La pesca miracolosa: statistica e telerilevamento

Le statistiche della pesca sono considerate non molto affidabili, soprattutto perché gli operatori forniscono alla FAO (l’organizzazione delle Nazioni Unite responsabile delle statistiche in ambito agricolo e alimentare) sottostime sul numero di organismi pescati.

Un trio di ricercatori ha pubblicato l’8 febbraio 2012 su PLoS ONE un articolo (Fish Farms at Sea: The Ground Truth from Google Earth) che illustra un approccio originale al problema di produrre stime statistiche più accurate. I tre – tra cui una ricercatrice italiana, Chiara Piroddi – hanno utilizzato Google Earth per contare e analizzare gli allevamenti in 16 Paesi delle coste mediterranee nel 2006 e per stimare in tal modo la produzione realizzata in quell’anno.

Fish Farm in Greece

doi:info:doi/10.1371/journal.pone.0030546.g001

I 3 ricercatori hanno censito oltre 20.000 “gabbie” lungo le coste e hanno proceduto a stime della produzione e della cattura (escludendo gli allevamenti di tonni e di molluschi). Mentre la produzione complessiva così stimata è risultata vicina a quella pubblicata dalla FAO (rispettivamente 226.000 e 200.000 tonnellate), per alcuni Paesi la nuova stima è molto superiore a quella di fonte FAO: ad esempio, del 30% più elevata in Grecia (che è il leader europeo per la produzione di pesce d’allevamento, con 104.000 tonnellate stimate per il 2006) e del 18% in Turchia (che è il secondo produttore). Per l’Italia i ricercatori hanno invece registrato una sovrastima del dato FAO rispetto a quello da loro calcolato sulla base degli allevamenti presenti, forse per la tendenza degli operatori italiani a spacciare per produzione nazionale le importazioni dalla Grecia.

Stima del pescato

doi:info:doi/10.1371/journal.pone.0030546.t001

I 3 ricercatori hanno svolto il loro studio nell’Università della British Columbia a Vancouver, ma nel frattempo Chiara Piroddi, nata ad Alessandria nel 1977, è tornata in Italia e lavora attualmente al Joint Research Centre della Commissione Europea a Ispra. E il “ritorno” di un cervello italiano non può che farci piacere.

La pallina spacca-vetri

Come molti della mia generazione, ho vissuto un’infanzia deprivata (anche depravata, secondo le teorie di Freud: ma questa è tutta un’altra storia). Avevamo molto meno cargo dei bambini di adesso, come direbbe Yali, l’aborigeno della Nuova Guinea che compare nel Prologo di Guns, Germs, and Steel di Jared Diamond:

“Why is that that you white people developed so much cargo and brought it to New Guinea, but we black people had little cargo of our own?”

Era in parte una questione di economia – checché si possa pensare nell’attuale situazione, negli anni Cinquanta la ricchezza nazionale e il reddito pro capite erano molto più bassi di quelli di oggi: basta guardare le belle statistiche storiche pubblicate dall’Istat per i 150 anni dell’unità d’Italia per rendersene conto – e in parte una questione di tecnologia – molte delle cose che oggi diamo per scontato, a partire dall’onnipresente web, non esistevano ancora. Ma ormai sappiamo bene che economia e tecnologia sono strettamente legate tra loro, e che questo legame è una parte importante della risposta che possiamo dare a Yali: a una domanda simile fattagli da un capo Masai, Eric Beinhocker (del cui libro The Origin of Wealth abbiamo parlato qui) risponde introducendo il concetto e l’unità di misura dello SKU (stock-keeping unit, “articolo gestito a magazzino”).

Ma, al solito, sto divagando. Vorrei parlare di un cargo particolare che è mancato alla mia infanzia: penso che il suo nome ufficiale sia pallina rimbalzina, o almeno è con questo nome con cui l’ho trovata qui sul web e il lungo numero che potete vedere nella URL del link è il suo codice EAN (4002129106324) che ne identifica univocamente lo SKU.

Pallina rimbalzina marmorizzata

lapalla.it

A un certo punto sono comparse nella mia vita: non ricordo quando mi è capitato di vederne una e di giocarci, ma ricordo benissimo il fascino che esercitava su di me, semplicissima ma straordinariamente interessante. Per fortuna ho una sorella piccola (nata nel 1967) e due figli (1983 e 1985), circostanze che mi hanno consentito di giocare con la pallina rimbalzina (che nel mio lessico familiare si chiama pallina spacca-vetri) senza offrire su un piatto d’argento un indizio in più per chi ritene che la mia età mentale sia ferma a 8 anni.

Soltanto oggi, però, ho imparato perché la mia infanzia è stata deprivata della pallina spacca-vetri: per il semplice motivo che il polimero di cui è fatta non era stato inventato. La storia l’ho trovata qui:

The bouncy science of toy superballs

[T]he ball was invented surprisingly late in our history. It wasn’t until 1965 that materials science could come up with a cheap way to get maximum bounce. As many parents suspect, the missing ingredient was something infernal: sulfur. Scientist Norman Stingley was playing around with polybutadiene, a substance made up of long strings of carbon atoms. The strings tangled together, letting polybutadiene retain its shape without shattering, but the whole concoction needed something more. Stingley added a little heat and sulfur, and something diabolical happened.

Vulcanization, heating substances with sulphur, had been used before to make tires and raincoats. In the polybutadiene the process did what it always does, used the sulphur atoms to connect one string to the next at random points. Instead of a long string of tangled chains, which could be untangled, or at least pulled apart, the the substance became one big network of long strings tied together. It could be deformed, with force, but it would always snap back to where it started. What emerged was a hunk of material that was incredibly elastic. Happy with his discovery, Stingley named it Zectron, formed it into little lumps, marketed it with the Wham-O Manufacturing Company, and encouraged children around the world to hurl it around with reckless abandon.

Il segreto della pallina spacca-vetri è il suo coefficiente di restituzione. Per noi comuni mortali il coefficiente di restituzione è una misura di rimbalzevolezza: se lasciando cadere una pallina da un metro (senza imprimere un impulso verso il basso, e trascurando quisquilie come l’attrito eccetera) e la pallina rimbalza fino a raggiungere un’altezza massima di 50 cm, allora il coefficiente di restituzione è di 0,5 (50/100). Nerd, geek, fisici, mau puntati e re barbarici possono andare a vedere qui o qui. Il coefficiente di restituzione della pallina spacca-vetri è 0,9. Abbastanza per infinite possibilità di divertimento per noi bambini di 8 anni.

Stamattina, mentre discutevo della scoperta che avevo appena fatto con mio figlio, mi ha ricordato che nella primavera del 1998 avevamo visto insieme Flubber – Un professore tra le nuvole, un filmetto abbastanza idiota ma con un divertente Robin Williams e una sostanza molto simile allo Zectron.

Flubber è a sua volta il remake di Un professore tra le nuvole (The Absent Minded Professor) del 1961, un film della Disney che ricordo di aver visto da bambino al cinema. Su YouTube c’è la versione originale integrale:

Ma a questo punto mi è venuto in mente un altro film, visto da bambino in televisione, di cui ricordavo vagamente la trama: un professore scopre una sostanza che respinge le palle da baseball dal legno. Grazie al web, l’ho subito trovato (fatico anche ora a trattenere il mio entusiasmo quasi sensuale per la scoperta!): si chiama Quando torna primavera (It Happens Every Spring), è del 1949 ed è stato candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura. ecco la trama da wikipedia:

Vernon Simpson è un timido professore di chimica che non osa chiedere la mano della figlia del rettore perché perennemente al verde. Un giorno però, grazie a un maldestro tiro di baseball, scopre una sostanza che respinge il legno, diventerà un campione di baseball, ma saprà ritirarsi per sposare la ragazza che ama.

Anche in questo caso, YouTube permette di vedere l’originale. Ve lo consiglio (ma ricordatevi il fair use).

La canzone più rilassante di sempre?

Gironzolando sulla rete, e grazie a servizi come Zite, trovo cose interessanti o curiose e, se mi punge vaghezza, le condivido sul mio blog.

Ieri ho trovato questa notizia, che mi sembrava sufficientemente originale, anche perché l’ho trovata su un sito abbastanza esoterico, Panic about Anxiety, curato da Summer Beretsky, che si presenta così:

In twelfth grade, I wrote an essay called “Thinking Too Deeply About Over-Analyzation”. The topic was pretty self-explanatory: I picked apart (or, rather, overanalyzed) the very manner in which I overanalyze.

I got an A on the essay. I also got a comment from Mr. Jones, my Writing Workshop teacher, inked in red pen on the cover page: “Summer, you’re going to get an ulcer one day.”

Hi Mr. Jones! I’ve decided to bypass the ulcer and exceed your expectations — like the overacheiver that I am — & go straight for an anxiety disorder.

I had my first panic attack in college and, roughly estimating, I’ve added over 400 more to my resume to date. After the first one, my family physician wrote me a script for Xanax — which worked well until I developed a tolerance for it. Then, he gave me a script for Paxil. For two years, the Paxil stopped my panic attacks, but they flat-lined my emotions, my creativity, and my liveliness. The best parts of my life — interacting with friends, writing, and studying communication — became bland. I tried and failed to withdraw from Paxil twice.

The third time was, indeed, the charm. Over a (long!) period of seven months, I withdrew from Paxil as I began grad school. My withdrawal story was published in the LA Times and recorded for an upcoming-yet-still-unnamed-documentary. I’ve been contributing to the World of Psychology blog here on PsychCentral since 2008.

Now officially diagnosed with panic disorder, I’m still trying to tame my panic attacks, my perfectionism, and my over-analytical tendencies.

I say “tame” and not “eradicate” because the perfectionism & analysis have certainly helped me academically and professionally. I have a B.A. in Communication from Lycoming College and an M.A. in Communication from the University of Delaware. I’ve been working in marketing, social media, and local search for three years during the day.

When I’m not staring at an endless series of emails and spreadsheets in my Dilbert-style cubicle, I’m probably at home writing, training my parrot to talk, or spending time with my fiancee — who I met when I was five years old.

Unless you catch a glimpse of me shaking during a bad panic attack, you can’t necessarily “see” the panic disorder in me. Nor can you visually see the stress-induced migraines I get regularly. Invisible illnesses are very real, and I’m a strong advocate of extending compassion and understanding toward those who are suffering from them.

And why am I sharing my story with the internet? Mental health disorders still carry a stigma — and the more we share our stories, the more quickly the stigma will fade away. I want to be a part of that.

I enjoy writing about panic, anxiety, agoraphobia, and my Paxil-withdrawal experience. I’m a fan of biofeedback, cognitive behavioral therapy techniques, and therapeutic uses for technology.

Summer Beretsky

blogs.psychcentral.com

Ecco il post che ha attratto la mia attenzione:

The ‘Most Relaxing Tune Ever’, According to…Science? | Panic About Anxiety

È la nostra amica Summer che scrive:

Can science give us the perfect sleep-inducing song?

I’ve been a bit of an insomniac lately. Somewhere in the depths of 2 a.m. last night (or this morning?), I Googled “most relaxing song ever”.

And what did I expect to find? Well, a bunch of songs esteemed Most Relaxing by the court of popular opinion.

But instead, I found … science. Maybe.

La cosa curiosa è che l’articolo cui si fa riferimento era stato pubblicato dal Telegraph il 16 ottobre 2011 e aveva suscitato già allora qualche curiosità, anche da parte di qualche blogger nostrano.

Intanto cominciate ad ascoltare il brano (dura 8 minuti) e dopo ne parliamo. Se siete ancora svegli, perché è soporifero davvero.

La “ricerca” di cui si parla è stata commissionata dalla Radox, una marca di sali da bagno e bagni schiuma diffusa nel Regno Unito e in altre parti dell’ex-impero britannico (Irlanda, Malaysia, Australia, Sud-Africa e Repubblica Ceca – lo so che non è mai stata parte dell’impero, ma i prodotti Radox si vedono anche lì). Acquistata dalla Unilever nel 2009, la Radox ha lanciato una campagna pubblicitaria di grande successo, Be Selfish, entro la quale si inserisce anche questa iniziativa.

Radox

wikipedia.org

Gli autori del brano sono un trio di Manchester, i Marconi Union (Richard Talbot, Jamie Crossley e Duncan Meadows), formatosi nel 2003 e (per un breve periodo) vicino alla casa discografica di Brian Eno.

Weightless, lanciata il 16 ottobre 2011 insieme allo “studio” che la caratterizza come “la canzone più rilassante di sempre”, è stata composta in collaborazione con la British Academy of Sound Therapy (di cui ho trovato ben poco sul web, salvo che è stata fondata ed è diretta da Lyz Cooper, la signora roscia che vedremo nel video qui sotto).

La “ricerca” finanziata dalla Radox è stata condotta dalla Mindlab, un’impresa privata di neuromarketing (non chiedetemi che cos’è il neuromarketing), su 40 donne. Alle cavie sono stati fatti risolvere dei problemi per far salire il livello di stress e, dopo averle collegate a una serie di sensori, è stata fatta ascoltare Weightless e altri brani rilassanti (per dare l’impressione che si trattassse di un disegno sperimentale “scientifico” e controllato, suppongo). Weightless sarebbe risultato dell’11% più rilassante di ogni altro brano, con effetti comparabili a quelli di un massaggio, di una passeggiata o di una tazza di te (ma non era un eccitante, il te?) e avrebbe ridotto del 65% il livello d’ansia (misurato come?). Basta così. Se siete creduloni ve lo raccontano il Dr David Lewis-Hodgson e Duncan Smith della Mindlab International:

Ancora due cose mi incuriosiscono.

Primo. Weightless e tutta la connessa campagna Radox hanno una data d’inizio precisa, il 16 ottobre 2011. Quella è anche la data dell’articolo del Telegraph e della pubblicazione del clip di Weightless su YouTube (a oggi è stato visto poco meno di 800.000 volte, con un andamento di crescita abbastanza regolare). Io, come dicevo, l’ho trovato citato su un blog di nicchia. Come si spiega allora che un altro blogger italiano abbia fatto un post in cui racconta la storia e traduce in gran parte l’articolo del Telegraph proprio l’altroieri, il 9 febbraio 2012?

Secondo. Alla fine dell’articolo del Telegraph è riportata la classifica dei 10 brani più rilassanti. Non è chiaro chi l’ha stilata, forse gli “scienziati” della Mindlab sulla base dei risultati dei loro test. Ad ogni buon conto, eccola qui:

  1. Marconi Union – Weightless
  2. Airstream – Electra
  3. DJ Shah – Mellomaniac (Chill Out Mix)
  4. Enya – Watermark
  5. Coldplay – Strawberry Swing
  6. Barcelona – Please Don’t Go
  7. All Saints – Pure Shores
  8. Adele – Someone Like You
  9. Mozart – Canzonetta Sull’aria
  10. Cafe Del Mar – We Can Fly

Per fortuna un altro valoroso blogger italiano mi ha risparmiato la fatica di andarmi a cercare tutti i brani su YouTube. Li trovate qui.

E poi sfottono i nostri carabinieri …

È successo nel Sussex, nell’Inghilterra meridionale. Un’area della città è colpita da una serie di furti in appartamenti. La polizia invia sul campo un suo uomo in abiti civili, un novellino particolarmente zelante, collegato via radio alla centrale, dove un collega lo guida utilizzando le immagini che vengono da diverse telecamere a circuito chiuso.

TV a circuito chiuso

telegraph.co.uk / Photo: ALAMY

A un tratto la centrale nota un tale che si muove in modo circospetto, e gli mette alle calcagna il poliziotto in borghese. Niente da fare: ogni volta che dalla centrale gli dicono che il sospetto è entrato in un vicolo o è girato in una strada laterale, per quanto l’uomo sul campo si affretti e scruti nella notte, non riesce mai a vedere niente. Nessuna traccia. Come il palo della banda dell’Ortica (la canzone è di Walter Valdi, non di Enzo Jannacci, ma su YouTube non l’ho trovata interpretata dall’autore).

Soltanto dopo 20 minuti nella sala di controllo della centrale entra il sergente, diretto superiore del poliziotto in borghese, che scoppia a ridere accorgendosi che il sospetto ripreso dalle telecamere è proprio il collega in abiti civili.

L’autenticità della storia – raccontata dal Daily Telegraph (CCTV police officer ‘chased himself’ after being mistaken for burglar) e ripresa da Cory Doctorow su boingboing (English plainclothes police officer follows himself for 20 minutes) – è garantita dalla circostanza di essere stata pubblicata originariamente dal settimanale di un sindacato di polizia.

E ci dà comunque un motivo in più per riflettere sull’utilità di mezzi di sorveglianza di efficacia dubbia (come questo caso dimostra) ma certamente invasivi della nostra privacy.

Orwell e CCTV

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Kissenger, tra Kissinger e Kazzenger

Mi sto godendo un giorno di immeritato riposo, dato che Alemanno mi ha chiuso l’ufficio. Gironzolo un po’ in rete e le notiziole inutili che sono la mia passione mi saltano addirittura alla gola. Per non provocarvi un’overdose o uno shock anafilattico cercherò di diluirle nei prossimi giorni: siete avvertiti.

Questa sembra finta tanto è scema, ma l’ha pubblicata Wired (edizione britannica), che dovrebbe essere una garanzia, e non è neppure il numero del 1° aprile.

Spherical robotic pigs transfer kisses between long-distance lovers (Wired UK)

Traduco l’inizio dell’articoletto di Olivia Solon:

La Lovotics di Singapore ha creato una gamma di robottini giocattolo che permettono agli amanti di scambiarsi baci sulla rete.

Le strane creature – battezzate Kissengers – sembrano porcellini sferici e hannouna bocca artificiale che offre “le convincenti proprietà di un vero bacio”. L’idea è che mentre stai comunicando via Skype con il tuo amato e, quando te ne viene voglia, accosti alle labbra il tuo Kissenger

Kissenger

lovotics.com

Il tizio a sinistra è l’inventore, il Dr. Hooman Samani; non so se quella a destra è la sua amata lontana.

Direi che è un’invenzione senza futuro (a differenza dei teledildonics, che secondo me aprono invece delle prospettive affascinanti), se non temessi di finire in una delle periodiche classifiche delle previsioni sbagliate.

Ma non finisce qui. Apparentemente il tipo fa sul serio.

Disoccupazione giovanile: vogliamo dati più utili

Segnalo l’articolo di Donato Speroni comparso sul suo blog Numerus su Corriere.it

Disoccupazione giovanile: vogliamo dati più utili.

L’innovazione non ha limiti d’età

Anche se gli enfant prodige guadagnano titoli a caratteri cubitali sulle pagine di scienza e tecnologia, con poche eccezioni l’età degli innovatori si sposta verso l’alto, in risposta all’aumento di complessità delle discipline scientifiche.

Innovazione e imprenditorialità

kurzweilai.net

Ne parla una ricerca su Technology Review (qui l’articolo originario)

Innovation without Age Limits – Technology Review

Una rivista scientifica italiana pubblica un articolo che nega il rapporto tra HIV e AIDS

L’Italian Journal of Anatomy and Embryology – organo ufficiale della Società italiana di anatomia e istologia – pubblica nel suo ultimo numero (2-2011) un articolo che ha tra i suoi autori il controverso prof. Peter Duesberg della University of California di Berkeley, famoso per sostenere la tesi che non è il virus HIV a causare l’AIDS. L’articolo, intitolato “AIDS since 1984: No evidence for a new, viral epidemic – not even in Africa“, può essere liberamente letto e scaricato (e questo ci fa sempre piacere). La tesi di fondo è che non c’è un’epidemia di HIV-AIDS neppure in Sudafrica e che le terapie con farmaci anti-retro-virali (ARV) sono inefficaci.

Peter Duesberg

nature.com / Siggi Sachs

La pubblicazione dell’articolo nella rivista italiana ha provocato le clamorose dimissioni di uno dei membri del comitato editoriale, la prof.ssa Klaudia Brix dell’Università Jacobs di Brema, e le proteste di altri membri del comitato.

Una prima versione del paper di Duesberg era stato pubblicato nel 2009 dalla rivista Medical Hypotheses (Elsevier editore), che all’epoca non sottoponeva gli articoli da pubblicare a una peer review, ma soltanto alla scelta del comitato editoriale. Dopo la pubblicazione, però, la comunità degli scienziati impegnati sulla ricerca sull’AIDS protestò, sostenendo che le tesi dell’articolo avrebbero potuto avere effetti negativi sulla prevenzione e la cura della sindrome. Elsevier ritirò l’articolo e istituì una politica di peer review per la rivista Medical Hypotheses.

Anche l’Italian Journal of Anatomy and Embryology adotta una politica di peer review, ma pare che nel caso dell’articolo in questione il paper sia stato esaminato da un solo revisore esterno, oltre che personalmente dal direttore scientifico della rivista, il prof. Paolo Romagnoli dell’Università di Firenze.

Io ammetto di sapere ben poco della materia e della controversia, ma poiché sono un tipo sospettoso, la circostanza che tra gli autori dell’articolo ci sia un altro professore di Firenze, Marco Ruggiero, un po’ di puzzo di bruciato me lo fa sentire. Sul caso è intervenuta anche Sylvie Coyaud il 16 gennaio 2012 con un post intitolato Peter Duesberg, l’AIDS e lo yogurt del prof. Ruggiero, che ci informa che il prof. Ruggiero sostiene che l’AIDS si può curare con uno “yogurt probiotico” che risana la flora intestinale, i cui “batteri massimizzano la produzione naturale” dell’enzima GcMAF, che rafforza il sistema immunitario. L’efficacia dell’enzima – ma non me ne stupisco – non è stata affatto provata (Balotta C. e F. Simonetti, Università di Milano: GcMAF: la realtà dietro le false speranze).

HIV

wikimedia.org

Al di là del versante nazionale, la polemica è stata ripresa dalla stampa scientifica internazionale. Personalmente ne sono venuto a conoscenza dalla newsletter di The Scientist (Resignations Over AIDS Denial), ma la questione è arrivata sulle autorevolissime pagine di Nature (Paper denying HIV–AIDS link sparks resignation : Nature News & Comment). Ciò che rende la vicenda particolarmente spinosa è che l’articolo più recente non è che una riproposizione dell’articolo del 2009, di cui utilizza le stesse argomentazioni e gli stessi metodi, e soprattutto gli stessi dati, senza aggiornamenti. Ma dopo lo “scandalo” di Medical Hypotheses l’editore Elsevier aveva sottoposto l’articolo originario a 5 revisori esterni, che avevano tutti rigettato l’articolo come non pubblicabile. Nature, che è entrata in possesso delle 5 note di lettura dei revisori dell’epoca, rivela che le critiche formulate allora sono pressoché integralmente applicabili anche a questa stesura dell’articolo.

Con una storia così controversa alle spalle, trovo sorprendente che il direttore scientifico dell’Italian Journal of Anatomy and Embryology non abbia adottato cautele straordinarie. E intanto l’accademia italiana sembra pronta a scaricare Romagnoli: il presidente e la segretaria della Società italiana di anatomia e istologia (Eugenio Gaudio della Sapienza e Gigliola Sica della Cattolica) hanno infatti dichiarato a Nature che la responsabilità di selezione dei manoscritti e dei revisori e la decisione finale sulla pubblicazione sono del direttore editoriale.

Che, a questo punto, si sarà consolato con uno yogurt probiotico.

Ai gatti non piacciono i dolci?

Forse avrete intuito che sono molto curioso e amo raccogliere sul web (che è una vera pacchia per i curiosi: a volte mi chiedo come facevo prima) masse di informazioni a bassa utilità. Con una passione aggiuntiva per quelle che scaturiscono da ricerche scientifiche.

Soltanto che – non spesso per fortuna – a volte i risultati della ricerca fanno a pugni con la mia esperienza diretta. Aneddotica, lo ammetto, ma diretta.

Coabito con una gatta, che ha dato numerosi segnali di golosità “tradizionale”, cioè finalizzata al consumo, oltre che al furto con destrezza, di dolci. Ricordo una volta una zampata perfettamente riconoscibile sulla glassa di una Sachertorte lasciata incautamente a raffreddarsi e a solidificare sul tavolo della cucina. Ricordo, in più di un’occasione, sacchetti di plastica sventrati per rubare il panettone. Ricordo anche un altro gatto grigio, che avevo da bambino a casa della nonna in campagna, capace di aprire la credenza per rubare il ciambellone.

Figuratevi allora il mio stupore nell’apprendere che i gatti non solo non amano i dolci, ma mancherebbero anche, per motivi genetici, dei recettori che permettono di assaporare il gusto “dolce”.

Ma andiamo con ordine.

Cat Cravings

the-scientist.com / Andrzej Krauze

Cat Cravings | The Scientist

La storia raccontata dall’articolo di The Scientist cui faccio riferimento qui sopra comincia molti anni fa, quando la micologa Ellen Jacobson sta cucinando un piatto di porcini della sua cucina di casa in Colorado e il suo gatto Cashew accorre e miagola e le si strofina contro le gambe finché la padrona non gli molla un fungo, che il gatto divora con entusiasmo. Da coscienziosa scienzata Ellen prosegue le sue ricerche, scoprendo che la golosità di Cashew non è limitata ai boleti, ma si estende ad altri funghi commestibili, e che è condivisa dall’altro gatto di casa Jacobson (Lewis) e da tutti gli esemplari della specie Felis silvestris catus.

La spiegazione, si scopre abbastanza presto, risiede nelle papille gustative presenti sulla rasposa lingua dei gatti, e più esattamente nelle proteine che fungono da recettori di gusto nelle papille stesse. Le sensazioni di dolce e di umami (il gusto legato all’aminoacido glutammato) sono legate ai recettori T1R1, T1R2, and T1R3, In particolare, la sensazione di dolce è percepita quando le molecole di cibo si legano ai recettori T1R2 e T1R3, mentre il gusto umami scaturisce dall’attivazione di T1R1 e T1R3.

Entrambe le sensazioni risultano piacevoli per la maggior parte dei mammiferi, incluso l’uomo: un piacere selezionato dall’evoluzione darwiniana perché una dieta ricca di carboidrati e aminoacidi (dolci e umami) offre un chiaro vantaggio riproduttivo.

La maggior parte dei mammiferi, dicevamo. Ma non i gatti: circa 35 anni fa Gary Beauchamp, biologo del Monell Chemical Senses Center di Philadelphia osserva che i gatti non manifestano interesse per i dolci. Un effetto collaterale della domesticazione? Neanche per idea: Beauchamp va allo zoo di Philadelphia e scopre che nemmeno tigri, leoni, leopardi, giaguari e altri felini selvatici. Per Beauchamp diventa un’ossessione. Nel 2005, qualche anno dopo la scoperta della famiglia di recettori T1R, Beauchamp e il suo gruppo cominciano a studiare le papille gustative dei gatti e scoprono che in realtà i felini non hanno un’avversione ai cibi dolci, ma semplicemente non sentono quel sapore, perché nei felini una mutazione che ha “cancellato” 247 coppie di basi nel gene che esprime il recettore T1R2 lo rende di fatto inattivo.

I risultati della ricerca (che naturalmente è un po’ più complicata di come l’ho raccontata io) sono disponibili qui (e tutti possono leggerla gratis, evviva!):

PLoS Genetics: Pseudogenization of a Sweet-Receptor Gene Accounts for Cats’ Indifference toward Sugar

PS: E allora perché la mia gatta mangia il panettone? Per quanto amico della scienza, non mi sarei imbarcato in questa avventura divulgativa se – dopo una giornata passata a strologare sul problema – non avessi uno straccio di spiegazione: anche se non percepiscono il gusto “dolce” in purezza, i gattti sono comunque in grado di gustare gli altri nutrienti pregiati del panettone, e in primo luogo le uova.

PPS: E se ai gatti, tolto il dolce, resta però l’umami, oltre ai funghi dovrebbe piacere il pomodoro. E infatti la mia gatta lecca accuratamente pentole e padelle dove ha cotto la salsa della pasta, anche se non è ragout di carne, ma semplice pommarola.

Inconscio e creatività

Le idee innovative hanno un’importanza cruciale ma (anzi proprio per questo) sono rare ed elusive. Quando, nonostante sforzi disumani e applicazione diuturna, non ci viene nessuna idea brillante meglio prendersi una pausa e dare una chance all’inconscio. È quasi sicuramente un consiglio che vi hanno dato e che avete trasmesso ad altri. È anche probabile che – come del resto è capitato anche a me – a volte vi sia successo di arrivare alla soluzione di un problema la mattina svegliandovi o facendo la doccia, dopo una giornata passata inutilmente a scervellarvi.

Uno studio pubblicato di recente su Thinking Skills and Creativity (lo trovate qui, ma lo potete leggere soltanto se appartenete a un’istituzione abbonata o se vi va di pagare $ 31,50) conferma la validità del consiglio, ma per motivi diversi da quelli che tutti credevamo: non è vero che l’inconscio è più efficiente del pensiero cosciente nell’elaborare idee, ma gioca un ruolo fondamentale nel secondo stadio del processo, quello di selezionare le idee più innovative tra quelle generate dal pensiero cosciente.

Inconscio e creatività

Hemera/iStockphoto - miller-mccune.com

Nell’impossibilità di leggere l’articolo originario, mi baso su quanto ho trovato qui:

How the Unconscious Mind Boosts Creative Output – Miller-McCune

Lo studio è stato condotto da Simone Ritter del Radboud University Behavioral Science Institute di Nijmegen (Paesi Bassi) e dai suoi colleghi.

Nel primo esperimento, a 112 studenti universitari è stato chiesto di proporre quanti più metodi venissero loro in mente per rendere più sopportabile l’attesa in fila a una cassa. Una metà (ovviamente scelta a caso) ha avuto la possibilità di dedicarsi immediatamente al compito, mentre l’altra ha dovuto prima dedicarsi per 2 minuti a un’attività poco impegnativa (cliccare su dei cerchi che comparivano sullo schermo). A ciascuno è stato poi chiesto di elencare tutte le idee venute in mente e individuare al loro interno la più creativa. I risultati sono stati valutati nel merito da esperti indipendenti.

I 2 gruppi non sono risultati significativamente diversi per numero e “qualità” (secondo i valutatori indipendenti) delle idee formulate. Ma quelli che erano stati “distratti” sono risultati significativamente migliori nella capacità di discernere la soluzione più creativa.

Il secondo esperimento è stato condotto su 68 studenti con la medesima procedura ma un quesito diverso (“Come possono gli studenti accumulare soldi extra?”). I risultati confermano quelli del primo esperimento.

Pur senza proporre una teoria compiuta, gli autori dell’articolo ipotizzano che – durante la distrazione – un processo inconscio proceda a “taggare” le idee formulate dal pensiero cosciente.