Wallace, David Foster (2005). Consider the Lobster and Other Essays. London: Abacus. 2005.
Negli Stati Uniti Wallace è considerato un genio. E lo è.
Il suo romanzo più famoso è Infinite Jest, un mastodonte di 1.100 pagine fitte fitte, uscito nel 1996 e da meno di un anno tradotto in italiano. Boris sta ancora lottando con l’edizione originale; per fortuna il romanzo è costruito in capitoletti e sopporta quindi di essere preso e lasciato innumerevoli volte. Quando sarò arrivato al termine delle mie fatiche ve ne renderò conto.
Ho invece letto Everything and More: A Compact History of Infinity, un saggio. Un curioso saggio. Una lunga marcia attraverso 2.500 anni di filosofia e matematica, da Aristotele, attraverso Galileo, Isaac Newton, G.W. Leibniz, Karl Weierstrass e J.W.R. Dedekind, fino a Georg Cantor. Wallace non ci risparmia niente, non scende a compromessi con il rigore, non rinuncia a nessuno dei suoi manierismi. Forse non un modello di divulgazione scientifica da imitare. Ma certamente una lettura affascinante e artisticamente riuscita.
Questo Consider the Lobster è una raccolta di saggi comparsi su vari periodici. Si parla un po’ di tutto, dal porno alla radio, dall’autobiografia di una tennista all’uso dell’inglese. Non tutto è alla stessa altezza, quanto a interesse, e Wallace fa di tutto per non semplificarci la vita, dalle abbreviazioni alle lunghe note a piè di pagina (o ai riquadri dentro la pagina), ma resta una lettura affascinante.
Il saggio più bello è quello sulla lingua inglese, sulle polemiche tra puristi e fautori dell’uso, che richiama la polemica scolastica tra “anomalia” e “analogia”.
Quello che dà il titolo al volume discute, a partire dalla visita a un festival dell’aragosta nel New England, se e quanto l’aragosta soffra nell’essere bollita viva. Io su questo ho una teoria, e non ve la risparmio. Secondo me l’aragosta sente dolore, perché la percezione del dolore avviene soprattutto a livello locale, o comunque decentrato. Ma non soffre, perché per soffrire serve un sistema nervoso centrale e probabilmente un sistema abbastanza complesso da contenere una rappresentazione di sé. Insomma, farei riferimento alla differenza tra percezione e sensazione, proposta in Seeing Red: la sensazione si sarebbe evoluta per prima, da canali locali di stimolo-risposta (“Che cosa mi sta succedendo localmente, qui ora e a me?” – cioè “qualitative, present-tense, transient and subjective”), che sarebbero poi stati “privatizzati” dal cervello, una volta che si sono evoluti i canali percettivi (“Che sta succedendo là fuori nel mondo?” – cioè “quantitative, analytical, permanent, and objective”).
In definitiva, non dovremmo dire “soffro come una bestia” perché il nostro modo di soffrire è tipicamente (ed esclusivamente, a un certo livello) umano.
Boris le aragoste continua a mangiarle, se gliene offrono l’occasione.