Le benevole merita un supplemento e una riflessione, in questi tempi in cui percorrono l’Italia venticelli di pogrom…
Le riflessioni del nostro protagonista colto e nazista sono davvero inquietanti, perché se non sapessimo chi è e se togliessimo qualche riferimento storico troppo rivelatore, potrebbero essere uno di quei dotti editoriali che ci propina la grande stampa (che so, un Ferrara o un Panebianco…).
E in effetti la vittoria avrebbe sistemato tutto, perché se avessimo vinto, immaginatevelo per un momento, se la Germania avesse schiacciato i rossi e distrutto l’Unione Sovietica, non si sarebbe mai più parlato di crimini, o meglio sì, ma di crimini bolscevichi, debitamente documentati grazie agli archivi sequestrati (gli archivi dell’NKVD di Smolensk, trasferiti in Germania e recuperati alla fine della guerra dagli Americani, svolsero appunto questo ruolo, quando alla fine venne il momento di spiegare quasi dall’oggi al domani ai bravi elettori democratici perché i mostri infami della vigilia dovessero ora fungere da baluardo contro gli eroici alleati del giorno prima, adesso denunciati come mostri ancora peggiori), o forse addirittura, per riprendere con dei processi in piena regola, perché no, il processo degli agitatori bolscevichi, immaginatevelo un po’, per fare sul serio come hanno voluto fare sul serio gli Angloamericani (Stalin, si sa, se la rideva di quei processi, li prendeva per quello che erano, un’ipocrisia, e per giunta inutile), e poi tutti, Inglesi e Americani in testa, sarebbero venuti a patti con noi, le diplomazie si sarebbero riallineate sulle nuove realtà, e nonostante l’inevitabile protesta degli ebrei di New York, gli ebrei d’Europa, di cui comunque nessuno avrebbe sentito la mancanza, sarebbero stati registrati sotto la voce profitti e perdite, come del resto tutti gli altri morti, zingari, Polacchi, che so io, l’erba cresce rigogliosa sulle tombe dei vinti, e nessuno chiede conto al vincitore, non lo dico per tentare di giustificarci, è la semplice e tremenda verità, guardate un po’ Roosevelt, quell’uomo perbene, con il suo caro amico Uncle Joe, quanti milioni ne aveva già uccisi Stalin, nel 1941, o addirittura prima del 1939, ben più di noi, di sicuro, e anche a stilare un bilancio definitivo lui rischia proprio di restare in testa, fra la collettivizzazionc, dekulakizzazione, le grandi purghe e le deportazioni di popolazioni nel 1943 e 1944, e questo all’epoca era ben noto, tutti più o meno sapevano, negli anni Trenta, cosa succedeva in Russia, anche Roosevelt lo sapeva, quell’amico del genere umano, il che non gli ha mai impedito di elogiare la lealtà e l’umanità di Stalin, malgrado i reiterati avvertimenti di Churchill del resto, un po’ meno ingenuo da un certo punto di vista, e d’altra parte un po’ meno realista, e se quindi noialtri avessimo in effetti vinto quella guerra, sarebbe stata di sicuro la stessa cosa, a poco a poco, gli ostinati che non avrebbero smesso di chiamarci nemici del genere umano si sarebbero zittiti a uno a uno, per mancanza di pubblico, e i diplomatici avrebbero smussato gli spigoli, perché dopotutto, non è vero?, Krieg ist Krieg und Schnaps ist Schnaps, e così va il mondo. forse in fin dei conti i nostri sforzi sarebbero stati addirittura applauditi, come ha spesso predetto il Fiihrer, o forse no, comunque molti avrebbero applaudito, di quelli che nel frattempo hanno invece taciuto, perché abbiamo perso, dura realtà. E anche se a questo proposito avesse continuato a sussistere una certa tensione, dieci o quindici anni, prima o poi si sarebbe allentata, per esempio quando i nostri diplomatici avessero fermamente condannato, riservandosi comunque la possibilità di dimostrare un certo grado di comprensione, le severe misure suscettibili di nuocere ai diritti dell’uomo, che prima o poi la Gran Bretagna o la Francia avrebbero dovuto applicare per ripristinare l’ordine nelle loro recalcitranti colonie oppure, nel caso degli Stati Uniti, per assicurare la stabilità del commercio mondiale e combattere i focolai di rivolta comunisti, come tutti hanno finito per fare, con i ben noti risultati. Perché sarebbe un errore, e grave a mio parere, pensare che il senso morale delle potenze occidentali sia cosi fondamentalmente diverso dal nostro: dopotutto, una potenza è una potenza, non lo diventa, né lo rimane, per caso. I Monegaschi o i Lussemburghesi possono permettersi il lusso di una certa onestà politica; per gli Inglesi è un po’ diverso. Non è stato forse un amministratore britannico, educato a Oxford o a Cambridge, a preconizzare già nel 1922 dei massacri amministrativi per garantire la sicurezza delle colonie, e a deplorare amaramente che la situazione politica in the Home Islands rendesse impossibili quelle salutari misure? Ovvero se, come hanno fatto alcuni, si vogliono imputare tutte le nostre colpe soltanto all’antisemitismo – un grottesco errore, a mio parere, ma da cui molti si sono fatti sedurre – non bisognerebbe forse riconoscere che, alla vigilia della Grande guerra, la Francia si comportava ben peggio di noi in questo campo (per non parlare della Russia dei pogrom!)? Spero peraltro che non vi sorprenda troppo sentirmi svalutare tanto l’antisemitismo come causa fondamentale del massacro degli ebrei: sarebbe dimenticare che le nostre politiche di sterminio avevano ben altra portata. Al momento della sconfitta – e lungi dal voler riscrivere la Storia, sarei il primo ad ammetterlo – oltre agli ebrei avevamo già portato a termine la distruzione di tutti gli handicappati tedeschi incurabili, fisici e mentali, della maggior parte degli zingari, e di milioni di Russi e di Polacchi. E i progetti, è ben noto, erano ancora più ambiziosi: per i Russi, la necessaria riduzione naturale, secondo gli esperti del Piano quadriennale e dell’RSHA, doveva toccare i trenta milioni, se non attestarsi addirittura fra i quarantasei e i cinquantun milioni stando al parere discorde di un Dezernent un po’ zelante dell’Ostministerium. Se la guerra fosse durata ancora qualche anno, avremmo certamente avviato la riduzione massiccia dei Polacchi. L’idea era già nell’aria da un po’: guardatevi il voluminoso carteggio fra Greiser, il Gauleiter del Warthegau, e il Reichsführer, in cui a partire dal maggio 1942 Greiser chiede di essere autorizzato a utilizzare gli impianti di gassaggio di Kulmhof per distruggere 35.000 Polacchi tubercolotici che secondo lui costituivano una grave minaccia sanitaria per il suo Gau; in capo a sette mesi, il Reichsführer gli fece finalmente capire che la sua proposta era interessante ma prematura. Probabilmente trovate che vi intrattengo su tutto ciò con molta freddezza: intendo solo dimostrarvi che la distruzione per mano nostra del popolo di Mosè non scaturiva unicamente da un odio irrazionale verso gli ebrei – credo di aver già dimostrato fino a che punto gli antisemiti di tipo emotivo fossero malvisti all’SD e nelle SS in generale –, ma derivava soprattutto da un’accettazione risoluta e ragionata del ricorso alla violenza per la soluzione dei più svariati problemi sociali, nella qual cosa, del resto, ci differenziavamo dai bolscevichi solo per le rispettive valutazioni delle categorie di problemi da risolvere: il loro approccio era fondato su uno schema di interpretazione sociale orizzontale (le classi), il nostro, verticale (le razze), ma entrambi altrettanto deterministici (credo di averlo già sottolineato) e tali da condurre a soluzioni analoghe in termini del rimedio da adottare. E a pensarci bene, se ne potrebbe dedurre che questa volontà, o almeno questa capacità di accettare l’esigenza di un approccio ben più radicale dei problemi che affliggono qualunque società, può essere nata solo dalle nostre sconfitte all’epoca della Grande guerra. Tutti i paesi (salvo forse gli Stati Uniti) hanno sofferto; ma la vittoria, e l’arroganza e la tranquillità morale scaturiti dalla vittoria, hanno probabilmente permesso agli Inglesi e ai Francesi e anche agli Italiani di dimenticare con più facilità le loro sofferenze e le loro perdite, e di riadagiarsi, talvolta addirittura di sprofondare nell’autocompiacimento, e quindi anche di spaventarsi più facilmente, per timore di assistere alla disgregazione di quel compromesso tanto fragile. Quanto a noi, non avevamo più niente da perdere. Ci eravamo battuti altrettanto onorevolmente dei nostri nemici; siamo stati trattati da criminali, ci hanno umiliati e fatti a pezzi, e hanno schernito i nostri morti. La sorte dei Russi, obiettivamente, non è stata molto migliore. Niente di più logico, perciò, di arrivare a dirsi: be’, se è cosi, se è giusto sacrificare il meglio della Nazione, mandare a morire gli mini più patriottici, più intelligenti, più generosi, più leali della nostra razza, e tutto ciò in nome della salvezza della Nazione – e se poi non serve a niente – e si sputa sul loro sacrificio – allora, che diritto alla vita possono avere gli elementi peggiori, i criminali, i pazzi, i ritardati, gli asociali, gli ebrei, senza parlare dei nostri nemici esterni? I bolscevichi, ne sono convinto, hanno fatto lo stesso ragionamento. Dato che rispettare le regole della cosiddetta umanità non ci è servito a niente, perché ostinarsi a mantenere quel rispetto di cui non ci sono nemmeno stati grati? Di lì, inevitabilmente, un approccio molto più inflessibile, più duro, più radicale ai nostri problemi. In tutte le società, in ogni epoca, i problemi sociali sono stati oggetto di arbitrato fra i bisogni della collettività e i diritti dell’individuo, e hanno pertanto prodotto un numero di risposte tutto sommato molto limitato: schematicamente, la morte, la carità, o l’esclusione (soprattutto, storicamente, sotto forma di esilio esterno). I Greci esponevano i figli deformi; gli Arabi, riconoscendo che costituivano, dal punto di vista economico, un peso troppo gravoso per le loro famiglie, ma non volendo ucciderli, li mettevano a carico della comunità, con il meccanismo della zakat, l’elemosina religiosa obbligatoria (una tassa per le opere di bene); ancor oggi, da noi, esistono per questi casi degli istituti specializzati, per evitare di affliggere i sani con lo spettacolo della loro disgrazia. Tuttavia, se si adotta questa visione globale, si può constatare che almeno in Europa, a partire dal XVIII secolo, tutte le diverse soluzioni ai vari problemi – il supplizio per i criminali, l’esilio per i malati contagiosi (lebbrosari), la carità cristiana per gli idioti – sono confluite, per influenza dell’Illuminismo, verso un tipo di soluzione unica, applicabile a tutti i casi e declinabile a piacere: la reclusione istituzionalizzata, finanziata dallo Stato, una forma di esilio interno, per cosi dire, a volte con una pretesa pedagogica, ma soprattutto con una finalità pratica: i criminali in prigione, gli ammalati all’ ospedale, i pazzi al manicomio. Come non vedere che queste soluzioni cosi umane erano anch’esse frutto di un compromesso, erano rese possibili dalla ricchezza e in fin dei conti restavano contingenti? Dopo la Grande guerra molti hanno capito che non erano più adeguate, che non bastavano più a far fronte alla nuova portata dei problemi, per via della riduzione delle risorse economiche e anche del livello, un tempo impensabile, della posta in gioco (i milioni di morti della guerra). Occorrevano nuove soluzioni, le abbiamo trovate, perché l’uomo trova sempre le soluzioni di cui ha bisogno, e perché i paesi cosiddetti democratici le avrebbero trovate anche loro, se ne avessero avuto bisogno (pp. 645-649).
Agghiacciante vero? A me dà davvero da pensare:
- “gli ebrei d’Europa, di cui comunque nessuno avrebbe sentito la mancanza, sarebbero stati registrati sotto la voce profitti e perdite, come del resto tutti gli altri morti, zingari, Polacchi, che so io, l’erba cresce rigogliosa sulle tombe dei vinti, e nessuno chiede conto al vincitore”
- “gli ostinati che non avrebbero smesso di chiamarci nemici del genere umano si sarebbero zittiti a uno a uno, per mancanza di pubblico”
- “sarebbe un errore, e grave a mio parere, pensare che il senso morale delle potenze occidentali sia cosi fondamentalmente diverso dal nostro: dopotutto, una potenza è una potenza, non lo diventa, né lo rimane, per caso”
- “massacri amministrativi”, “necessaria riduzione naturale”, “accettazione risoluta e ragionata del ricorso alla violenza per la soluzione dei più svariati problemi sociali”
- “che diritto alla vita possono avere gli elementi peggiori, i criminali, i pazzi, i ritardati, gli asociali, gli ebrei”
- “in tutte le società, in ogni epoca, i problemi sociali sono stati oggetto di arbitrato fra i bisogni della collettività e i diritti dell’individuo, e hanno pertanto prodotto un numero di risposte tutto sommato molto limitato: schematicamente, la morte, la carità, o l’esclusione”
- “le diverse soluzioni ai vari problemi […] sono confluite, per influenza dell’Illuminismo, verso un tipo di soluzione unica, applicabile a tutti i casi e declinabile a piacere: la reclusione istituzionalizzata, finanziata dallo Stato […]: i criminali in prigione, gli ammalati all’ ospedale, i pazzi al manicomio”
- “come non vedere che queste soluzioni cosi umane erano anch’esse frutto di un compromesso, erano rese possibili dalla ricchezza e in fin dei conti restavano contingenti?”
- “per via della riduzione delle risorse economiche e anche del livello, un tempo impensabile, della posta in gioco […] occorrevano nuove soluzioni, le abbiamo trovate, perché l’uomo trova sempre le soluzioni di cui ha bisogno”.
Un brivido mi percorre la schiena: quante sono già ora le iniquità economiche e sociali che permettiamo o introduciamo ex novo (dalla perdita della sicurezza di una vecchiaia serena alla precarietà del lavoro) in nome delle compatibilità finanziarie?