I scarp del tennis

Era l’agosto del 1964. Avevo fatto la prima media. Nel mio crescere avevo incontrato un primo vero dolore: a marzo la nonna, quella con cui avevo passato tanti mesi quando ancora non andavo a scuola e sempre tutte le estati, aveva avuto un’emorragia cerebrale e da allora non aveva ripreso coscienza. Respiravo il dolore di mio padre. Il nonno sembrava impazzito.

Anche le nostre vacanze erano cambiate. Non eravamo andati al mare con i nostri genitori. Andammo però ad agosto per qualche giorno a Pontedilegno: ero stato una sola volta in montagna, ma ero troppo piccolo per avere ricordi che non fossero confusi. Al mare prendevamo in affitto una casa. Questo era un albergo, che io ricordo grande e di pietra grigia: dominava il paese, da cui era separato da una breve salita (forse quello della foto, ma non ne sono certo).

C’erano altri coetanei, con cui creammo un piccolo gruppo e con cui giocavamo insieme. Preferivamo giocare che andare in gita con la mamma. Anzi, nessuna gita se non venivano tutti gli amici del gruppo.

Nel gruppo, naturalmente, c’erano delle bambine. Una mi piaceva particolarmente: un primo segno della transizione verso l’adolescenza. Capiamoci: non il primo amore, ma la prima volta che una bambina che non fosse mia sorella suscitava in me un minimo interesse.

Mi sembrava, confusamente, di essere più grande dell’anno prima e anche di pochi mesi prima.

Una sera, dei ragazzi un po’ più grandi di noi (liceali, direi, non universitari) organizzarono una specie di festicciola o spettacolo. Lì sentii per la prima volta quella strana canzone, in milanese e non in italiano, che non aveva facili rime che parlavano d’amore, ma che raccontava una storia (che non capivo neppure bene) di un barbone sulla strada dell’idroscalo.

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