Sofri, Adriano (2009). La notte che Pinelli. Palermo: Sellerio. 2009.

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Ho sempre nutrito nei confronti di Sofri sentimenti ambivalenti. Sofri fu per me, negli anni della militanza, il leader di un gruppo diverso dal mio, ma l’unico che per cultura e dialettica sapeva tenere testa a Rossana Rossanda, in un panorama in cui spesso la rozzezza era esibita. Fu per me più che un “maestro” di politica un modello di scrittura: Sofri scriveva e scrive bene, con una retorica sopra le righe ma soltanto di poco. Una scrittura tutto sommato invidiabile e da me anche invidiata, anche per la capacità di piegare sottilmente l’argomentazione a proprio vantaggio, sotto l’apparenza della ragionevolezza e dell’oggettività. E lo si vedrà agevolmente dagli esempi che riporto sotto.
Dico subito che sono convinto che Sofri non sia il mandante del delitto Calabresi, nell’accezione penalmente rilevante del termine. È stato condannato per questo reato con una sentenza passata in giudicato, e la rispetto da bravo cittadino di uno Stato di diritto, ma conservo le mie personali convinzioni, che sono un’altra cosa.
In questo libro, Sofri usa – con riferimento all’omicidio Calabresi – la parola “corresponsabilità”, e naturalmente i giornali ne hanno parlato:
Io ho questo concetto della corresponsabilità: che se qualcuno traduce in atto quello che anch’io ho proclamato a voce alta non posso considerarmene innocente e tanto meno tradito. Ne sono corresponsabile. Solo di questo, del resto, e non di altro. Di nessun atto terroristico degli anni ’70 mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, “Calabresi sarai suicidato”. [pp. 213-214]
Qui Sofri sembra dimenticare un dettaglio: anch’io forse ho gridato in qualche corteo “Calabresi sarai suicidato” insieme a qualche altra frase cruenta sui fascisti e i celerini, ma io non ero il leader carismatico di un gruppo importante e questo cambia quanto meno il peso della nostra comune corresponsabilità. Sofri se ne avvede qualche pagina dopo e dice che “la campagna condotta da Lotta Continua contro Calabresi tra il 1970 e il 1972 (non mi importa dei molti altri concorrenti) fu un linciaggio moralmente responsabile, benché nient’affatto penalmente, della morte di Calabresi.” [pp. 215-216]
Al di là di questo punto, che tutti i giornali hanno ripreso, il libro è interessante per alcune altre considerazioni e ricostruzioni storiche (che non condivido del tutto, ma che contengono pezzi importanti di verità).
La prima riguarda la pratica e la grammatica della violenza:
Il vizio d’origine della nostra iniziazione rivoluzionaria – nostra, cioè di quelli della mia generazione che si sentirono rivoluzionari – derivò dal trovarci di fronte un vasto schieramento politico e sindacale che agiva di fatto all’interno dei rapporti sociali e della democrazia politica «borghesi», ma continuando a parlare un linguaggio sovversivo. C’era una sproporzione scandalosa fra le parole e i fatti di quella sinistra «ufficiale». Non solo: ma poiché gli uomini tengono più alle parole che ai fatti, e a quelle restano più tenacemente fedeli, e dal tradimento di quelle si sentono più intimamente feriti, quando voci autorevoli dentro la sinistra ufficiale azzardavano sortite verbali che provassero a ridurre la distanza fra l’ideologia e la pratica, il loro isolamento si faceva più forte. Era così per la «destra» del Pci, o prima ancora per il Psi e la sua aspirazione governativa, o per il sindacalismo più «riformista» (più riformista che riformatore, del resto). Le burocrazie dirigenti della sinistra storica e i loro capi tenevano in ostaggio la «base» con la continuità di un linguaggio, ed erano a loro volta ostaggi dell’irriducibilità di quella base a nuove musiche e nuove parole. Questo reciproco sequestro era l’ortodossia. Quando arrivò per una buona parte della nostra generazione il turno di entrare in scena, sospinta da una congiuntura internazionale senza precedenti, lo scandalo morale per la «doppiezza» della sinistra ufficiale, la scissione plateale fra teoria e pratica, si tradusse in una tensione urgente a colmare quel divario dal lato della pratica, dell’azione. Il volontarismo attivistico fu la caratteristica saliente di quel nuovo estremismo giovanile, quando non si lasciò irrigidire dal dogmatismo ideologico. La distanza fra le parole e i fatti – il binario doppio, la simulazione rivoluzionaria e la pratica del quieto convivere – volemmo sanarla rieducando i fatti a corrispondere alle parole, cercando nell’azione la coerenza rinnegata. Questo valeva anche, e anzi a maggior ragione, per la questione della violenza. Il retaggio della violenza popolare, creduta necessaria, perché contrapposta alla violenza di tiranni padroni e sfruttatori, e giusta, perché emancipatrice da una abitudine alla servitù e al gregarismo, della violenza difensiva e della violenza levatrice di una storia nuova e di un uomo nuovo, questo retaggio era ben più antico e radicato del movimento operaio e del marxismo, c scendeva dal tronco della rivoluzione francese e dai rami del patriottismo risorgimentale e, fin nello stesso Sessantotto, della ribellione cattolica al privilegio e al potere. Piuttosto che rimettere in discussione le parole, noi le riprendemmo e le rincarammo, come si raccoglie e si agita più fieramente una bandiera abbandonata nella fuga, e ci addestrammo a corrisponder loro nell’azione. Per molto tempo la nostra verità di rivoluzionari di fronte alla moneta falsa di chi continuava a scrivere la parola rivoluzione sulla targhetta del suo ufficio ma guardandosi bene dal perseguirla nella vita, consistette anche in una mezzo comica mezzo patetica gara all’oltranza delle parole: e se gli altri gridavano Vietnam libero noi gridavamo Vietnam rosso, e se chiedevano il Disarmo della polizia in servizio di ordine pubblico (potresti immaginare che alla vigilia della strage di piazza Fontana si stava per votare questa misura?) noi chiedevamo il Fucile agli operai. Era un gioco di quelli che prendono la mano. Le parole sono indulgenti, permettono un’oltranza infinita, al riparo dal passaggio al fatto. Le parole non sono pietre. Ma sono anche esigenti, e perfino esose, e a furia di sentirsi pronunciare e scandire e gridare presentano un loro conto. Le pietre non sono parole – ti rinfacciano a quel punto. E da lì in poi qualcuno non resta più al di qua del riparo, passa la linea che le separa dai loro fatti. «Seguile, le tue parole, fino al punto in cui trapassano nei loro fatti». E chi oltrepassa quella linea, può essere semplicemente uno manesco, uno che ha avuto un’infanzia cupa, uno più frustrato o più fanatico; ma può anche essere uno dei migliori, uno che si costringe a fare quello che tutti proclamano doveroso fare, tenendosene al di qua, per viltà o pusillanimità o qualche altra debolezza. Di queste due genie di uomini (e di donne), e della gamma di sfumature che conduce dall’una all’altra, sono fatte le minoranze che nei tempi tempestosi prendono il primo piano, e possono trovarsi dalla parte giusta e dalla parte sbagliata, e diventare eroi popolari o terroristi messi al bando, e naturalmente la differenza fra la parte giusta e sbagliata è molto importante, e ancora di più la differenza fra la stagione della guerra vera e la stagione della guerra inventata, ma differenze così importanti non cancellano del tutto l’affinità. [pp. 210-213; questo è il brano che precede immediatamente quello sulla corresponsabilità, che ho citato sopra]
La seconda riguarda il rapporto tra il contesto e il senno di poi:
Quando pensiamo di essere diventati più saggi e sereni, forse abbiamo solo sostituito un pregiudizio con un altro pregiudizio. Senno di poi. Ma io non disprezzo affatto il senno di poi: ne viviamo.
Le bugie scoperte tali e le contraddizioni grossolane di quei giorni conservano intero il loro effetto. Allora, che cosa c’è di diverso oggi che mi fa propendere per una risposta diversa? Molto poco, o moltissimo. Una migliore e più distante conoscenza delle carte, certo: nel mio caso, la conoscenza tout court, che ho cercato ora di rendere scrupolosa, mentre allora non mi occupavo di questo, e non le lessi affatto. Ma soprattutto la differenza fra il nostro modo di pensare di allora e quello di oggi. Una febbre da cui siamo sfebbrati: ci faceva vedere cose che non vediamo più. A un prezzo, anche: di non riuscire più a ricordare e trasmettere la nostra commozione di allora.
Però non è vero che il venire dopo, e il sapere – o credere di sapere – sia solo un vantaggio. C’è sempre un conflitto fra il contesto e il senno di poi. Fra gli attori e i testimoni diretti, e quelli che vengono dopo, fra la memoria e la storia. Il contesto è il rifugio dei farabutti, che lo invocano a giustificazione delle malefatte. Ma è anche il criterio irrinunciabile all’intelligenza delle cose. Il senno di poi può permettersi una più serena e compiuta conoscenza, ma gli piace dimenticarlo, il contesto, e giudicare da maramaldo. È questo squilibrio a tenere aperta la lacerazione del dopoguerra e della cosiddetta guerra civile, a distanza di sessant’anni e passa. E a tenere altrettanto aperte, se non addirittura a esacerbare, le ferite intitolate agli anni ’70 e già questo è strano, quando si parla di una strage del 1969. [pp. 189-190]
giovedì, 5 febbraio 2009 alle 19:44
[…] prima che uscisse, quanto poco letto dopo. Ma in realtà, sul web, di recensioni se ne sono viste diverse (e quella scritta qui è sinceramente poco cosa, al […]
domenica, 1 aprile 2012 alle 21:10
[…] Anche qui, non mi autocito per puro narcisismo ma perché – Sofri scriveva dopo, nel 2009, ma escludo che gli potesse essere capitato di leggere i miei post – Sofri riprende un’idea analoga nel suo La notte che Pinelli: […]
venerdì, 12 dicembre 2014 alle 17:14
[…] anniversario della strage, alla fine di gennaio del 2009 recensendo un libro di Adriano Sofri (La notte che Pinelli) e ancora con un cluster di interventi in occasione delle polemiche che accompagnarono, […]
giovedì, 12 dicembre 2019 alle 17:42
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