Rumeni e Rom: un’altra puntata

Mi sembra importante anche l’intervento di Alessandro Portelli su il manifesto del 6 novembre 2007.

Aggiungo soltanto una modesta osservazione mia: ma la sicurezza, come se ne sta discutendo ora, non è anche (o soprattutto) una questione di percezione soggettiva? E come possiamo sentirci sicuri se stampa e media non fanno che “pompare” le nostre paure più irrazionali?

Stato etnico

Romeni e purosangue

Alessandro Portelli

Nella sua autobiografia, Black Boy, Richard Wright ricorda la paura con cui cresceva un ragazzo nero nel Sud razzista degli Stati uniti: ogni volta che succedeva qualche cosa, scrive, «non era un crimine commesso da un nero, ma dai neri». Tutti i neri erano colpevoli, qualunque nero andava punito, e la forma della punizione era il linciaggio. Ai linciaggi ci siamo arrivati. Il delitto di Tor di Quinto non è stato commesso da un rumeno, ma dai rumeni. E dieci cittadini italiani purosangue, con coltelli e bastoni, e incappucciati come il Ku Klux Klan, fanno giustizia a Tor Bella Monaca. Ed è inutile condannare queste cose a posteriori, bisogna pensarci prima alle conseguenze di certi discorsi. Ma è ben avviato sulla strada della punizione collettiva, a colpevoli e innocenti indiscriminatamente, anche lo sbaraccamento del campo di Tor di Quinto; è una punizione collettiva e preventiva il «trasferimento» dei rom oltre il raccordo anulare, spostare il problema un po’ più in là, come la polvere sotto il tappeto. Perché è vero che il problema esiste, non nascondiamoci dietro un dito.
L’associazione che gestisce un campo sportivo accanto al terreno di Tor di Quinto da anni denunciava furti continui, scriveva al sindaco e non riceveva risposta. La Romania (ma non era l’Albania, fino a qualche mese fa?) europea e democratica liberatasi dal comunismo non ci ha mandato soltanto il meglio di sé, come d’altronde l’Italia dell’emigrazione non ha mandato e non manda soltanto il meglio di sé in America o in Germania. Le migrazioni sono fiumi che si portano appresso anche un sacco di detriti, e non c’è diga che tenga. Ed è vero che la sicurezza è un requisito importante della vita civile, un diritto democratico: di che altro parlavano le donne che, almeno trent’anni fa, prima che ci fossero albanesi o rumeni a Roma, manifestavano con lo slogan «riprendiamoci la notte»? Ha detto il segretario del Partito Democratico che la sicurezza non è né di destra né di sinistra. Giusto. Però sono di destra o di sinistra le definizioni che ne diamo, e le risposte che proponiamo. Tutte e tutti abbiamo il diritto di uscire da una stazione di sera senza avere paura; ma tutte e tutti abbiamo anche il diritto di non essere ammazzati in carcere a Perugia o a Ferrara, di manifestare senza finire torturati a Bolzaneto. Certo, per le persone ordinarie il rischio di strada è più immediato e concreto del rischio in carcere o in piazza; ma c’è uno scivolamento pericoloso, quando lo stato che chiamiamo a garantirci la sicurezza dai crimini dei marginali si considera al di sopra delle leggi e delle inchieste. Tanto che uno esita prima di dire che, in certi luoghi e in certi tempi, prima che i delitti avvengano, ci vorrebbe più polizia (polizia, dico: non vigilantes privati). Io non so se sarebbe stato di destra o di sinistra illuminare meglio quella strada e quella stazione (quelle stazioni: io e la mia famiglia frequentavamo quella successiva, a Grottarossa, e avevamo paura di scendere la sera, anche se non c’erano ancora rumeni nei dintorni).
Fra l’altro, sono convinto che l’abbandono è anche conseguenza (di destra o di sinistra?) della rinuncia a fare delle ferrovie urbane una seria alternativa al feticcio automobile, ma questa è anche un’altra storia. E non so se sarebbe di destra o di sinistra accorgersi prima che sia troppo tardi delle condizioni criminogene in cui vivono migliaia di nostri concittadini europei, e fare qualcosa per i diritti umani di quella maggioranza di loro che non è venuta qui per delinquere. Anche loro hanno diritto alla sicurezza. Dopo il linciaggio di Tor Bella Monaca, il ministro degli interni Amato dice, «è quello che temevo»; il prefetto di Roma, Mosca, dice, «era quello che temevamo». Bene: che cosa avete fatto per prevenirlo?
E poi, ovviamente, la punizione ci vuole: personale e col dovuto processo di legge, non collettiva e vendicativa; ma ci vuole. Stavolta, anche grazie all’aiuto di una donna del campo, il colpevole è già in prigione e sconterà la giusta pena, con la dovuta certezza. Ma gridare al «pugno duro» è infantile e strumentale. Sappiamo benissimo, e se ne stanno accorgendo persino gli Stati uniti, che nemmeno la pena di morte fa veramente da deterrente alla criminalità. Inseguire la destra sul piano della repressione è come la corsa di Achille e la tartaruga: loro stanno sempre un po’ più in là, un po’ oltre. Più parliamo il loro linguaggio, più facciamo propaganda alle loro idee, più gli prepariamo la rivincita. Se non vogliamo ritrovarci, come da più parti già si annuncia, con Fini sindaco di Roma, proviamo a fare nostre le sagge e preoccupate parole di Stefano Rodotà: «Serve davvero, con ‘necessità e urgenza’, un’altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di ‘bestie’ o invoca metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere la ‘fabbrica della paura’. È il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce».

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11 novembre – San Martino e i cornuti

San Martino è uno di quei santi altomedievali che, a dar retta alle leggende e all’agiografia, hanno fatto di tutto. La storia che ho imparato, come molti miei coetanei, alle elementari è soltanto una delle tante che si narrano di lui nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze.

Martino suona come Martem tenens, “che tiene Marte”, cioè la guerra, contro i vizi e i peccati […].

Martino era originario di Sabaria, una città della Pannonia, ma crebbe in Italia, a Pavia, con suo padre, che era comandante nell’esercito. Lui stesso fu soldato, ai tempi di Costantino e di Giuliano, ma non di sua spontanea volontà, poiché già da bambino era ispirato dal Signore. All’età di dodici anni scappò, contro la volontà dei parenti, in una chiesa e domandò di divenire catecumeno, e si sarebbe anche ritirato nel deserto già allora, se non l’avesse impedito la sua debolezza di costituzione […].

Un giorno d’inverno, mentre passava per la porta d’Amiens, gli si fece incontro un povero completamente nudo, che non aveva ancora ricevuto nulla da nessuno. Martino capì che il povero era stato conservato per lui. Prese allora la spada e divise in due parti la clamide che portava addosso: una la dette al povero, e si coprì con la parte che avanzava. La notte seguente gli apparve Cristo vestito con la parte della clamide con cui aveva coperto il povero, e Martino intese che diceva agli angeli:

– Martino, che è ancora catecumeno, mi ha coperto con questa veste (Iacopo da Varazze. Legenda Aurea. Torino: Einaudi. 1995 p. 908).

L’affresco è di Simone Martini.

San Martino era anche (questo sul versante rurale della mia infanzia) il giorno dei traslochi. Era la data – prescelta perché si collocava opportunamente al termine dell’annata agraria, dopo la vendemmia e la spannocchiatura del granturco, prima dei rigori invernali, quando si entrava in una fase di pausa delle attività dell’agricoltura ed era possibile procedere a cambiamenti che nel normale regime produttivo sarebbero stati inopportuni – in cui giungevano a scadenza i contratti, che potevano essere rinnovati o disdetti. Quest’ultimo caso era spesso traumatico: con la disdetta (licenziamento e sfratto) da parte dei proprietari, i contadini dovevano cercare in altre cascine lavoro e sistemazione. Si vedevano interi nuclei familiari che migravano, in una parentesi di presunta bella stagione, con le proprie povere cose caricate su un carro. La scena è rappresentata in Novecento di Bernardo Bertolucci. Far San Martino significa ormai, semplicemente, “traslocare”.

Qui sotto, un San Martino al Vho di Piadena (Cremona), nel 1962!

A parte l’estate di San Martino (per non far venire un accidente né a San Martino, né al povero/Cristo, il tempo sarebbe divenuto miracolosamente estivo), il santo è legato nelle tradizioni popolari padane a molti proverbi (traduco alla bell’e meglio):

  • Per San Martino, tutto il mosto è vino.
  • Chi pota a San Martino, guadagna pane e vino
  • A San Martino / imbottiglia il vino / per Natale / comincia ad assaggiarlo (A San Martin, stòpa al tò vìn, par Nadàl, cumincia a tastàl)
  • L’estate di San Martino dura tre giorni e un pochino
  • Se vuoi fare più fieno del tuo vicino concima il prato prima di San Martino
  • Se vuoi far invidia al tuo vicino, pianta l’aglio per San Martino

Poi, naturalmente, la poesia di Carducci (resa celebre dal karaoke di Fiorello):

La nebbia a gl’irti colli
piovvigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir dei tini
va l’aspro odor dei vini
l’anime a rallegrar.

Gira sui ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.

Poi mi sono trasferito a Roma e ho appreso che San Martino è il protettore dei cornuti. Secondo alcuni, le numerose fiere del bestiame che si tenevano in questo periodo erano occasione di adulterio; secondo altri, sopravviveva in questo periodo una festa carnascialesca piuttosto licenziosa. A Roccagorga (Latina), dove si tiene una “festa dei cornuti”, si consuma la tradizionale zuppa “rappacornuti” (calma-cornuti) che, mantenendosi calda per ore, consentiva alle mogli di dedicarsi ad attività alternative alla preparazione dei pasti…

Secondo altri, all’origine del patrocinio c’è la gelosia del futuro santo, che si portava sulle spalle la sorella per evitare che cadesse preda dei vogliosi concittadini (San Martino se purtava ‘a sora ncuollo): invano, pare. Ma la vicenda non è attestata dalla Legenda aurea. Anche a Ruviano (Caserta) si tiene l’11 novembre una festa dei cornuti (qui sotto).

Secondo la tradizione romana i cornuti si dividono in 5 specie (Aricordateve che li cornuti si dividono in 5 specie: Becchi, Cuccubboni, Becconi, Tribecchi e Calidoni):

  1. Li Becchi so’ quelli che nun ce lo sanno d’essere
  2. Li Cuccubboni ce lo sanno e tireno a campa’ pe’ quieto vive
  3. Li Becconi ce magneno sopra
  4. Er Tribbecco è quello che porta l’amico a casa sua e se squaja co’ na scusa
  5. Er Calidone poi è quello che porta lo stendardo ne’ la processione de San Martino: è quello che accompagna la moje a casa de l’amico.

Giusto per risollevarsi culturalmente: secondo un dotto intervento di Arturo Graf, San Martino era associato a San Giuliano come santo protettore e procacciatore di buon albergo (che nel Medioevo, per tradizione d’ospitalità e obbligo di cortesia, comportava la stanza, la tavola e anche una compagna di letto per la notte, spesso la moglie dell’ospite, che diveniva così cornuto per dovere): “non si vede quale ragione potesse indurre il volgo credente in Francia a prendersi una confidenza in tutto simile con San Martino, se non si ammette che, essendo San Martino un santo molto popolare e bonario, il popolo poté credersi licenziato a ricorrere al suo patrocinio anche in casi nei quali l’ajuto dei santi non pare troppo a proposito. Fatto sta che ostel saint Martin significò quel medesimo che ostel saint Julien“. Mi pare che l’esistenza di un comune di San Martino Buon Albergo (alle porte di Verona) confermi il rapporto tra Martino e l’ospitalità. Di qui alla protezione dei cornuti in generale, il passo mi sembra breve.