 voti eleggerebbero un rappresentante. Ma il disegno dei collegi e la distribuzione della popolazione sul territorio interagirebbero a fare sì che in alcuni collegi bastino 79.000 voti a eleggere un rappresentante e in altri ne servano 82.000, tanto per fare un esempio.
Ben diverso (lo può capire anche un fine giurista privo di consapevolezze matematiche? number numb, come diceva Douglas Hofstadter?) è attribuire il 53% di seggi alla coalizione A che raggiunge il 35% dei voti. In questo caso (fatevi il calcolo se volete) gli elettori della coalizione A eleggerebbero un rappresentante ogni 52.000 voti (e sto arrotondando per eccesso), mentre a quelli delle coalizioni perdenti servirebbero 117.000 voti per eleggere un loro rappresentante.
Domanda retorica: c’è anche una sola accezione, cari fini giuristi, in cui questo voto può essere definito eguale ai sensi dell’art. 48 della nostra Costituzione? Questo scarto (52.000 vs. 117.000, cioè un rapporto di 1 a 2,3) può essere definito una distorsione?
E non abbiamo nemmeno sfiorato gli altri meccanismi “distorsivi” come le soglie di sbarramento… - Il secondo: ma soltanto il maggioritario garantisce la governabilità. Come abbiamo visto, è un argomento che già negli anni Cinquanta i fautori del sistema maggioritario opponevano ai sostenitori del sistema proporzionale. Lo stesso Kelsen concede che sussista un trade-off tra efficienza ed essenza della democrazia: la democrazia diretta sarebbe quella più essenzialmente democratica ma anche (verosimilmente) la più inefficiente, mentre un dittatore (governo per il popolo, ma non del popolo, secondo Kelsen) sarebbe forse efficiente ma sicuramente non democratico.
Ma non è questa la mia argomentazione.
La mia argomentazione è che non bisogna confondere la stabilità politica con la durata dei governi. E, secondo me, il termine abusato governabilità ha contribuito a intorbidare le acque.
Secondo il Vocabolario Treccani, la governabilità è «l’esistenza di un complesso di condizioni sociali, economiche, politiche e simili, tali da rendere possibile il normale governo di un paese.»
Allora, se non ho fatto male i miei calcoli, tra l’inizio della I legislatura (18 aprile 1948, ma il governo si insediò il 22 maggio) e oggi ci sono stati 57 governi: 46 nella cosiddetta prima repubblica, cioè fino all’introduzione del Mattarellum e all’inizio della XII legislatura nel 1994, e 11 nella cosiddetta seconda repubblica. Durata media dei primi, all’incirca un anno; dei secondi, 1,82 anni: Bene, nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica (quindi da un proporzionale quasi puro a un maggioratario o un proporzionale con enorme premio di maggioranza) la durata dei governi è quasi raddoppiata.
Ma la stabilità del quadro politico? Perché converrete che la durata del governo non conta poi tanto, se resta al potere la stessa parte politica e attua il suo programma. Nel quinquennio ulivista, tra il 17 maggio 1996 e l’11 giugno 2001, si sono succeduti 4 governi, ma non ci sono molti dubbi che non fosse al potere la medesima coalizione. Ma certo, direte voi, era per l’appunto in vigore un sistema elettorale che garantiva la stabilità e l’alternanza. Benissimo. E prima?
Tra il 22 maggio 1948 e il 4 dicembre 1963 sperimentammo 15 anni di centrismo variamente declinato: ci furono, è vero, 14 governi; ma al potere restarono saldamente i democristiani e i partitini di centro (liberali, repubblicani e socialdemocratici). Alla fine del 1963 iniziò la stagione del famoso centro-sinistra, più o meno “organico”, che dominò la scena fino alle elezioni del 1976 (14 governi in 13 anni). Tra il 1976 e il 1979 si consumò l’esperienza della “solidarietà nazionale”, anche se il PCI non entrò mai nel governo (3 governi in 3 anni). Poi, l’esperienza del pentapartito (DC e PSI, più repubblicani, liberali e socialdemocratici): 15 governi in 15 anni, se ci mettiamo anche le fibrillazioni finali (governi Amato e Ciampi). Insomma tra il 1948 e il 1994, in 46 anni, abbiamo avuto 4 grandi fasi politiche (centrismo, centro-sinistra, compromesso storico e CAF).
Nel ventennio della seconda repubblica abbiamo avuto 5 fasi ben definite di alternanza (3 volte Berlusconi e 2 volte il centro-sinistra) e 2 fasi di casino (Dini nel 1995-1996 e Monti-Letta dal 2011). Non un gran che per sostenere che le alchimie elettorali garantiscono la stabilità, anche se a scapito della rappresentanza democratica.
mercoledì, 29 gennaio 2014 alle 15:13
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