Obituary: Kevin Ayers

Kevin Ayers se n’è andato un’altra volta, verrebbe da dire. Come se n’era andato dai Soft Machine, dopo averli fondati. Come se n’era andato dalla scena di Canterbury, dopo averla fecondata (anche in senso letterale: il leggendario concerto del 1° giugno 1974 al Rainbow Theatre di Londra – che vedeva insieme sulla scena Kevin Ayers, Mike Oldfield, Nico, Brian Eno e John Cale – fu messo in forse quando quest’ultimo, la notte della vigilia, beccò la moglie che scopava con il nostro bel Kevin).

Kevin Ayers nel 1974 / wikimedia.org/wikipedia/commons

Kevin Ayers era il più scanzonato, lunare, autenticamente hippie e disimpegnato dei Soft Machine e della colonia di Canterbury. Non so se davvero sia morto solo e triste come lo immagina Marinella Venegoni su La stampa del 22 febbraio 2013:

Addio triste e solitario a Kevin Ayers
Fondò i Soft Machine e scappò subito

Kevin Ayers doveva proprio amare la vita fuorimano. La notizia della sua morte a 68 anni, il 18 scorso a Montolieu in Linguadoca, villaggio di neanche mille anime, ci ha messo qualche giorno a uscire dalle campagne francesi, e l’ha dovuta dare il sindaco perché Kevin viveva lì da 15 anni da solo, in modo anche misterioso e precario, ed evidentemente le sue tre figlie lo cercavano poco. Gli abitanti se lo ricordano perché spesso suonava la chitarra al caffè, così per sport.
Accanto al letto hanno trovato, dice già la leggenda, un foglio con su scritto «You can’t shine if you don’t burn», non puoi brillare se non bruci. Kevin, polistrumentista e compositore, membro fondatore dei leggendari Soft Machine, aveva molto brillato, e molto si era bruciato nei modi più appropriati alla distruzione, in quella generazione di fenomeni che ha prodotto grandissimi musicisti e moltissime morti premature.
Amava la vita fuorimano, Ayers. Era stato a casa sua, nel 1973, durante un party ad Aylesbury nelle natia Inghilterra, che il socio co-fondatore e amicone Robert Wyatt era caduto giù dalla finestra (o si era buttato, secondo altre versioni), fatto come un’acciuga al sale, rimediando una paralisi permanente agli arti inferiori.
I Soft Machine si erano chiamati così ispirandosi a un libro di Williams Borroughs, che aveva pure concesso l’uso del nome. Si rivelarono subito una band seminale della psichedelia nella cosiddetta scena di Canterbury. Sbarcarono a Londra nei tardi ‘60 e fecero faville: si metta su da You Tube una qualunque «Dim Dam Dom» del ‘67 o un live dell’Ufo Club dove stazionarono a lungo, per avere una piccola, immediata idea di cosa si parla. Pop, jazz, rumoristica, improvvisazione ribalda.
Nella Swinging London dell’epoca, Ayers stringe amicizia con Syd Barrett e con Jimi Hendrix che lo convince a comporre, e sarà con lui che i Soft faranno la prima tournée Usa, dove registreranno il primo album. Ma Ayers non ama la caccia alla fama e al denaro, abbandona subito e inizia una carriera solista all’insegna dell’eclettismo, incidendo 17 album a partire dal fulminante «Joy of a Toy». La stima nei suoi confronti è alta, collaborerà con Brian Eno, Phil Manzanera e naturalmente Nico dei Velvet. In mezzo, pause e disperazioni con droghe pesantissime, e un’irrequietezza che lo porta poi da Ibiza a Montolieu. L’ultimo album è del 2007, «The Unfairground», con la collaborazione di gente della nuova scena musicale, dai Teenage Fanclub ai Neutral Milk Hotel.

lastampa.it/

Io non riesco a immaginarlo, un Kevin Ayers disperato. Solitario sì, melanconico come nella foto qui sopra sì, disperato no, nonostante canzoni come Song from the Bottom of a Well:

This is a song from the bottom of a well
I didn’t move here, I just fell.
But I’m not complaining, I don’t even care
‘Cause if I’m not here, then it’s not there.

Lo immagino piuttosto irridente e devoto all’eterno femminino: «Let’s drink some wine and have a really good time». «What else?», gli risponderebbe quello della pubblicità. Mike Oldfield, giovanissimo e ben prima di Tubular Bells, fa il celeberrimo assolo di chitarra.

I’m looking ‘round madly
for something to find
That might give me a front
To put something, something behind.

Just bouncing this ball
Up and down the hall
But it’s full of best wishes
and suffocating fishes, and all.

So, let’s drink some wine
And have a good time.
But if you really want to come through
Let the good time, good time have you.
It’s what you’ve got to do.

You said it was foolish
for me to be sad;
But I’m very hungry, and you..
You’re very well fed,
You’re such a fat lady.

And I’m talking to you
just for something to do
‘Cause I’d much rather kiss you
But I know, I’m gonna miss you
Again and again, I know I’m gonna miss you.

So, let’s drink some wine, etc.

I sing to the island
That sings in your head
‘Cause I know you’d much rather be there
Be there instead.
I know you’d rather be there…

But you won’t find the answer
Even when the wind blows;
‘Cause the answer, my friend
is in front..
Right there in front of your nose
Everybody knows, it’s their nose.

So, let’s drink some wine, etc. (repeat)

S’io fossi Robert Wyatt (com’io sono e fui), dall’amico mi congederei così:

Open your window
lend an ear
and then
pull back the curtain
hurry
so you can hear

Listen to the
hum
as it rises
riding the breeze
leaving gravity’s children
agrounded

Onwards and upwards
that’s the way
ever on
beyond the highest plateau
that’s OK

There’s a reason why some people float
sometimes
are floored
God knows this reason
that’s what gods are for

Press on your window
feel the pane

Il galateo di Lorenzo Milani e i poliziotti

Dal momento che, molto prevedibilmente, dopo gli incidenti occorsi in molte città, ma soprattutto a Roma, il 14 novembre 2012, tutti i conformisti si sono sentiti in dovere di ricordare la poesia scritta da Pier Paolo Pasolini dopo Valle Giulia (Pasolini, grande polemista, poeta interessante, regista discontinuo e intellettuale discusso, era un uomo profondamente di destra), mi permetto di riprendere un brano dagli Appunti per un nuovo galateo di Lorenzo Milani che ho già citato qui:

Dalla cartella numero 10, sottotitolata CON LE AUTORITÀ:
i poliziotti sono l’unica categoria che si può trattare come da padrone a servo.
Come educazione alla fede nella sovranità popolare e come educazione dei poliziotti stessi. [pp. 218-219]

Per i più duri di comprendonio e per quelli in malafede (e, poveri noi, non so chi è maggioranza o chi stia peggio): non c’è nessuna simmetria e nessuna par condicio tra poliziotti e manifestanti. I poliziotti sono a tutti gli effetti civil servants, retribuiti con i proventi della tassazione generale per svolgere un servizio (in questo caso di ordine pubblico) a nostro beneficio. Sono, quindi, accountable nei confronti di tutti i cittadini, in quanto contribuenti (o contribuenti potenziali). Ai manifestanti chiediamo il rispetto delle regole, naturalmente: ma è cosa ben diversa dall‘accountability: possiamo sanzionarli, naturalmente, ma la forza di un ipotetico “contratto sociale” è molto più debole del rapporto principal/agent che si instaura tra cittadino e civil servant. Per il manifestante, limitiamoci a chiedere che non occulti l’evidenza della sua identità (no a caschi e passamontagna); per il celerino, come per il controllore ferroviario, esigiamo l’evidenza dell’identità.

ACAB

paesesera.it

* * *

Controcanto: Uguaglianza, di Paolo Pietrangeli.

È stata una colonna sonora della mia Klassenbewusstsein:

Ci dicon siete uguali, ma io vorrei sapere: uguali davanti a chi? uguali perché e per chi?
È comodo per voi, che avete in mano tutto, dire che siamo uguali davanti a Dio.
È un Dio ch’è tutto vostro, è un Dio che non accetto e non conosco.

Anzi, alla radice della mia Klassenbewusstsein: mi perdoni, se può, György Lukács.

Ti ho visto lì per terra
al sole del cantiere
le braccia e gambe rotte dal dolore
dicevan ch’eri matto
ma debbo ringraziare la tua pazzia.

Ti ho visto un sol momento
poi ti ha coperto il viso
la giacca del padrone che ti ha ucciso
ti hanno nascosto subito
eri per loro ormai da buttar via.

Ci dicon siete uguali
ma io vorrei sapere
uguali davanti a chi
uguali perché e per chi.

E’ comodo per voi
dire che siamo uguali
davanti a una giustizia
se non la vostra guardia quotidiana.

Ci dicon siete uguali
ma io vorrei sapere uguali
davanti a chi uguali
perché e per chi.

E’ comodo per voi
che avete in mano tutto
dire che siamo uguali davanti a Dio
è un Dio ch’è tutto vostro
è un Dio che non accetto e non conosco.

Dicevi questo ed altro
e ti chiamavan matto
ma quello in cui credevi verrà fatto
alla legge del padrone
risponderemo con rivoluzione.

Obituary: Scott McKenzie

La colonna sonora del luglio del 1967 – la mia prima estate da solo all’estero, “in famiglia” a Dublino per imparare l’inglese – ruotava, per come l’ho vissuta io, intorno a 3 canzoni:

  1. All You Need is Love, il single con cui i Beatles erano tornati in vetta alle classifiche dopo il flop di Strawberry Fields Forever/Penny Lane, anche grazie alla trasmissione in “mondovisione” di fine giugno.
  2. A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum, una canzone dal testo incomprensibile ma strappacore (e strappagonadi), adattissima a ballare abbracciati stretti stretti, con una voce da blues, una linea melodica bachiana e un inedito impasto di pianoforte e organo.
  3. See Emily Play, curiosissimo brano di un gruppo psichedelico inglese al suo primo successo (raggiunse il 6° posto nella classifica inglese), i Pink Floyd: nessuno ci avrebbe scommesso allora, ma sarebbero diventati famosi.

Alla fine del mio soggiorno incontrai una ragazza di cui mi innamorai perdutamente. L’avrei sposata, ma mi dovetti accontentare di diventarne l’amico di penna. Nella prima lettera mi informò che i miei gusti musicali di luglio erano irrimediabilmente demodé, e che adesso non si parlava che di Massachusetts dei Bee Gees e di San Francisco di Scott McKenzie. A differenza dei Bee Gees, che attraversarono molti generi musicali in una lunga carriera, Scott McKenzie (che si chiamava in realtà Philip Wallach Blondheim ed era un amico strettissimo di John Phillips, anima dei Mamas & Papas) fu sostanzialmente uomo di una solo canzone. Ma che canzone: l’inno dei figli dei fiori e del Summer of Love.

Scott McKenzie

wikipedia.org

E allora, andiamo con la playlist (all’incontrario va, come il treno dei desideri).

La voce (belante) è quella di Robin Gibb.

E qui naturalmente canta Syd Barrett.

La trasmissione in mondovisione del giugno 1967.

Leoš Janáček

Meriterebbe di essere più famoso, se non più popolare, Leoš Janáček, compositore ceco nato a Hukvaldy in Moravia il 3 luglio 1854 (e morto a Ostrava il 12 agosto 1928). Invece, anche per chi ama la musica classica, è facilmente collocato al terzo posto di un’ipotetica classifica dei compositori cechi dell’Ottocento più famosi: al primo posto si piazza certamente Antonín Dvořák (famoso per la Sinfonia dal nuovo mondo e forse anche per i due cicli di Danze slave) e al secondo probabilmente Bedřich Smetana – che pure era più vecchio di una generazione – per il poema sinfonico Má vlast (“La mia patria”), una specie di colonna sonora di ogni visita a Praga che si rispetti.

Leóš Janáček

wikipedia.org

Eppure Janáček avrebbe più di un motivo per essere più famoso di quello che è. Cominciamo dalla biografia: fu introdotto dal padre, maestro elementare e musicista dilettante, ai primi rudimenti della musica. Ma era povero e dovette studiare anche lui da maestro in un seminario di Brno. Continuò però a studiare musica da autodidatta: non potendosi permettere uno strumento, usava una tastiera di cartone che si era costruito da solo. Riuscì comunque a fare il musicista insegnando musica all’istituto magistrale di Brno, dove conobbe la figlia del direttore, Zdenka Schulzová, che sposò nel 1881 e cui dedicò il Tema con variazioni per piano in si bemolle (Variazioni Zdenka). Non fu un matrimonio felice: nel 1890 morì suo figlio Vladimir e nel 1903 l’amatissima figlia Olga. L’anno successivo conobbe Kamila Urválková, di cui s’innamorò senza conseguenze durature sul matrimonio con Zdenka Schulzová. Non così fu per la storia d’amore con la cantante Gabriela Horváthová nel 1916: Zdenka tentò il suicidio e i due “divorziarono” di fatto, anche se non legalmente. L’anno successivo, a 63 anni, l’incontro decisivo di Leoš con Kamila Stösslová, una giovane donna sposata di 38 anni più giovane di lui. Leoš ne fu ossessionato, al punto di scriverle 730 lettere d’amore – pare non ricambiato (passarono 10 anni prima che, rispondendo a una lettera di Leoš, si firmasse tua Kamila – naturalmente la “separata in casa” Zdenka trovò la lettera e gli fece una delle sue memorabili scenate).

Kamila Stösslová

wikipedia.org

Difficile sottovalutare l’importanza di Leoš Janáček come musicista, ma non penso sia questa la sede per farlo. Mi limiterò a dire che fu un etno-musicologo ante litteram: le sue ricerche lo impegnarono particolarmente tra il 1888 e il 1909.

Almeno 2 – tra le tante – le opere di Janáček che dovreste conoscere.

La prima è la sua Sinfonietta che qui potete ascoltare nella versione di riferimento, quella della Orchestra filarmonica ceca diretta da Karel Ancerl:

Dovreste conoscerla, almeno per 2 motivi:

  1. Il primo è che il tema iniziale, la fanfara, è utilizzato nel brano Knife Edge che compare nell’album di esordio di Emerson, Lake & Palmer (è forse il brano più famoso del disco, a parte Lucky Man). Oltre a Janáček Emerson (intorno a 5’00” in questa versione) suona anche un pezzo della Suite francese in re minore BWV 812 di Johann Sebastian Bach. Qui ascoltiamo una versione dal vivo registrata il 31 dicembre 1970 al Beat Club:
  2. Il secondo è che la Sinfonietta di Janáček è, praticamente, la colonna sonora del bellissimo romanzo di Murakami Haruki 1Q84.

Ma la seconda opera da conoscere – se vi ha incuriosito la strana e straziante storia d’amore epistolare tra Leoš e Kamila – è il Quartetto per archi n. 2 “Lettere intime” (fu lo stesso Janáček a dargli questo nome), scritto nel 1928

Il buono, il brutto, il cattivo e il suonatore di kora

Poco più di un pretesto, per fare ascoltare insieme musiche apparentemente disparate (ma su questo, un gioco bellissimo è quello che fa 6gradi, la trasmissione di Rai radio3 di Paola De Angelis e Luca Damiani).

Cominciamo dal celeberrimo tema scritto da Ennio Morricone per Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone. Qui l’ascoltiamo come lo si ascolta, per la prima volta, nei titoli di testa del film:

Wikipedia ne parla così:

La colonna sonora del film fu composta da Ennio Morricone, frequente collaboratore di Leone (con il quale fu anche compagno di classe in terza elementare), le cui caratteristiche composizioni, contenenti spari, fischi (di Alessandro Alessandroni) e jodel, contribuiscono a ricreare l’atmosfera che caratterizza il film. Il motivo principale, assomigliante all’ululato del coyote, è una melodia composta da due note, divenuta molto famosa. Essa viene utilizzata per i tre personaggi principali del film, con un differente strumento usato per ognuno: flauto soprano per il Biondo, l’arghilofono del maestro Italo Cammarota per Sentenza e la voce umana per Tuco. Questo motivo si ripropone durante tutto il film, senza però mai annoiare né risultare scontato: Leone e Morricone la ripropongono solo nei momenti appropriati, rendendo memorabili le scene. Il tema, ricorda Morricone, era stato realizzato in modo molto bizzarro:

«Quando dirigo il pezzo in concerto, gli ululati di coyote che danno il ritmo ai titoli del film sono realizzati di solito col clarinetto. Ma nella versione originale adottai soluzioni molto più inventive. Due voci maschili cantavano sovrapponendosi l’una con l’altra, una gridando A e l’altra E. Gli AAAH ed EEEH dovevano essere eloquenti, per imitare l’ululato dell’animale ed evocare la ferocia del selvaggio West.»

Ed ecco, appunto, la versione da concerto:

Continua Morricone:

«Ne Il buono, il brutto, il cattivo, ogni personaggio aveva un suo tema musicale. Era anche una sorta di strumento musicale che interpretava la mia scrittura. In questo senso, giocavo molto con armonie e contrappunti… Mettevo in scena la carta stradale di tre esseri che costituivano un amalgama di tutti i difetti umani… Avevo bisogno di diversi crescendo e momenti spettacolari capaci di conquistare l’attenzione e che tuttavia si accordassero con lo spirito generale della storia. Per cui la musica assunse un’importanza centrale. Doveva essere complessa, con umorismo e lirismo, tragedia e barocco. La musica diventava anche un elemento della storia. Era il caso della sequenza del campo di concentramento. Un’orchestra di prigionieri deve suonare per soffocare le urla dei torturati. In altre parti del film, la musica accompagnava improvvisi cambiamenti di ritmo, come quando la carrozza fantasma appare dal nulla in mezzo al deserto. Volevo anche la musica diventasse a tratti un po’ barocca. Non volevo che si limitasse alla ripetizione del temi di ogni personaggio – una sottolineatura. In ogni caso, feci suonare parte della musica sul set. Creava l’atmosfera della scena. Le interpretazioni ne erano decisamente influenzate. A Clint Eastwood questo metodo piaceva molto.»

Il tema di Morricone è abbastanza bizzarro da invitare strani compagni di letto. Uno inaspettato è John Zorn, che ne ha inciso un frammento nel 1987. Lui stesso racconta la storia nelle note di copertina del disco:

This track is a freak. In April of 1987 I got a call from a representative of the McCann Erikson Advertising Agency who was putting a bew presentation for Camel cigarettes in South East Asia. They were looking for a new approach in arranging the Camel theme son “The Good, the Bad and the Ugly” which they’d been using for years, and had already commissioned a reggae band, a jazz group and a classical string quartet. God knows what they thought I would come up with, but needless to say, after I delivered my track I never heard from them again. That’s show biz! I still wonder which one they picked …

Zorn ha scritto l’arrangiamento ma non suona. La band è spettacolare:

  • Robert Quine – guitar
  • Bill Frisell – guitarF
  • Fred Frith – bass
  • Wayne Horvitz – hammond organ
  • David Weinstein – keyboards
  • Carol Emanuel – harp
  • Robert Previte – drums, percussion, vocal

A questo punto a voi, come a me, sarà venuta una curiosità: il tema di Il buono, il brutto e il cattivo usato per la pubblicità delle Camel? Davvero? Non mi ricordo. Forse si spiega con il fatto che in Italia la pubblicità alle sigarette non si è mai potuta fare. Cioè, la pubblicità diretta, perché siamo pur sempre in Italia, il paese di “fatta la legge, trovato l’inganno.”

Infatti:

Ma il compagno di letto più curioso è il grande virtuoso maliano di kora Toumani Diabaté, che nel suo brano Cantelowes (dall’album The Mande Variations) fa un omaggio a Morricone. Ascoltate.