Piazza della Loggia

Piazza della Loggia, 28 maggio 1974

antiwarsongs.org

Stiamo ancora discettando, alla luce del film di Marco Tullio Giordana (e all’ombra del libro di Paolo Cucchiarelli), della strage di Piazza Fontana, e oggi si riapre un’altra ferita, quella della strage di Brescia del 28 maggio 1974. Una strage fascista al di là di ogni ragionevole dubbio, mi verrebbe da dire: la bomba scoppia durante una manifestazione antifascista mentre parla un sindacalista della CGIL. Nessun colpevole per la giustizia italiana (che continuo a rispettare, beninteso, come ogni bravo cittadino).

Cito da un intervento di Riccardo Venturi, che ho trovato qui ma che rinvia a un documento non facilissimo da trovare, Canzoni e stragi di Stato:

Esaurita la lunga sezione sulla strage di Piazza Fontana e sugli episodi ad essa collegati, è necessario seguire la scia di sangue di morte che, da Milano, porta alla vicina Brescia. Una strage i cui “protagonisti” sono gli stessi. Lo stesso stato. Lo stesso terrorismo di stato. Che colpisce, stavolta, non in un luogo “di passaggio”, come nella strage precedente ed in quelle che seguiranno (una banca, un treno, una stazione), ma nella Piazza.
La Piazza.
Tempio della politica e dell’azione, dell’assemblea e della parola. Quella piazza che Giorgio Gaber contrapponeva come scelta della sua generazione alla casa e alla coppia sposata, la piazza “unica salvezza” per una generazione imperdonabile che rifiutava la dimensione privata e borghese della famiglia e le imputava anzi la colpa di tenere le persone lontane “dalla lotta, dal dolore e dalle bombe”. Quell’ordigno nascosto in un cestino dei rifiuti colpì al cuore un’intera generazione in ciò che di più intimo e pubblico nel medesimo tempo aveva al mondo.
È la mattina del 28 maggio 1974. In Piazza della Loggia, cuore storico della città di Brescia, si sta svolgendo una manifestazione organizzata dal Comitato Permanente Antifascista bresciano per protestare contro la violenza dei gruppi della destra radicale. Sta parlando il sindacalista della CGIL Castrezzati. Proprio mentre il sindacalista sta parlando della strage di Piazza Fontana di quattro anni e mezzo prima, si sente uno scoppio. Nell’agghiacciante registrazione della manifestazione, un documento sonoro che chiunque ricordi quegli anni porterà per sempre dentro (fosse stato pure un ragazzino di undici anni, come io ero allora), si sente la voce di Castrezzati che parla; lo scoppio; ancora Castrezzati, che con voce rotta grida “Compagni! State Calmi! Lavoratori! Tutti al centro della piazza!”. Sul selciato, tra i brandelli delle bandiere rossi, restano i corpi dilaniati di otto persone, delle quali vogliamo ricordare il nome.
Giulietta Banzi Bazoli, Livia Bottardi, Clementina Calzari Trabeschi, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti, Alberto Trabeschi (marito di Clementina), Vittorio Zambarda. Rimangono ferite in modo più o meno grave altre 103 persone.

Da allora, per chi era lì quella mattina, Piazza della Loggia resterà sempre squarciata dai corpi ammucchiati, dalle bandiere rosse come il sangue stese a terra per coprire l’orrore, dal fumo e dalla confusione, dall’odore acre di polvere e carne bruciata. Da allora sarà “la piazza lavata”, dacché qualcuno diede ordine ai pompieri di spazzarla con gli idranti cancellando ogni indizio per rivestirla al cospetto dei nuovi giorni. Non riuscirà mai a riprendere le sue funzioni di mercato al sabato, di fermata degli autobus, di snodo del centro storico: la sua condizione fondamentale sarà quella di piazza ferita, solo per gli occhi disattenti “lavata” e acconciata per le futilità quotidiane. “Loro – quei corpi straziati – ci sono anche se non vogliamo guardare” (Mario Rigoni Stern).
A differenza di quella di Piazza Fontana, la strage di Brescia non ha avuto, a quanto mi è noto, grandissimo eco nella canzone d’autore e popolare. Con un’unica, importantissima eccezione: “Ringhera” di Ivan della Mea. L’intera seconda parte della lunghissima cantata in dialetto milanese è dedicata alla strage, seguendo le vicende di una delle sue vittime (non so dire, onestamente, se basate su una reale corrispondenza, oppure se frutto della fantasia interpretativa dell’autore; ed al riguardo mi piacerebbe ovviamente avere notizie più precise).
Tempo fa (esattamente il 28 ottobre 2004) ebbi modo di presentare “Ringhera” sul newsgroup it.fan.musica,guccini e sulla mailing list “Brigata Lolli”, vale a dire gli stessi luoghi dove sto inserendo questa cosa sulle canzoni e le stragi di stato. Si trattava della prima volta in cui il testo della cantata di Ivan della Mea veniva presentato in rete. Ritengo opportuno ripetere la presentazione che ne feci allora, sfrondata dalle parti appropriate per il suo inserimento nel sito delle “Canzoni contro la guerra”.
*
“Ringhera” è una lunga cantata di lotta, la storia del nostro paese dal fascismo alla guerra di Spagna, dal duro dopoguerra alle stragi di stato e alle bombe fasciste vista attraverso le vicende di un ragazzo e di una ragazza “di ringhiera” milanese. Un affresco totale di una storia di lotte, di sopraffazioni e di morte (la cantata si chiude infatti con la morte della donna il 28 maggio 1974, nella strage di Piazza della Loggia a Brescia). Una storia di guerra e di lotta continua, quindi; una storia militante che, va da sé, si è sempre e necessariamente confusa con la lotta contro la guerra imperialista e contro la violenza delle classi dominanti.
“Ringhera” è a mio parere una delle massime cantate in lingua italiana. Ciononostante, in rete mi è stato assolutamente impossibile reperirne il testo completo. Ho dovuto quindi trascriverla all’ascolto […]
“Ringhera”, tratta dall’album omonimo di Ivan della Mea (del 1974), è senza dubbio una delle composizioni più autenticamente epiche di tutta la canzone d’autore italiana; e ve la annovero volentieri tra le principali in assoluto […]. Un’occasione per vederne il testo, per chi già la conosce, e di conoscerla per chi non ne ha mai sentito parlare.
E’ l’epopea, forse, di una classe, di un paese e di una città intera, Milano, quella Milano che voglio non vedere mai morta e sempre rinascere con quello che veramente è nel profondo, e che ho imparato nel tempo ad amare. Anche grazie al lucchese Della Mea. E’ la storia di questo paese dal fascismo alla Resistenza, dal dopoguerra alle stragi di stato. E’ la storia di una città operaia vista dalla parte della “Ringhera”, le case di ringhiera della Milano popolare (ed ora, spesso, trasformate in abitazioni da “fighettume” di merda…), la cui gente assurge a simbolo di tutti coloro che hanno lottato e che non si sono mai arresi.
E’ la storia di un uomo e di una donna che cade vittima di una strage fascista, quella di Brescia del 28 maggio 1974. Una di quelle stragi che vorrebbero farci dimenticare, non sapendo che qualcuno ci sarà sempre a tenere accesa la memoria. Voglio essere e sono uno di queste persone. Non intendo abdicare mai. Ora e sempre non solo Resistenza: ora e sempre memoria.
Il testo di “Ringhera” è composito e suddiviso in parti ben precise: Un’introduzione, una prima parte dedicata alla vicenda della Guerra di Spagna e una seconda dedicata alla strage di Brescia. E’ in milanese inframezzato con frequenti parti in italiano (e un ritornello in spagnolo, ripreso dal “Quinto regimiento”). Non ritengo opportuno inserire una traduzione per la comprensione abbastanza agevole del testo.

Ho già “postato” (affisso, si dovrebbe dire?) su questo blog il testo e la registrazione di Ringhera commemorando la morte di Ivan Della Mea: Ma è meglio per tutti se la riporto di nuovo.

“El dieciocho día de julio
en el patio de un convento,
el dieciocho día de julio
en el patio de un convento
el Partido Comunista
fundó el Quinto Regimiento,
el Partido Comunista
fundó el Quinto Regimiento.

El desdott del mes de luj
int el chioster del convent,
el desdott del mes de luj
int el chioster del convent
i compagn de la ringhera
han faa su el so regiment,
i compagn de la ringhera
han faa su el so regiment.

E tira su la bandera,
la nostra Spagna è già rossa
l’è ‘rivada la ringhera,
fazolett giò ne la fossa,
E tira su la bandera,
la nostra Spagna è già rossa
l’è ‘rivada la ringhera,
fazolett giò ne la fossa.

Luu el g’aveva desdott an
desdott ann, ma de ringhèra,
desdott ann, ma de speranza,
tuta rossa de bandera.

La morosa la zigava,
la diseva “Resta in cà “,
luu la varda: “Devo andare.”
“Devi andare, e allora va’.”

L’ha basada, ribasada,
la rideva: che magon,
lee ghe pianta ‘na sgagnada
e la sara su el porton.

E la bàtera de ringhèra
tuta insema ‘riva in Spagna,
‘riva cont la so bandera
bela rossa e sensa cragna.

El dieciocho día de julio
en el patio de un convento,
el Partido Comunista
fundó el Quinto Regimiento.
El desdott del mes de luj
int el chioster del convent,
i compagn de la ringhera
han faa su el so regimént.

E tira su la bandera,
la nostra Spagna è già rossa
l’è ‘rivada la ringhera,
fazolett giò néla fossa,
E tira süü la bandèra,
la nostra Spagna è già rossa
l’è rivada la Ringhèra,
fazolett giò néla fossa.

Dopo Spagna, la montagna,
ohè, morosa, su, pazienza,
la ringhera, la bandera
la se ciama Resistenza.

Ariva el giorno della festa,
‘riva el venticinque aprile,
la ringhera torna a cà,
la morosa l’è in cortile.

L’ha basada, ribasada
la piangeva, la taseva,
e poeu luu l’ha sgagnada,
l’è scapada tuta ‘legra.

E poeu dopo, ma per trent’ann
operari alla catena,
e poeu dopo, ma per trent’ann
giò in sezion cont la ringhera

A l’han trovaa ch’el cantava
tra i maton e pièn de tèra,
la sezion l’era ‘ndada:
una bomba tuta nera

di fascista, e luu’l cantava
la canzon de la ringhera
e in man, rent a i man
l’ultim tocch ross de bandera.

E ‘l cantava, luu l’cantava
la canzon de la ringhera,
e…”
“El desdott del mes de luj
int el chioster de on convent,
el desdott del mes de luj
int el chioster de on convent
i compagn de la ringhera
han faa su el so regiment,
i compagn de la ringhera
han faa su el so regiment.

E tira su la bandera,
la nostra Spagna è già rossa
l’è ‘rivada la ringhera,
fazolett giò ne la fossa.

Quanta gent che gh’è in piassa
coi compagn de la ringhera
e gh’è anca la morosa,
cont el tocch ross de bandèra.

E che acqua, “ven chi sota,
ven chi sota ma de prescia”,
Urla Brescia, urla e scoppia,
‘na fiamada e la morosa

a l’è morta, tuta morta
mezz al fum col sang per tèra
e in man, ‘renta a i man
l’ultim tocch ross de bandera.

L’ha basada, ribasada
la taseva, la taseva
e alùra l’ha vardada
l’era bianca, e rossa…l’era.

Ross de sang ch’el se squaja
ne la pioggia disperada,
e la mort che la sgagna
tuta intorna on pò stranida.

E la rabia disarmada,
Brescia piange la ringhera
torna a casa senza dona
senza el tocch ross de bandèra…e…

Il ventotto, ma di maggio
i compagn de la ringhera
han gridato: “Su coraggio,
riprendiamo la bandiera.”

E mattone su mattone
han rifatto la sezione
ogni pietra era un colpo
ma sul muso del padrone.

Han rimesso i vecchi panni
quelli cari della Spagna
hanno ritrovato il passo,
quello duro di montagna.

E cantando la canzone
la più bella, la più vera,
e cantando la canzone
la più bella, la più vera
torna in marcia ‘n’altra volta
tuta insèma la ringhera,
torna in marcia ‘n’altra volta
tuta insèma la ringhera.

E tira su la bandera
l’Italia si farà rossa
l’è ‘rivada la ringhera
fazolett giò ne la fossa.

E tira su la bandera
l’Italia si farà rossa
l’è ‘rivada la ringhera
fazolett giò ne la fossa.

E tira su la bandera!
E tira su la bandera!
E tira su la bandera!
E tira su la bandèra! “

Ancora su Piazza Fontana: Corrado Stajano e Goffredo Fofi

Intervengo di nuovo sull’argomento, non con parole mie ma con 2 interventi comparsi sulla stampa, che riproduco per comodità dei lettori del blog e perché ho visto che non è poi così semplice trovarli in rete.

I funerali

cinquantamila.corriere.it

Il primo è di Corrado Stajano, un cronista “storico” delle vicende di quegli anni. Condivido appieno il suo punto di vista e mi rammarico di non poter leggere che cosa scriverebbero Marco Nozza, Giorgio Bocca e Camilla Cederna, che furono anch’essi protagonisti della battaglia civile di quegli anni (e mi immagino Stajano lì a fare gesti apotropaici!).

Dalle due bombe a Lotta Continua. Su Piazza Fontana buchi e forzature

CORRADO STAJANO – Corriere della Sera | 28 Marzo 2012

Nel film di Giordana episodi non verificabili. E manca la passione di quegli anni

Furono anni torbidi, furono anche anni fervidi. La strage di piazza Fontana, per Milano e per l’intero Paese, fu una ferita profonda. Ma la città seppe resistere rivelando il meglio di se stessa. Basta guardare ancora una volta le immagini dei funerali delle vittime, in piazza del Duomo, tre giorni dopo la bomba nel salone della Banca nazionale dell’agricoltura che aveva lo scopo di distruggere le fondamenta della Repubblica e della Costituzione. La piazza, quella mattina, era color del piombo fuso, la copriva una cappa di nebbia, rotta soltanto dalla fioca luce dei lampioni che rischiaravano un poco la marea di donne e di uomini sgomenti di dolore. Dalle fabbriche di Sesto San Giovanni arrivarono a migliaia le tute bianche della Pirelli, le tute blu della Breda, della Magneti Marelli, della Falck che fecero da servizio d’ordine. La borghesia consapevole e la classe operaia formarono allora, con la serietà dei momenti gravi, un corpo unico nella città affratellata. Il possibile golpe, si può dire, fallì quel giorno.
Non deve esser stato facile per Marco Tullio Giordana, il regista dei Cento passi e della Meglio gioventù, rappresentare, quasi mezzo secolo dopo, con il suo Romanzo di una strage, quel che avvenne in quei giorni e in quegli anni, la macelleria dei corpi, il sangue, le trame eversive, le collusioni e i tradimenti di chi aveva il dovere di tutelare la Repubblica e complottò invece per abbatterla e dar vita a uno Stato autoritario.
12 dicembre 1969, la strage. 15 dicembre 1969, l’arresto di Pietro Valpreda e la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, la diciottesima vittima. Il commissario Luigi Calabresi è nel film il vero protagonista; un eroe, è stato detto, l’uomo che aveva capito la verità. Nel 1972 sarà la vittima innocente dello spirito di violenza, ma quella notte in Questura, davanti a cinque giornalisti, il suo comportamento non fu diverso da quello dei suoi superiori.
La stanza del questore Guida sembrava più un morbido salotto che un ufficio di polizia. Esordì così, Guida, che nel 1942 era stato direttore del confino politico fascista di Ventotene: «Gravemente indiziato di concorso in strage, Pinelli aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l’interrogatorio per andare a riferire. Nella stanza si stava parlando d’altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo e si slanciò nel vuoto. Il suicidio è una evidente autoaccusa».
Un giornalista chiese chi era Pinelli. Rispose Calabresi: «Sembrava un uomo incapace di ricorrere alla violenza, un uomo tranquillo, ma i suoi rapporti, le sue implicazioni politiche dovevano rivelare il contrario». Chiese un altro giornalista qual era stata l’ultima domanda a Pinelli, quali le ultime cose dette e se esistevano i verbali. Nessuno rispose, senza mostrare imbarazzo. Il giornalista ripeté la domanda, Guida disse allora che l’interrogatorio non comprometteva altre persone. «Era stato convalidato dalla magistratura il fermo che durava da 72 ore?» domandò un altro giornalista. Il questore rispose impudentemente di sì, poi parlò d’altro. Uno dei cinque giornalisti chiese a Calabresi come mai non era sceso in cortile a vedere Pinelli. Di nuovo silenzio.
A colpire, in quella notte difficile da dimenticare, era la percezione che quegli uomini dello Stato non mostrassero neppure un moto di amarezza e di dolore per la morte di un uomo entrato da libero cittadino in Questura e uscito morto. Erano responsabili della sua vita: cinque uomini, in una piccola stanza, non riuscirono a impedirgli di buttarsi dalla finestra lasciata aperta?
Calabresi è stato giudicato innocente dalle inchieste della magistratura. Ma esiste soltanto la responsabilità penale? Si avvertiva quella notte una sottile euforia: la pratica Pinelli era chiusa e con quella morte poteva chiudersi anche la pratica più grossa, la strage.
La città, la società, nel film di Giordana, sono assenti, come le atmosfere di allora. Non c’è traccia del conflitto tra innocentisti e colpevolisti, profondo, e neppure dei tentativi appassionati dell’altra Italia alla ricerca della verità, diversa da quella ufficiale. Ci sono molti buchi nel racconto. Non si sa quasi nulla di Pietro Valpreda, il predestinato capro espiatorio della tragedia. Non sono sufficienti, poi, quei ritagli del giornale e poche scritte sui muri per rendere l’ossessiva campagna denigratoria di Lotta Continua contro Calabresi accusato di essere l’assassino di Pinelli.
Il film gioca di continuo, pericolosamente, tra realismo e finzione. È «liberamente tratto» dal librone di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, ambiguo, con fonti non verificabili.
Moro, il ministro degli Esteri di allora, impeccabilmente interpretato da Fabrizio Gifuni, ha una parte sovrabbondante, un jolly utile per raccontare ciò che serve, ma chi visse il dramma della strategia della tensione non fu mai a conoscenza di quella scelta così progressista di Moro, del suo misterioso dossier che svelava il carattere golpista e neofascista della strage, mostrato a Saragat.
Nel film, Federico Umberto D’Amato, a capo degli Affari riservati, offre a Calabresi di diventare il suo braccio destro al Viminale e fa assurde rivelazioni che ancora una volta stravolgono quel che si sa dagli atti dei processi, dalle inchieste, non poche, di quegli anni. Un altro scoop, poi: furono due i taxi e due le bombe scoppiate in quel tragico buco della banca. Una rossa, gentile, solo per spaventare un po’, portata da Valpreda; e una nera, per uccidere e dare avvio allo stato di emergenza, portata da Sottosanti, il sosia. La fonte? Cucchiarelli, a pag. 641 del suo libro. Di nuovo i doppi estremismi, le piste rosse e quelle nere.
Un gran garbuglio reso ancor più fosco mezzo secolo dopo, tra mister X, legionari e spioni, trafficanti di armi e di esplosivi, la Grecia dei colonnelli, gli infiltrati ovunque, i partiti, tutti, informati e silenti, gli uomini dello Stato dal doppio o triplo gioco.
I ragazzi che non sanno cosa sia successo nel pomeriggio di tanti anni fa in quella banca di Milano, vicina all’Arcivescovado, non avranno da questo film lumi per capire.
Giustizia non è stata fatta. Lo Stato non ha avuto la forza e il coraggio di processare se stesso. Dopo 11 processi di condanna, 4 giudizi in Cassazione, apposizioni del segreto politico-militare, la serranda della legge è calata il 3 maggio 2005: tutti assolti, strage senza colpevoli, i parenti delle vittime condannati a pagare le spese di giudizio.
La verità storica e politica, a ogni modo, è chiara. Sono ben documentati, con le responsabilità della destra neofascista veneta, le complicità e i depistaggi dei servizi di sicurezza e soprattutto dell’Ufficio Affari riservati.
Peccato, bisogna dirlo con amarezza, che in questo smisurato film un po’ asettico non si ritrovino né la passione né le emozioni di quegli anni infuocati.

Il secondo è di Goffredo Fofi (che in quegli anni scriveva su Quaderni piacentini feroci recensioni cinematografiche, poi raccolte – mi pare di ricordare – nell’ormai quasi introvabile Il cinema italiano: servi e padroni).

Il cinema italiano: servi e padroni

hobbylibri.com

Il Sole 24 ore 1 aprile 2012

Il telefilm della bomba
Marco Tullio Giordana non è riuscito a fare, nonostante i mezzi, un lavoro decente su Piazza Fontana.

Un male comune…

di Goffredo Fofi

Rimando volentieri alla più saggia delle possibili stroncature politiche del film di Marco Tullio Giordana, scritta qualche giorno fa da Corrado Stajano sul «Corriere della sera». Le incongruenze e gli opportunismi che segnano la ricostruzione della strage di piazza Fontana e i suoi retroscena, operata dal regista con i suoi due sceneggiatori (già autori con lui di un film non eccelso ma onesto su illusioni e sconfitte della generazione del ’68, La meglio gioventù) a partire da un libro dove le illazioni dominano, vi sono elencati con ferma convinzione e non scivolano nell’opinione ma si attengono al concreto dei fatti dimostrati e dimostrabili. Piuttosto che lanciarci nelle diatribe sul vero e sul falso e sul probabile che il film sta scatenando, per la maggior parte opinabili, diciamo subito che il film in sé non merita molta attenzione né molto riguardo e che a noi preme, da critici, rilevarne i limiti in quanto film, e più che i limiti la sostanza e l’idealità della fattura.

Invece che di “romanzo” e di film bisognerebbe, per cominciare, parlare di «docufiction» o di «telefilm» dei più rozzi, nonostante i mezzi a disposizione. E bisognerebbe anzitutto fare il paragone con le altre ventate non di televisione ma di cinema detto politico presenti nella nostra tradizione. Il neorealismo e la commedia o tragedia degli anni del boom e successivi furono in presa diretta su un presente da raccontare scavare discutere, e quando fu possibile, dal 1959 in avanti, vennero tentate anche operazioni di ricostruzione storica di grande portata (dopo La grande guerra, dopo Tutti a casa) dettate dal bisogno di spiegarsi e spiegare le radici del presente. Ho visto più volte un film su un episodio di estrema delicatezza nella nostra storia, Il processo di Verona, diretto da Lizzani e scritto da Pirro, ammirandone ogni volta di più la precisione e la misura. E ho visto, anche questo con il massimo interesse, il lavoro televisivo francese in più puntate di Olivier Assayas sul terrorista Carlos, e cioè su argomenti almeno altrettanto difficili di piazza Fontana, più vicini a noi e perfino più scabrosi da raccontare. Ci si chiede dunque come mai il cinema e la televisione italiana non siano in grado di proporre altro che panettoni da povero pamphlet giornalistico, al posto di un buon cinema e -perché no, se altrove è possibile? – di una buona televisione. E duro è individuare colpe che riguardano alla fine un po’ tutti – una complicità molto diffusa, benché diversificata – ma in primo luogo i nostri media maggiori. Il cinema politico non è servito, in Italia e, mi pare, neanche altrove, a migliorare la coscienza civile degli spettatori, ma semmai, a seconda delle parti, a sollecitare le loro false coscienze di “buoni” in un mondo di “cattivi”. Ma come è stato possibile che, quindici-vent’anni dopo i fatti (una dittatura, una guerra mondiale, due anni di guerra civile…) il nostro cinema riuscisse a dare dei grandi film civili, e che a più di quarant’anni dagli anni più caldi della nostra storia democratica non sia ancora possibile raccontare la crisi espressa e provocata dal ’68 con uno sguardo sufficientemente limpido, sia pure non di maggioranza? Non ponendosi, come pretende ipocritamente la televisione, e come è impossibile fare, «al di sopra delle parti». Com’è che artisti, intellettuali e profe ssionisti delle comunicazioni di massa, dei settori più ufficiali di esse, non riescano mai 0 quasi mai a raccontare degnamente il tempo passato e a essere all’altezza dei problemi di questo, che dei primi ha ereditato il peggio? Com’è possibile che ci si possa accontentare di parodie di ricostruzione storica come questa, da opera dei pupi, da filodrammatica e da sceneggiata, da museo delle cere, da gara paesana di imitatori, tra santini e macchiette e tra opposti buoni e i  morti non possono più parlare, i vivi che sanno tacciono, i “servizi” – nazionali e internazionali – continuano, come hanno sempre fatto, a insabbiare, a inquinare, a manovrare, i politici a preferire la retorica alla persuasione. E i giornalisti e gli sceneggiatori a scrivere, i registi a filmare, perché, si sa, lo spettacolo deve andare avanti.

Sofri – 43 anni

Sofri, Adriano (2012). 43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film. e-book. 2012.

Ho parlato molte volte di Piazza Fontana, e del significato che quei giorni hanno avuto per me.

Una prima volta, nel giugno del 2007, recensendo Nelle mani giuste di Giancarlo De Cataldo, ho scritto (non mi cito per autocompiacimento, ma perché mi sono accorto rileggendo che tra queste cose, scritte in periodi diversi, c’è un filo conduttore che mi sembra spiegare sia il mio immutato interesse per l’argomento, sia la necessità di tornarci sopra che – evidentemente e per ragioni comprensibili ma non banali – ha evidentemente anche Adriano Sofri):

Una digressione personale: per me, piazza Fontana è una fredda sera d’inverno, mio padre che rientra dall’ufficio in anticipo rispetto ai suoi orari abituali e mi chiede di accompagnarlo a fare un lavoro in cantina, e una volta là sotto mi racconta della bomba e dei morti, e poi mi racconta dell’attentato al cinema Diana nel 1921 (23 marzo: 21 morti e 80 feriti), attribuito agli anarchici ma comunque utilizzato dai fascisti. Imparo che le cose possono essere diverse da quello che sembrano e che ci raccontano la televisione e il Corriere della sera. A scuola si discute del suicidio di Pinelli, della colpevolezza di Valpreda (il mostro), del tassista Rolandi… Non avevo mai pensato, prima, che le istituzioni potessero essere così impunemente e spregiudicatamente parte in causa, che potessero usare questi metodi…

Ci sono tornato sopra pochi mesi dopo, proprio il 12 dicembre, parlando più del momento storico che della mia personale esperienza:

La strage di Piazza Fontana. Un evento che ha segnato la mia generazione (ho già parlato in questo blog dei miei ricordi personali). Avevo 17 anni. Non sono così ingenuo da pensare che un solo evento può segnare lo spartiacque di una vita, di una generazione, della storia di un Paese. Ma più passa il tempo e più sono convinto che quel freddo pomeriggio di dicembre segnò una svolta. Non lo comprendemmo subito, e forse allora non lo capì nessuno: ma con Piazza Fontana si chiuse un capitolo. Quello dell’idea di democrazia progressiva, quello di una trasformazione graduale ma inarrestabile che avrebbe dato più voce e più potere ai lavoratori, sul luogo di lavoro, nella società, nella politica. Quella che, con sfumature diverse, aveva segnato i progetti di Kennedy, di Chruščёv, del Concilio Vaticano II, delle lotte operaie dell’autunno caldo, del 1968. Continuammo a crederci e a lottare, negli anni seguenti. Ma eravamo stati irrimediabilmente sconfitti. Quello che chiamavamo riflusso fu una sconfitta storica. E ne paghiamo ancora il prezzo. Hanno vinto. E non vedo nessuna luce, nessun arcobaleno all’orizzonte.

Anche qui, non mi autocito per puro narcisismo ma perché – Sofri scriveva dopo, nel 2009, ma escludo che gli potesse essere capitato di leggere i miei post – Sofri riprende un’idea analoga nel suo La notte che Pinelli:

Il 12 dicembre fu un giorno – una sera – così. Si sentì che la vita non sarebbe stata più la stessa, che c’era stato un prima, e che cominciava un dopo. Mi servo di questi modi di dire usati, ragazza, benché sappia che quello sbigottimento non si può davvero comunicare. Bisognava esserci, dicono sospirando certi vecchi, certe vecchie scuotendo la testa. E dicono: Tu non puoi capire.
Era un altro mondo, del resto. Quarant’anni fa – quasi il doppio del tempo che separava il 12 dicembre da una guerra mondiale! [p. 16]

Eppure Sofri – e questo lo dice nell’instant book che sto recensendo in questo momento, la pensa diversamente da me su quella sconfitta storica: nel senso che a me è sembrato e sembra tuttora un tragico male – nonostante tutto. e invece a lui (e a Mauro Rostagno) un bene – nonostante tutto.

Farei a Giordana l’obiezione che invece riguarda il suo film, e non la residua dipendenza da un libro sventato. Proprio quella conclusione che addensa attorno alla trama di una “guerra appena cominciata”, dal 12 dicembre all’uccisione di Calabresi, una tal adunata di potenze nere e occulte – la cosa che probabilmente resterà più memorabile per i giovani che andranno a vedere il film – spiega lo stato d’animo dichiarato da Giordana, che “tutto passava sulle nostre teste”. Tutto quello che avvenne allora, tutto quello per cui la sua generazione pensò di battersi, fu giocato sopra la testa sua e della sua generazione da poteri troppo forti e ubiqui. Una piovra, diciamo. Io non sono d’accordo. Se fosse stato davvero così, se tutti, nelle fabbriche, nelle strade, nelle università, nelle galere, fossimo stati giocati da quell’onnipotenza tenebrosa, allora saremmo privati di tutto, anche dei nostri errori e delle nostre colpe. Il mio amico Mauro Rostagno andò a Trento, nel ventennale del ’68 e poco prima d’essere ammazzato. Ci andò e disse: «Meno male che abbiamo perso». Io sono d’accordo. Meno male che abbiamo perso. Però, Giordana, mi voglio tenere la coscienza di avere perso anche da solo, per mio conto, con le mie forze. Di non essere stato espropriato di tutto, anche della benedetta sconfitta, da quella tenebrosa cospirazione. [p. 110]

Ecco, io non sono d’accordo né con Giordana né con Sofri. Ci hanno aiutato a perdere, ma abbiamo perso da soli: in questo darei ragione a Sofri. Ma che abbiamo perso non è stato un bene: per quanti errori abbiamo fatto, per quanti difetti e soprattutto eccessi avessimo, l’aver perso ha consegnato a noi e ai nostri figli un mondo peggiore di quello che avremmo tentato di realizzare. Ma, naturalmente, non c’è prova controfattuale da invocare. E la storia, che non si fa con i se e con i ma, figurarsi se si fa con i nonostante tutto.