Una cosa che non smette mai di sorprendermi è il modo in cui i media generalisti (stampa, radio, televisione, siti web) riportano le notizie scientifiche. Mi sembra abbastanza chiaro che i grandi giornali hanno uno o più scout incaricati di spulciare le grandi riviste scientifiche, come Nature e Science, o divulgative come Scientific American e New Scientist, i repository online come Arxiv o PLoS per scovare ricerche rivoluzionarie o quanto meno interessanti o, al limite, curiose. Quello che non mi spiego bene sono i meccanismi di latenza, quando un articolo, con tutte le caratteristiche per essere ripreso dai media generalisti, non lo è immediatamente, cioè subito dopo la sua pubblicazione, ma dopo una latenza anche di alcuni mesi. Mentre non è sorprendente – dato che i mezzi d’informazione sono molto attenti a spiare quello che succede presso la concorrenza (il terrore di ogni giornalista è quello di bucare la notizia) – che poi la notizia compaia epidemicamente in più luoghi.
È il caso, ad esempio, di questo articolo di Gayle Brewer e Colin A. Hendrie, “Evidence to Suggest that Copulatory Vocalizations in Women Are Not a Reflexive Consequence of Orgasm,” pubblicato online sugli Archives of Sexual Behavior il 18 maggio 2010. Che il sesso incuriosisca e faccia vendere copie dei giornali, e dunque sia newsworthy, come si dice in inglese (in italiano ho letto la traduzione notiziabile, che mi fa sinceramente venire la pelle d’oca), non è una novità. Se poi riflettiamo sul fatto che le copulatory vocalizations sono i gemiti e gli altri suoni che accompagnano l’atto sessuale, davvero stupisce che la notiziola sia rimasta sottotraccia per quasi 2 anni, riemergendo sporadicamente.
Per quanto sono riuscito a ricostruire, ne ha parlato per primo msnbc.com il 30 giugno 2010 (poco più d’un mese dopo la pubblicazione dell’articolo di Brewer e Hendrie) con un colorito articolo di Brian Alexander, l’autore (a me ignoto fino a oggi) del saggio America Unzipped: In Search of Sex and Satisfaction (a me altrettanto ignoto). Alexander non trascura nessuno dei doverosi pezzi di colore (come tutti, ha o ha avuto una vicina particolarmente vocale; come tutti cita la scena di Harry, ti presento Sally…), ma poi ricostruisce lo studio e i suoi risultati abbastanza fedelmente:
- lo studio è stato condotto su 71 donne eterosessuali sessualmente attive di età compresa tra i 18 e i 48 anni (media 21,68 anni ± 0,52)
- le vocalizzazioni sono state classificate in categorie quali:
- silenzio
- gemito/mugolio
- urlo/strillo/grido
- parole (“sì/no/mio dio/il nome del partner”: una vecchia storiella chiamava queste varianti “affermativa, negativa, mistica e mendace”)
- istruzioni (“ancora/più forte”)
- è stato chiesto ai soggetti sperimentali se emettessero le vocalizzazioni in coincidenza/in prossimità del loro orgasmo e, in caso negativo, perché vocalizzassero
- è risultato che spesso le vocalizzazioni sono emesse consapevolmente per influenzare il partner piuttosto che come espressione diretta e incontrollabile di eccitazione sessuale
- l’intento delle vocalizzazioni era spesso quello di accelerare l’eiaculazione del partner in situazioni di noia, affaticamento, disagio o mancanza di tempo
- il 92% delle donne è convinta che le vocalizzazioni stimolino l’autostima del partner
- più del 25% delle partecipanti finge l’orgasmo, nella quasi totalità dei casi quando si rende conto che non lo raggiungerà realmente.
A questo punto, Alexander procede citando un altro studio (Charlene L. Muehlenhard e Sheena K. Shippee, “Men’s and Women’s Reports of Pretending Orgasm“, Journal of Sex Research, 25 agosto 2009): secondo questo studio le donne fingono l’orgasmo più spesso degli uomini perché aderiscono a una “sceneggiatura del rapporto sessuale” in cui una donna può avere un orgasmo in qualunque momento e con qualsiasi tipo di stimolazione (anche più volte), ma l’uomo ha di regola un solo orgasmo durante il coito e dopo l’orgasmo maschile l’attività sessuale ha termine. Questo spiega i motivi registrati nello studio di Muehlenhard e Shippee (li scrivo in inglese per pigrizia e proteggere l’innocente):
- Orgasm was unlikely or taking too long (25% dei maschi del campione, contro il 7% delle donne)
- Wanting sex to end (82% degli uomini, 61% delle donne: ma nel caso degli uomini l’obiettivo della finzione era terminare l’attività sessuale, in quello delle donne consentire al partner maschile di avere un orgasmo e solo dopo terminare la copula)
- Using their partner’s imminent orgasm as a cue to act out their own orgasm (motivazione quasi esclusivamente femminile)
- To avoid negative consequences from not orgasming, especially hurting their partner’s feelings (78% delle donne, 58% degli uomini)
- To get positive consequence of orgasming, most often pleasing their partner or making their partner feel good about him/herself (47% delle donne, 13% degli uomini)
Inoltre, lo studio di Muehlenhard e Shippee conferma un’altra tesi (Roberts C., Kippax S., Waldby C. e Crawford J. “Faking it: The story of «Ohh!»”. Women’s Studies International Forum, 18-1995, pp. 523-532) secondo la quale esiste una “«orgasm for work» economy of heterosexuality” in cui il «lavoro» dell’uomo è provocare l’orgasmo nella donna e l’orgasmo di lei prova la qualità del lavoro di lui. “Because women do not ejaculate, there is a demand for noisy and exaggerated display” (p. 528).
Pochi giorni dopo, il 2 luglio 2010, la notizia viene ripresa da un giornale britannico (penso), il Daily News (80% of women admit to ‘faking it’ in the bedroom): abbastanza curiosamente, anche se lo studio originario di Brewer e Hendrie è inglese, la notizia è esplicitamente “figlia” del pezzo americano di Alexander. Ancora pochi giorni e il 6 luglio la notizia è su Metro, sempre nel Regno Unito (More than a quarter of women scream during sex to make men feel good): questa volta ho l’impressione che la fonte sia lo studio scientifico originario, e non gli articoli giornalistici appena citati.

metro.co.uk
A questo punto la notizia sparisce dai giornali, e fin qui nulla di strano. Ma poi, inaspettatamente, molti mesi dopo – il 17 febbraio 2011 – la notizia riaffiora sull’autorevolissimo Wall Street Journal, in una rubrica/blog intitolata Ideas Market, con questo ambizioso programma:
The Ideas Market blog delivers the latest news and commentary from the world of ideas, brought to you by Review. The blog’s regular contributors include Review editor Gary Rosen, deputy editor Ryan Sager, lead blogger Christopher Shea, columnist Jonah Lehrer and photo editor Rebecca Horne.
The latest news and commentary! pare vero!
L’articolo (Female ‘Vocalization’ During Sex) è firmato da Christopher Shea, non aggiunge nulla a quando già detto nei trafiletti del Daily News e di Metro, ma conclude – con involontaria comicità – che “the study, by Gayle Brewer and Colin A. Hendrie, is forthcoming in the Archives of Sexual Behavior.” Forthcoming 8 mesi prima!
Passa un altro anno e finalmente, pochi giorni fa (il 23 febbraio 2012) la notizia è ripresa da Salon, che è dove poi l’ho letta io. Va riconosciuto che, almeno, questo articolo di Lucy McKeon (Our nation of moaners) qualche cosa l’aggiunge: i macachi e i babuini, le tartarughe, i memi del porno (dalla vocalizzazione alla depilazione), le censure di Hollywood, le vocalizzazioni sportive. Ma anche in questo caso, scrivere “New research is shedding light on the question: Why do some people make so much noise during sex?” 2 anni dopo la pubblicazione dell’articolo mi pare francamente eccessivo.
mercoledì, 7 marzo 2012 alle 17:10
Si suppone che se le donne sono d’età compresa tra 18 e 48 anni ce ne siano almeno una di 18 e una di 48. Ora l’insieme di donne che ha deviazione standard minima ha una donna di 18, una donna di 48 e tutte le altre di 21,35 anni. La deviazione standard di questo insieme è 3.2! Cos’è dunque questo 0,52?! L’errore standard, cioè sd/sqrt(n)? Se così fosse, l’errore standard dell’insieme di prima è 0.38 per cui siamo comunque molto vicini al limite minimo: basta un’altra ultraquarantacinquenne per superarle 0.5!