Kate Atkinson – Life After Life

Atkinson, Kate (2013). Life After Life. London: Transworld. 2013. ISBN: 9781409043799. Pagine 545. 5,89 €

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Comincerò con una excusatio, però petita, e che dunque non dovrebbe condurre a un’accusatio manifesta. Qualche giorno fa, su Facebook, è comparsa una di quelle specie di catene di sant’Antonio più o meno virali, un GIOCO LIBROSO tipo quello che vedete qui sotto, ma a sfondo verde e con la frase «Ditemi l’autore del libro che state attualmente leggendo». Ho abboccato e l’ho condiviso. Ne è nato un piccolo e insignificante equivoco, e allora ho commentato (insieme ad altre cose) che stavo leggendo Life after Life di Kate Atkinson. Non l’avessi mai fatto. Una “amica” (sì, sono scare quotes: ma con FB sono d’obbligo, perché mi càpita di essere “amico” di persone che nella vita reale non saprei riconoscere in un confronto all’americana) mi ha accusato di essere presuntuoso e difficile da commentare.

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Approfitto di questo incidente, tutto sommato irrilevante, per chiarire che non è perché sono presuntuoso che, se possibile, leggo in originale i libri pubblicati in inglese. Non penso di avere grandi talenti naturali (concetto un po’ sfocato, peraltro), a parte un’intelligenza abbastanza versatile. Non eccello in nessuno sport; anzi, sono uno di quelli che, quando si sceglievano a turno i membri delle squadre per giocare una partitella tra compagni di scuola, veniva scelto tra gli ultimi. Mi piace la musica, ma sono stato giudicato “negato alla tastiera del pianoforte” dal mio maestro quando avevo 12 anni (è una storia che ho raccontato qui). Non parlo nemmeno un inglese perfetto quanto a pronuncia, ma articolo abbastanza bene i miei pensieri sia parlando sia, soprattutto, scrivendo. Non posso escludere che in questo un po’ di talento naturale ci sia, ma certo non come chi ha veramente il “dono delle lingue“, come Morgaine. Preferisco pensare che la qualità del mio inglese dipenda in primo luogo dai soggiorni estivi irlandesi negli anni delle superiori e poi, soprattutto, dall’abitudine – acquisita molto presto – di leggere in inglese. All’inizio mi costava fatica, anche se mi dava delle soddisfazioni: era gratificante aver letto Alice in Wonderland in originale, godendosi il delizioso umorismo di Lewis Carroll; in altri casi, c’era la consapevolezza che la lingua era essenziale alla degustazione del testo: come fu il caso di Ulysses, con cui combattei per dei mesi, ma che poi fu il libro galeotto dell’incontro con la mia futura moglie, la citata Morgaine.

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante. [Inferno, V, 124-138]

C’erano anche delle banalissime ragioni pratiche: per molto tempo i paperback in inglese hanno avuto un prezzo molto inferiore alle corrispondenti edizioni economiche italiane (fino a quando è rimasto attivo, sono stato un cliente abituale dell’Economy Book & Video Center di Roma, prima a piazza di Spagna e poi a via Torino); inoltre, la letteratura tecnica spesso non era tradotta in italiano; infine, di alcuni autori non potevo semplicemente aspettare i tempi di traduzione.

Ma la vera svolta, il momento rivelatore che mi ha fatto decidere, molti anni fa, che avrei sempre cercato di leggere l’originale è stato quando per la prima volta mi sono reso conto che non riuscivo a ricordare se un certo libro l’avevo letto in italiano o in inglese.

È una cosa meno superficiale di quello che sembra. Se ci riflettete un momento, vi rendete conto che il processo della lettura è un processo di successive astrazioni, che ha il fine ultimo di mettere in contatto la mente del lettore con quella dell’autore. Il bambino che impara a leggere percepisce innanzitutto forme (di solito nere) su uno sfondo di colore contrastante. Deve fare una prima astrazione, riconducendo la molteplicità e la varietà di quelle forme a un numero finito (in occidente, un centinaio tra lettere maiuscole e minuscole, cifre, segni d’interpunzione e segni diacritici) di simboli: è la fase in cui faticosamente si compita, procedendo lettera per lettera o sillaba per sillaba. Con questo passo, si smette di vedere le forme nere su fondo bianco e si vedono, al loro posto, i segni alfabetici.

È simile al processo cognitivo che accade in certe illusioni ottiche: nell’immagine che segue, a un primo sguardo si vedono soltanto macchie bianche e nere. Ma se vi dico di cercare un cane dalmata, dopo un po’ lo vedrete, al centro della figura, di tre quarti di spalle, il muso a terra, verso quella macchia più scura in alto a sinistra. L’avete visto? Sì? Il bello è che, d’ora in avanti, finché conserverete memoria di questa esperienza, non potrete più “s-vedere” il dalmata, non potrete più vedere questa immagine come un’accozzaglia di macchie bianche e nere.

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Il passo successivo consiste nell’astrarre dai singoli caratteri alfabetici e cogliere le parole nella loro interezza. Lo spazio bianco tra una parola e l’altra ci aiuta a fare questo salto. Ma il bello è che, in realtà, a un diverso livello, succede anche qualcos’altro: quando leggevamo lettera per lettera o sillaba per sillaba, associavamo a ciascuna lettera o a ciascuna sillaba un suono (un fonema) della lingua parlata; mentre adesso, che leggiamo parola per parola, tendiamo ad associare a ciascuna parola l’oggetto o il concetto o l’azione che a quella parola sono associati. Lo stesso facciamo, a un livello ancora superiore, quando leggiamo proposizione per proposizione e così via. E così via finché non arriviamo al livello di un intero libro: questo punto teniamocelo a mente per dopo.

La cosa importante, per quello di cui stiamo parlando qui (la mia excusatio petita), è che l’immagine mentale che si “accende” nella mia mente quando leggo “sedia” è la stessa di quando leggo “chair” o “cadréga”. Lo stesso accade quando leggo “dalmata” o “dalmatian” o “Dalmatiner” o “Chó đốm” (questo è vietnamita) o guardo la figura qui sopra o quella qui sotto.

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E d’altra parte non c’è dubbio che le due figure sono molto diverse: attivano i medesimi nodi mentali, eppure ne attivano anche altri che ci permettono di cogliere le differenze nelle somiglianze. Non soltanto le differenze nella rappresentazione della dalmazianità o comunque la vogliamo chiamare, ma anche differenze che riguardano la sfera estetica (bianco e nero vs. colore, stilizzazione vs. realismo, bassa risoluzione vs. alta risoluzione, …) e quella emotiva (percepiamo la prima immagine come un rompicapo e la seconda come una foto connotata forse positivamente, se vi piacciono i dalmati e magari ve ne ricordate uno che avevate da bambini, o negativamente, se ne siete terrorizzati, come accade a me).

Ecco, è esattamente questo che mi spinge a preferire la lettura dei libri in originale: perché la traduzione, ogni traduzione (non esiste una traduzione “neutra”) trasforma, distorcendola, l’esperienza della lettura.

Naturalmente, come tutti devo fare di necessità virtù. Posso leggere in inglese perché l’inglese lo “padroneggio” abbastanza bene da passare senza sforzo dalla parola e dalla frase all’immagine mentale. Non lo posso fare dal cinese perché non “so” il cinese. Ma non lo posso fare nemmeno dal francese o dal tedesco o dal latino perché pur “sapendo” (a diversi livelli) qualcosa di queste lingue non le “padroneggio” abbastanza da poter passare immediatamente dal vocabolo o dalla proposizione all’immagine mentale: lo devo fare mediatamente, cioè traducendoli dall’una all’altra lingua. E allora tanto vale che lo faccia fare a un professionista che (si spera) lo sa fare meglio di me.

Devo fare di necessità virtù anche per considerazioni di convenienza, quando l’originale è per qualche motivo complicato da raggiungere. Allo stesso modo in cui, non potendo andare al Louvre tutte le volte che mi devo studiare qualcosa sulla Gioconda, mi avvalgo di una riproduzione cartacea o digitale.

Infine, a volte ho interesse nella traduzione in sé, specialmente se è una traduzione con specifici meriti letterari: per esempio le traduzioni di Cesare Pavese di Moby Dick e di Dedalus.

* * *

Venendo al nostro romanzo: non è un romanzo perfetto, ma mi è piaciuto molto.

L’imperfezione del romanzo scaturisce dal fatto che questo è un romanzo plurale, non tanto per la pluralità delle storie (o della storia: tra un momento vedremo perché) che racconta, ma perché alla fine si ha la sensazione che la stessa autrice sia rimasta indecisa su quale direzione di fondo prendere.

Volendo assumere un punto di vista quantitativo (il numero di pagine dedicato a questa o a quella parte della storia) al centro del romanzo c’è la Seconda guerra mondiale; più in particolare, l’enorme sofferenza cui è stata sottoposta la popolazione civile inglese, soprattutto a Londra durante i bombardamenti del Blitz. La stessa autrice accredita questa centralità del Blitz in molte interviste; ad esempio qui:

The war has always held a fascination for me, as it still does for so many people. […] In this book I wanted to focus on the Blitz partly because it’s quite a high-concept novel and to have tackled the whole war would have worked against the structure of the book and the idea that drove it. However, if I could choose one period in history to return to, it would be London during that time. I can see that some people might consider that an odd choice but think what an extraordinary experience it would be – I’m presuming in this time-travel fantasy that I don’t die, of course. It was a unique moment, not only in British history but also in the nation’s psyche, and the attraction of that remains very strong to this day.
We were in great and constant peril during the war and there was a time when we not only stood alone but were days from defeat, and as a nation we had never had to endure that previously.  […]
The Second World War, on the other hand, was the first conflict in the mechanical age where civilians on both sides were legitimized as targets. The war came to us at home in a brutal fashion (and we took it to Germany in the same ruthless way) and that’s a very different thing from waving off young men in uniform and then giving hardly a second thought to what’s happening to them, as we did in 1914 and as we are doing now.
The Blitz was a short but extraordinarily intense period – although I am sure if you had been bombed for fifty-seven consecutive days, as London was, you wouldn’t have considered it short.

E tuttavia ci sono altri temi che permeano di sé questo libro, così profondamente inglese: soprattutto una specie di nostalgia (che per noi, cent’anni dopo e in un altro paese, è tutta letteraria e cinematografica) per l’Inghilterra della magioni in campagna, tutte cavalli e conigli e volpi e treni sbuffanti e boschetti di querce e servitù brontolona. Anche di questo Kate Atkinson è ben consapevole, e lo scrive nelle Note alla fine del volume:

The Blitz may be the dark beating heart of the novel but it isn’t all about the war, I begin it – again and again – in 1910, the ghost of Forster always at my back. There was something hypnotic and dreamlike in returning endlessly, remorselessly, to what seems to us now (quite wrongly) to have been that prelapsarian period before the First World War – an Arcadian scene viewed through the lens of nostalgia (and Merchant Ivory films), before mechanized slaughter descended on the world.

 * * *

A me – forse perché subisco ben poco del fascino forsteriano – l’aspetto del libro che è interessato di più è quello del romanzo di fantascienza, o ancora di più di fanta-coscienza.

Chi di voi segue questo blog dai suoi albori (insomma, è un mio lettore della prima ora, per così dire), cioè dal marzo del 2007, forse ricorda che uno dei miei primi post è stato dedicato al tema dell’ergodicità. E che sul tema sono tornato molte volte, perché è un tema che mi affascina.

Il tema, per riassumerlo e semplificarlo all’estremo, è grosso modo questo (riprendo liberamente da quel post del marzo 2007):

Quanto i grandi eventi della vita dipendono dai piccoli accadimenti di ogni giorno?
La risposta, come spesso accade, è: dipende. Ma non dipende dal fatto che in ogni esito “storico” c’è un po’ di determinismo e un po’ di casualità, in proporzioni variabili.
Dipende, invece, dal fatto che c’è una classe di processi storici che converge “deterministicamente” verso un determinato esito, e un’altra classe in cui l’esito finale dipende dagli eventi casuali, più o meno piccoli, che caratterizzano la “storia” del processo.
Il primo tipo di processo è inevitabile sotto il profilo storico: è già tutto scritto nelle caratteristiche, nelle preferenze, nelle dotazioni degli attori e la storia événementielle è, per così dire, solo la levatrice di un esito già scritto nelle premesse. Nel secondo tipo, anche il più piccolo evento casuale può essere importante e far pendere la bilancia verso l’uno o l’altro degli esiti possibili; il percorso storico contingente è tutto.
Quelli del primo tipo sono processi ergòdici; quelli del secondo, non-ergòdici.
Esempi.
Il classico lancio della monetina è un processo ergòdico: anche se all’inizio mi venisse testa per dieci volte di fila, alla lunga la probabilità di croce sarebbe di 1/2.
L’esempio più celebre di processo non-ergòdico è quello dell’adozione della tastiera della macchine da scrivere di cui abbiamo parlato anche di recente (La spada e la frusta).

Che cosa c’entra tutto questo con Life after Life? La protagonista del romanzo nasce l’11 febbraio 1910, durante una tormenta di neve: il medico non arriva in tempo e la piccola muore soffocata dal cordone ombelicale. E poi? E poi la protagonista del romanzo nasce l’11 febbraio 1910, durante una tormenta di neve: ma il medico arriva in tempo e la piccola è salva. Eccetera.

L’idea, naturalmente, non è nuova. Tutti ricordano Ricomincio da capo, il film in cui Bill Murray è costretto a rivivere giorno dopo giorno lo stesso 2 febbraio (il giorno della marmotta è l’equivalente della nostra Candelora) a Punxsutawney in Pennsylvania. Anche il filosofo-mistico-teosofo-taroccologo variamente cialtrone Pëtr Dem’janovič Uspenskij aveva scritto in russo nel 1915 il romanzo La strana vita di Ivan Osokin, storia di un giovane cui è offerta la possibilità di rivivere e correggere i suoi errori.

Tutti sappiamo che i viaggi nel tempo non possono cambiare il passato, pena l’introduzione di paradossi e casini indicibili. Quando si fa qualcosa del genere, per cavarsela bisogna ricorrere alla teoria dei multiversi e degli universi paralleli: ma in questo modo si creano delle biforcazioni che si allontaneranno per sempre. Ma Kate Atkinson non sembra preoccuparsi troppo delle regole del genere, ed è un bene. Nel mondo di Life after Life, quello che succede è che, alla fin fine, tutto è possibile, o quasi: nella sezione The End of the Beginning, quasi alla fine del libro, la vicenda si svolge finalmente seguendo un corso lineare, ma del tutto alternativo a quelli raccontati in precedenza. La maggior parte della vita di Ursula Todd, la protagonista del romanzo, come quella di tutti noi (sospetto), è ergodica: nel senso che i piccoli eventi casuali della vita quotidiana non hanno effetto sul corso che prenderà la sua vita. Ma esistono delle specie di nodi, nella vita di Ursula, in cui un piccolo evento è determinante per far prendere alla storia un corso piuttosto che un altro: è così, naturalmente, per gli eventi che accadono l’11 febbraio 1910; ma è così anche per il rischio di annegare al mare, o di cadere dalla finestra, dove si ramifica un’alternativa tra vita è morte assolutamente binaria (la protagonista annega o non annega, cade o non cade, con una probabilità del 50%). Ma ci sono anche nodi più complessi, dove il caso gioca in modo molto meno prevedibile: è evidente che nel 1918 era molto più facile morire di spagnola che non esserne contagiati; e che durante il Blitz era molto più probabile morire sotto un bombardamento che sopravvivere. Kate Atkinson ne tiene conto e la struttura del romanzo si fa più complessa di conseguenza.

Un’altra cosa: Kate Atkinson ne tiene conto, ho appena scritto. E Ursula Todd? è del tutto ignara di quanto sta accadendo, o ne ha sentore? La soluzione che ci propone l’autrice è questa: Ursula non è cosciente di quanto le accade, ma ha una serie di déjà vu (va anche da uno psicologo per farsi curare), di oscuri presentimenti, di impulsi incontrollabili ad agire in un modo piuttosto che in un altro.

In questa maniera, Kate Atkinson ci dà un’altra risposta importante: Ursula non è una rappresentante qualsiasi di una condizione condivisa da tutti gli umani; Ursula ha una dote o una maledizione speciale, il che ne fa immediatamente un’eroina romanzesca a modo suo indimenticabile.

* * *

Tra le recensioni che ho trovato in rete (qualcuna è citata prima), quella che ho trovato più interessante (nonostante un titolo veramente infelice) è quella che ha scritto Sarah Lyall sul Magazine del New York Times il 22 marzo 2013 (Kate Atkinson’s ‘Groundhog Day’ Fiction).

* * *

Siamo finalmente arrivati alle citazioni (facoltative! riferimenti alle posizioni Kindle):

‘Expediency,’ Izzie said to Hugh, ‘generally trumps ethics, I’ve noticed.’ [1519]

Werde, der du bist [1675]

What if she had thrown herself beneath the express train or had died after Belgravia, or, indeed, what if she were simply to open her bedroom window and throw herself out, head first? Would she really be able to come back and start again? Or was it, as everyone told her, and as she must believe, all in her head? And so what if it was – wasn’t everything in her head real too? What if there was no demonstrable reality? What if there was nothing beyond the mind? Philosophers ‘came to grips’ with this problem a long time ago, Dr Kellet had told her, rather wearily, it was one of the very first questions they addressed, so there was really no point in her fretting over it. But surely, by its very nature, everyone wrestled with this dilemma anew every time? [2273]

[…] a faint perfume of old vegetables and damp laundry. Ursula recognized it, it was the smell of poverty. [3146]

‘Oh, no, she found me by the side of the road. She often told me so. I was so naughty that even the gypsies didn’t want me.’ [3897]

[…] sand, after all, was the future of rocks. [4271]

‘No point in thinking,’ she said briskly, ‘you just have to get on with life.’ (She really was turning into Miss Woolf.) ‘We only have one after all, we should try and do our best. We can never get it right, but we must try.’ (The transformation was complete.)
‘What if we had a chance to do it again and again,’ Teddy said, ‘until we finally did get it right? Wouldn’t that be wonderful?’
‘I think it would be exhausting. I would quote Nietzsche to you but you would probably thump me.’

People talk about charisma as if it were a good thing, but really it’s a kind of glamour – in the old sense of the word, casting a spell, you know? [6074]

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