Non ci sono stelle verdi

Io sono molto miope e vivo in una città che produce un sacco di inquinamento luminoso, e dunque mi è molto difficile parlare del colore della stelle. Ma so che le stelle sono colorate.

Betelgeuse

Betelgeuse / wikipedia.org

Rigel

Rigel / wikipedia.org

Capella

Capella / wikipedia.org

Vega

Vega / wikipedia.org

Antares

Antares 7 wikipedia.org

Apprendo però da un articolo su Discover che non ci sono stelle verdi, e perché:

Why are there no green stars? | Bad Astronomy | Discover Magazine

Prendete un lanciafiamme e scaldate una barra di ferro (è un esperimento mentale, non fatelo realmente!): dopo un po’ diventerà rossa, poi arancione, poi bianco-bluastra. Poi fonderà.

Perché? Perché ogni oggetto al di sopra dello zero assoluto (circa –273 °C ) emette “luce”. Quanta luce, e con quale lunghezza d’onda, dipende dalla temperatura: più l’oggetto è caldo, più breve è la lunghezza d’onda della “luce” che emette. Gli oggetti più freddi emettono onde radio, quelli più caldi luce ultravioletta o raggi X. Soltanto entro un range molto piccolo di temperature gli oggetti caldi emettono luce visibile all’occhio umano (grosso modo le lunghezze d’onda tra i 300 e i 700 nanometri).

Ma gli oggetti non emettono luce di una sola lunghezza d’onda, ma emettono fotoni in una gamma di lunghezze d’onda, che formano una “firma” caratteristica: lo spettro del corpo nero. Più o meno così. In ascissa avete le lunghezze d’onda della luce emessa, in ordinata la loro intensità. La curva è a campana, ma asimmetrica. All’aumentare della temperatura di un oggetto, la curva si trasla verso sinistra, verso lunghezze d’onda più corte.

Blackbody curves

discovermagazine.com

Un oggetto a 4.200 °C ha il picco del suo spettro in corrispondenza dell’arancione. Scaldiamolo a 5.700 °C, la temperatura del Sole, e il picco si sposta tra verde e blu. Scaldiamolo ancora e ci muoviamo al blu, al violetto, e infine all’ultravioletto: le stelle più calde non emettono luce a noi visibile.

Un momento: ho detto che il Sole ha un picco tra verde e blu. E allora perché non lo vediamo verde-blu?

Ma allora non eravate attenti! Abbiamo detto che non emette una sola lunghezza d’onda, ma una gamma di lunghezze d’onda che, come vedete nel grafico, abbraccia tutta la luce visibile. Come abbiamo imparato a scuola dall’esperimento del prisma, quando mescoliamo i colori dell’iride il risultato è il bianco. Sì, il bianco: la luce solare è bianca, non gialla come disegnano il sole i bambini, e infatti le nubi e la neve (e le pagine bianche) le vediamo bianche.

OK, tutto chiaro, adesso. Ma, mi direte, sicuramente posso girare le manopole della temperatura in modo da produrre una gamma di lunghezze d’onda che mi produca una stella rossa come Betelgeuse, blu come Rigel, gialla come Capella, zaffiro come Vega, arancio come Antares, verde come …

No, verde no. Ma non è colpa delle stelle, è (prevalentemente) colpa del nostro sistema nervoso.

I nostri occhi hanno due tipi di recettori, i coni e i bastoncelli. I bastoncelli sono fondamentalmente sensibili all’intensità della luce, non alla sua lunghezza d’onda, e quindi qui non ci interessano. Ci sono 3 varietà di coni, ognuno particolarmente sensibile a una lunghezza d’onda (cioè a un colore): al rosso, al verde, al blu.

Una fragola, ad esempio, eccita dannatamente i “coni del rosso” e lascia indifferenti quelli del verde e del blu. Ma, come abbiamo detto, la maggior parte degli oggetti non emette o riflette una sola lunghezza d’onda (un solo colore.) Un’arancia eccita i coni del rosso circa il doppio di quanto non ecciti i coni del verde, e lascia in quiete i coni del blu. Quando il cervello riceve questo tipo di messaggio dai tre tipi di coni lo interpreta come “arancio”. Se gli arriva eccitazione dai coni del rosso e del verde in misura grosso modo eguale, lo interpreta come “giallo”, e così via.

Dai color primari all'intera gamma

wikipedia.org

Adesso tornate a guardare il primo grafico e osservate come si modifica la curva, spostandosi verso sinistra e diventando più appuntita quando la stella si riscalda, spostandosi verso destra e appiattendosi quando la stella si raffredda. Per avere una stella verde sarebbe necessaria una stella di media temperatura ma con uno spettro appuntito e centrato sul verde. Ma questo non è possibile. Niente stelle verdi.

L’Irlanda senza nubi

Anche se non ci siete stati, vi renderete subito conto che è un’immagine rarissima. Sarebbe difficile anche per l’Italia, ma neppure una nuvola sul cielo d’Irlanda è il modo migliore per festeggiare San Patrizio, anche se con un giorno di ritardo.

Eire

dailydish.typepad.com

LA foto è della NASA e io l’ho trovata qui.

La colonna sonora, ovviamente, è questa:

Sulle spalle dei giganti

Come molti (immagino) attribuivo la frase “sulle spalle dei giganti” (“on the shoulders of giants”) a Isaac Newton che, in una lettera a Robert Hooke del 5 febbraio 1676 (per l’esattezza, Newton ha scritto “If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants” e c’è il fondato sospetto che stesse prendendo Hooke per i fondelli a proposito della loro diatriba sull’ottica e la teoria dei colori, tant’è vero che i due non si parlarono né corrisposero mai più).

Sono stato scalzato dalla mia convinzione, alcuni anni fa, da un mio coltissimo collega (vorrei ringraziarlo pubblicamente, ma poiché è un giurista e un esperto di privacy mi limiterò a darne le iniziali: grazie, R. T.) che mi ha fatto presente che la metafora è medievale, se non più antica.

L’immagine è derivata dalla mitologia greco-romana: il gigante Orione (così detto perché nato dall’orina di Giove, Nettuno e Mercurio) durante un periodo della sua vita era stato accecato ma Efesto, impietositosi, lo affidò alla guida Cedalione, che gli si sedette sulle spalle e lo guidò a est, dove Eos, dea dell’aurora, gli ridonò la vista.

Orione

wikipedia.org

Il primo a utilizzare la metafora sarebbe stato Bernardo di Chartres. Scrive Giovanni da Salisbury nel suo Metalogicon del 1159:

Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos, gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvenimur et extollimur magnitudine gigantea.

Diceva Bernardo di Chartres che siamo come nani assisi sulle spalle dei giganti, cosicché possiamo vedere più cose e più lontano di loro, non perché abbiamo una vista più acuta o altra particolarità fisiologica, ma poiché siamo sollevati più in alto dalla loro mole gigantesca.

Nel transetto meridionale della Cattedrale di Chartres (ho cercato la foto ma non l’ho trovata), proprio sotto il rosone, quattro vetrate lunghe e strette rappresentano visivamente il concetto: i 4 evangelisti (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) sono seduti sulle spalle di 4 giganteschi profeti dell’Antico testamento (Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele) ma, per quanto più piccoli, hanno potuto vedere meglio e riconoscere il Messia grazie alle parole e profezie dei loro giganteschi predecessori.

La porta occidentale della Cattedrale di Chartres

bluffton.edu

In realtà, è altrettanto probabile che Bernardo di Chartres facesse riferimento alla sintesi tra rivelazione delle scritture e pensiero greco (che proprio in quel XII secolo veniva riscoperto, tradotto dalle fonti arabe e studiato): sulla porta occidentale della Cattedrale sono rappresentate le 7 arti liberali, all’interno di un vertiginoso gioco di rimandi a suo tempo esplorato da Titus Burckhardt [“The Seven Liberal Arts and the West Door of Chartres Cathedral“, Studies in Comparative Religion, Vol. 3, No. 3 (Summer, 1969)]

Le 7 arti liberali

Sia come sia, la metafora doveva essere una specie di luogo comune nel Medioevo, se la usa anche Isaia di Trani, un commentatore del Talmud vissuto tra il 1180 e il 1250:

Non ho mai dichiarato arrogantemente “La mia saggezza mi ha servito. Ho invece applicato a me stesso la parabola che ho sentito narrare dei filosofi. Il più saggio dei filosofi chiese: “Ammettiamo che i nostri predecessori erano più saggi di noi. E tuttavia critichiamo i loro commenti, rigettandoli e sostenendo che abbiamo ragione noi. Come è possibile?” Il saggio filosofo rispose: “Chi vede più lontano, un nano o un gigante? Di certo un gigante, perché i suoi occhi sono a un livello più alto di quelli del nano. Ma se il nano è seduto sulle spalle del gigante, che vede più lontano? … Anche noi siamo nani a cavalcioni sulle spalle di giganti. Possediamo tutta la loro saggezza e poi proseguiamo oltre. Diventiamo saggi e siamo in grado di affermare quanto affermiamo grazie alla loro saggezza, non perché siamo più grandi di loro.

Nonostante la popolarità medievale, il detto scompare per qualche centinaio d’anni. Riaffiora nel XVII secolo: Robert Burton, nella sua Anatomia della melancolia del 1621, l’attribuisce al mistico spagnolo Diego de Estella o Didacus Stella (“I say with Didacus Stella, a dwarf standing on the shoulders of a giant may see farther than a giant himself”) e i commentatori più tardi confondono il riferimento di Diego al Vangelo di Luca con un commento alla Pharsalia di Lucano (ma nessuno dei due testi è pertinente).

Il poeta gallese George Herbert, più o meno nello stesso periodo, introduce nella sua raccolta di proverbi Jacula Prudentium del 1651 il detto: “A dwarf on a giant’s shoulders sees farther of the two.”

Dopo la citazione newtoniana, che abbiamo già ricordato, la metafora diventa luogo comune.

  • La riprende Samuel Taylor Coleridge, in The Friend (1828): “The dwarf sees farther than the giant, when he has the giant’s shoulder to mount on.”
  • La contesta (e che altro v’aspettavate) Friedrich Nietzsche, opinando che un nano (cioè un accademico) non può che portare al suo livello di comprensione persino i più elevati pensieri. Nel capitolo di Così parlò Zarathustra intitolato “Della visione e dell’enigma”, Zarathustra scala una montagna con un nano sulle spalle (“Verso l’alto: – sebbene mi stesse addosso, quello spirito, metà nano, metà talpa; storpio, storpiante; facendo gocciolare piombo nelle mie orecchie, e pensieri pesanti come piombo nel mio cervello”). Giunti in vetta, il nano con capisce nulla e Zarathustra si imbufalisce: “O spirito della gravità – dissi con ira. – Non prender con leggerezza la cosa! Se no ti abbandono sul tuo sasso, o sciancato – e pure ti portai ben in alto!” D’altra parte, una decina d’anni prima, ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci (1873) Nietzsche aveva affermato che se nella storia della filosofia c’era qualche cosa che assomigliasse al progresso, non poteva che venire dai rari giganti, ognuno dei quali chiamava il suo fratello attraverso i desolati intervalli del tempo.
  • La usa Umberto Eco ne Il nome della rosa, per la risposta di Guglielmo da Baskerville alla lamentela di Nicola da Morimondo, il vetraio, sulla perdita della sapienza degli antichi e la fine dell’era dei giganti,
  • La parafrasa il Dr. Ian Malcom in Jurassic Park: “I’ll tell you the problem with the scientific power you’re using here: it didn’t require any discipline to attain it. You read what others had done, and you took the next step. You didn’t earn the knowledge for yourselves, so you don’t take any responsibility for it. You stood on the shoulders of geniuses to accomplish something as fast as you could, and before you even knew what you had, you, you’ve patented it, and packaged it, you’ve slapped it on a plastic lunchbox, and now [pounds table with fists] you’re selling it. [pounds table again] You want to sell it, well… […] your scientists were so preoccupied with whether they could that they didn’t stop to think if they should.”
  • È inscritta (STANDING ON THE SHOULDERS OF GIANTS) sul bordo della moneta bimetallica da 2 sterline del 1997, come implicito omaggio a Newton che fu, negli ultimi anni della sua vita, Warden e Master della Royal Mint).
    2 pounds
  • È il titolo di un libro curato da Stephen Hawking: On The Shoulders of Giants. The Great Works of Physics and Astronomy.
  • I R.E.M. usano la frase “Standing on the shoulders of giants leaves me cold” (circa 0:30 nel video) nella canzone King of Birds:

Tutta questa fatica (che mi è costata quasi un’intera domenica di lavoro, in cui però ho imparato molte cose) per dirvi che ho scoperto un blog/rivista online/fiera delle delizie dedicato alla storia della scienza che si chiama The Giant’s Shoulders. Qui di seguito il link al numero più recente, il 45. Buon divertimento.

Le lezioni sulla musica di Leonard Bernstein

Nel 1972, il compositore e direttore d’orchesta Leonard Bernstein tornò alla sua alma mater, l’Università di Harvard come Charles Eliot Norton Professor di Poesia, nell’accezione più vasta del termine.

Leonard Bernstein

wikipedia.org

Le lezioni di Bernstein furono tenute nell’autunno del 1973, portano complessivamente il titolo “La domanda senza risposta” (“The Unanswered Question”) e durano oltre 11 ore.

Per nostra fortuna sono tutte su YouTube e le potete guardare e ascoltare con vostro comodo (ma non siate pigri!).

Potete anche acquistarle, in libro o in DVD.

Leonard Bernstein’s Masterful Lectures on Music (11+ Hours of Video Recorded in 1973) | Open Culture

12-18 marzo: la settimana del cervello

È in corso (12-18 marzo 2012) la Brain Awareness Week. Seguende l’esempio di Cell, la festeggiamo con 10 stupefacenti immagini a colori di tessuti cerebrali.

Ippocampo

cell.com / Tamily Weissman, Harvard University

Retinal Fireworks

cell.com / Josh R. Sanes, Harvard University

L’intero slide show lo trovate qui.

Un modello digitale dell’antica Roma

Rome Reborn è un’iniziativa internazionale volta a creare un modello tridimensionale dell’antica Roma. L’idea è quella di ricostruire lo sviluppo e la decadenza della città dalla fondazione alla caduta dell’Impero romano d’occidente, ma il progetto ha scelto di partire da una data convenzionale, per poi procedere a ricostruire i cambiamenti all’indietro e in avanti, in una sorta di macchina del tempo virtuale. La scelta è caduta sul 320 (anzi, per l’esattezza, sul 21 giugno 320): all’epoca la città aveva raggiunto il massimo della sua dimensione demografica (oltre 1 milione di persone) e della sua estensione territoriale. Dopo quella data furono costruiti ben pochi edifici pubblici, ma all’epoca era già stato realizzato tutto ciò che sopravvive ancora oggi, riducendo al minimo possibile la componente speculativa delle ricostruzioni.

Il progetto è stato avviato nel 1997 e vede la collaborazione dell’Università della Virginia (Virtual World Heritage Laboratory), dell’Università della California-Los Angeles (Experiential Technology Center), del Politecnico di Milano (Laboratorio di Virtual Prototyping e Reverse Modeling del Dipartimento di industrial design, delle arti, della comunicazione e della moda-INDACO), dell’Institut Ausonius (CNRS e Università di Bordeaux-3), e dell’Università di Caen.

Scopo del modello è di rappresentare le informazioni e le teorie disponibili sull’aspetto della città antica, con un’infrastruttura digitale che permetta aggiornamenti, incrementi e correzioni. Le conoscenze disponibili consentono da un lato di rappresentare la topografia e le infrastrutture (strade, ponti, acquedotti, mura, …), dall’altro di dare conto contestualmente della metainformazione sulle fonti archeologiche, documentali e teorico-speculative. In questo modo, il modello è anche una rappresentazione dello stato delle conoscenze sulla topografia della città in vari periodi. Il modello si presta anche allo studio di aspetti altrimenti difficili da approfondire, quali l’allineamento dei diversi edifici, l’esposizione, la ventilazione, l’illuminazione, la circolazione di persone e merci.

Le fonti del modello digitale possono essere ricondotte a due grandi classi:

  1. i dati “archeologici” su edifici specifici, per i quali le fonti sono gli scavi e la relativa documentazione, ma anche monete, iscrizioni, fonti letterarie antiche, immagini dal Rinascimento al secolo scorso, …
  2. dati quantitativi sulla distribuzione di particolari tipologie di edifici nelle 14 regioni in cui era suddivisa la città, per i quali le fonti principali sono due “regionari” del IV secolo (Curiosum e Notitia).

Di conseguenza, il modello digitale comporterà 2 tipi di materiali:

  1. ricostruzione di circa 200 singoli edifici per i quali si dispone di evidenze archeologiche attendibili (i Fori, l’Anfiteatro Flavio, i templi, …);
  2. rappresentazione di edifici e altri “oggetti” (stimati in 7-10.000) di cui sono note soltanto la tipologia e la frequenza nelle diverse zone.

Finora sono stati modellati circa 40 edifici e monumenti della prima classe, inclusi i 22 della parte occidentale del Foro romano: ad esempio, il Tabularium, il Foro di Cesare, le Basiliche di Massenzio e Costantino, il Tempio di Venere e Roma, gli archi di Tito e Costantino, il Colosseo e il Circo Massimo, ricostruiti con l’ausilio di un comitato di esperti. I restanti edifici e monumenti della prima classe sono per il momento rappresentati da “segnaposti” ricostruiti nello stesso modo schematico adottato per quelli della seconda classe.

Il procedimento adottato per la modellazione digitale degli elementi della seconda classe ha comportato le seguenti fasi:

  1. la digitalizzazione del Grande plastico di Roma imperiale a scala 1:250 realizzato tra il 1933 e il 1974 per impulso e sotto la direzione di Italo Gismondi e conservato al Museo della civiltà romana dell’Eur (questa fase è quella realizzata, in particolare, da Politecnico di Milano);
  2. la sostituzione dei dati “scanditi” dal Grande plastico di Roma imperiale con forme geometriche semplificate (porte, finestre, colonne, tegole, …);
  3. il disegno particolareggiato dei dettagli architettonici (porte, finestre, balconi) sulle superfici delle forme geometriche semplificate;
  4. le correzioni degli errori noti del Grande plastico di Roma imperiale (ad esempio, l’altezza dei colli fu incrementato di proposito del 20% per facilitare la visione).

Ho trovato il video e l’accesso alle altre informazioni a partire da questo sito:

Rome Reborn – An Amazing Digital Model of Ancient Rome | Open Culture

Grande plastico di Roma imperiale

museociviltaromana.it

Carisma: Mara Carfagna

Seduce se tace, seduce se dice.

Grazie Makkox:

Idrogeno | Makkox

Mara Carfagna

ilpost.it / makkox

La fine del contante

Tra le misure del Governo Monti c’è il divieto di usare denaro contante per le transazioni economiche al di sopra di una certa soglia, più bassa che in passato. La cosa ha fatto e fa discutere: da una parte, la destra più radicale sostiene che in questo modo si riduce la libertà economica, anzi la libertà tout court e ci si consegna a uno Stato di polizia (mi sembra che l’abbia detto lo stesso Berlusconi, tra i cui primi atti da presidente del consiglio dei ministri, nel 2006, ci fu quello di alzare la soglia al di sopra della quale non si potevano utilizzare i contanti); dall’altra, ci sono i timori che per questa via si aumentino i poteri e i profitti delle banche.

Negli Stati Uniti David Wolman, un giornalista di Wired, ha vissuto per un anno intero senza utilizzare contanti e ne ha tratto un libro uscito da poco: The End of Money: Counterfeiters, Preachers, Techies, Dreamers – and the Coming Cashless Society. Non l’ho ancora letto (benché l’abbia comprato proprio ora), ma la sinossi di Amazon è sufficiente a incuriosire:

For ages, money has meant little metal disks and rectangular slips of paper. Yet the usefulness of physical money—to say nothing of its value—is coming under fire as never before. Intrigued by the distinct possibility that cash will soon disappear, author and Wired contributing editor David Wolman sets out to investigate the future of money … and how it will affect your wallet.
Wolman begins his journey by deciding to shun cash for an entire year—a surprisingly successful experiment (with a couple of notable exceptions). He then ventures forth to find people and technologies that illuminate the road ahead. In Honolulu, he drinks Mai Tais with Bernard von NotHaus, a convicted counterfeiter and alternative-currency evangelist whom government prosecutors have labeled a domestic terrorist. In Tokyo, he sneaks a peek at the latest anti-counterfeiting wizardry, while puzzling over the fact that banknote forgers depend on society’s addiction to cash. In a downtrodden Oregon town, he mingles with obsessive coin collectors—the people who are supposed to love cash the most, yet don’t. And in rural Georgia, he examines why some people feel the end of cash is Armageddon’s warm-up act. After stops at the Digital Money Forum in London and Iceland’s central bank, Wolman flies to Delhi, where he sees first-hand how cash penalizes the poor more than anyone—and how mobile technologies promise to change that.
Told with verve and wit, The End of Money explores an aspect of our daily lives so fundamental that we rarely stop to think about it. You’ll never look at a dollar bill the same again.

The End of Money

amazon.com

Ieri (12 marzo 2012) Davit Sirota, un giornalista di Salon, gli ha fatto una lunga intervista, che trovate per intero al link sottostante. Più sotto, un’anticipazione della parte in  cui affronta le preoccupazioni che hanno accompagnato anche il dibattito italiano sulle scelte del Governo Monti.

Should we fear a cashless society? – U.S. Economy – Salon.com

Should we fear a cashless society?

salon.com / Credit: Repina Valeriya via Shutterstock

One of the arguments against getting rid of cash is that once we become a fully cashless society then basically we have put big corporations even more in the center of our lives. Cash is the one way within our financial architecture to avoid both having our financial transactions skimmed off the top of by credit card companies, and it’s also a way to avoid basic scrutinies of our transactions. How powerful is that argument and will corporate power in a cashless society inevitably be abused?

That’s the central question, and it’s something I address a lot in the book. Some of this has to do with the distinction between what is anonymity and what is privacy. Even though everyone loves cash for the anonymity of it, it’s not really something that goes along with our lives in a modern democracy. There’s nothing that guarantees your anonymity in the Bill of Rights.

So this is the tension between civil liberties and privacy. It’s why we have cameras on subway platforms in case there’s ever a violent crime committed, and I really don’t think there’s a way to dismiss privacy concerns, but most of us think it’s probably okay for law enforcement to have some kind of break-the-glass access to information about who was on that train platform when a crime was committed. It’s the same way we deal with airport securities and on and on it goes.

I’m sensitive to those concerns, but we’ve kind of relinquished so much of our financial lives to the banks and credit card companies already. I don’t say that to say we might as well go the final 2 percent here, I think it’s the other way, that when you talk about cashlesness and finally going 100 percent cashless, you see it kind of brings these fears to the surface in a way that people don’t really think about even though they’re never really using cash.

Though the difference between the train platform metaphor and cashless economy is that you’re making transaction, the train platform is a public piece of property, it is in a place that we acknowledge as public. But lots of people say they don’t want their transactions to be public. Do we have a right to that expectation of privacy?

They say they don’t want transactions to be public, but then when your credit card company calls you to say, “Hey were you in Hong Kong yesterday and did you buy this $12,000 diamond necklace,” and you say, “No, I didn’t.” That intervention is because they were monitoring transactions.

Of course, when we talk about monitoring transactions that’s scary and sort of Big Brothery talk. I’m not excited about that either. But do we want the authorities for example to know that somebody in the mountainous region of Pakistan is suddenly wiring a lot of money to Sacramento? I think that really does matter.

But the bigger question to cashlessness really is the idea that it’s either cash or the credit card companies. I actually think that when we go cashless, people would wake up to this great flowering of payment options that are out there and we’ll be more demanding of the banks and mobile services to lower their fees and provide us with the service we can be confident with. That’s why PayPal was so successful, because they finally convinced people: you can do this securely. It’s not perfect but it’s safe enough that people are game to go along with it or it wouldn’t be the gazillion dollar company that it is today.

So people are seeing options coming. Some are still worried that doing away with cash means enriching the fat cats at Mastercard and Visa, but that’s really a false dichotomy.

Can we ever really get rid of cash in this sense? We call the bills in our wallet cash, but if we immediately eliminated all of that there would still be an economy that existed on other currency — or maybe even bartering.

Cash in this book is rectangular slips of paper and coinage. What you’re talking about is money, and money is an idea.

Il Viagra dell’Himalaya mette a repentaglio l’economia nepalese

Il funghetto che vedete qui sotto, che cresce negli altipiani del Tibet e del Nepal, avrebbe molte proprietà medicinali, ma sarebbe soprattutto un potente afrodisiaco. Quanto basta per provocare una sorta di “corsa all’oro” e mettere in crisi gli equilibri economici e sociali di quelle regioni.

Yarsagumba, il Viagra dell'Himalaya

Salon.com / Credit: Thomas Kelly

La storia la raccontano su Salon Jamie James e il Center for Investigative Reporting:

The boom in “Himalayan Viagra” – Drugs – Salon.com

Fortunes are being made – and lives are being ruined – not over gleaming metal nuggets, but in the reckless pursuit of yarsagumba. A rare hybrid of caterpillar and mushroom that grows only in the high alpine meadows of Tibet, Nepal and India, it has been prescribed by traditional healers in Asia for centuries to treat lung and kidney diseases, build up bone marrow and stop hemorrhaging. But it is prized above all for its reputation as a powerful aphrodisiac, earning it the nickname “Himalayan Viagra.”

Yarsagumba – also known by its scientific name, Cordyceps sinesis – was unknown in the Western world until 1994, when two female Chinese athletes at the Asian Games in Hiroshima, Japan, set new world records for mid- and long-distance running.

The astonishing times they posted gave rise to suspicions that they were using illegal performance enhancers such as anabolic steroids, but post-race drug tests revealed no trace of illegal substances. The runners’ controversial coach, Ma Junren, told foreign reporters that the women got their championship edge from daily doses of Cordyceps.

Thus began the yarsagumba boom. It is difficult to find an accurate estimate of the total production of yarsagumba, owing to the high degree of cross-border smuggling to avoid paying taxes and bribes. But according to Daniel Winkler, a botanist specializing in the fungus, it quickly has become the most expensive herbal remedy in traditional Chinese medicine.

Winkler estimates the annual yarsagumba harvest at between 85 and 185 tons, and in some areas, the crop represents the most significant source of income for residents, even greater than mining and industrial production. One official in Tibet’s Dengqen County estimated that 37,000 of the area’s 60,000 inhabitants had participated in fungus collection, Winkler reported in a recent scholarly journal.

“Among the wealthy and powerful in China,” Winkler wrote, “Cordyceps has come to rival French champagne as a status symbol at dinner parties or as a prestigious gift.”

The explosive growth in the yarsagumba market beggars the most extravagant superlatives: In 1992, a pound of the stuff sold for $3; today, the same quantity retails for around $9,400.

Nathan Lee, an apothecary in Hong Kong, said he has customers who spend thousands of dollars a month for daily doses of yarsagumba. “They give their children three to seven pieces a day, to promote good health and help them study,” he said. “They mix it with their breakfast cereal.”

The lucrative trade in the mushroom has transformed the economy of the Himalaya region. An ancient, yak-based culture that survived for centuries in one of the most extreme environments on earth is now unraveling in a tragic collision with the global marketplace.

Tibet is the main source of Cordyceps, but the trade may be having its most profound impact on Nepal, where extreme poverty and decades of political instability have led to deepening social entropy.

Jonathan Ive, il designer della Apple

Il Financial Times del 9 marzo 2012 ha dedicato un articolo di April Dembosky a Jonathan Ive, vice-presidente della Apple e responsabile del suo (fantastico) design industriale.

Apple’s invisible aesthete emerging from Jobs’ shadow – FT.com

The value of an iPhone or an iPad is not the object itself, despite the price tag. The value is the information held within it: the photos, the friend updates, the news articles, all accessible with the swipe of a finger. The object itself is designed with that in mind: sleek, smooth, and above all simple, so that what’s inside defines the experience.

The device’s architect is much like that himself: introverted and, to the vast majority of people who carry one of his creations, all but invisible. But inside Apple’s tightly guarded design studios, Jonathan Ive is complex and powerful, much like the inner workings of an iPhone.

Jonathan Ive

ft.com / Cummings

Ive è anche uno dei protagonisti di Objectified, un documentario di Gary Hustwit, presentato nel marzo del 2009 al festival del cinema di South by Southwest (SxSW per gli amici).

Qui potete vedere la parte dedicata ad Ive: