Guccini, Francesco (2012). Dizionario delle cose perdute. Milano: Mondadori. 2012. ISBN 9788852023378. Pagine 140. 4,99€

amazon.com
Doverosa premessa: sono un gucciniano, se non della prima, della seconda ora. Come tante cose di quegli anni, ho scoperto Guccini grazie a Per voi giovani, a una lunga intervista (di chi? Paolo Giaccio? Carlo Massarini? Raffaele Cascone?) che presentava Radici. Dunque era il 1970. Primavera, stanza inondata dal sole, caldo e finestra aperta ma scuola non ancora finita, se i ricordi non mi ingannano (il 1970, per motivi che non sto a raccontarvi, è stato un anno speciale per me). La casa sul confine dei ricordi per me era la casa dei nonni non lontana da Po e immaginavo che quella di Guccini, che sapevo modenese, non fosse poi lontana (mi sbagliavo, naturalmente, nulla sapendo all’epoca di Pàvana). Da Radici sono risalito a ritroso, L’isola non trovata e Due anni dopo e Folk Beat n. 1, e ho scoperto così che Guccini era l’autore di canzoni dell’Equipe84 che avevo amato. E per lungo tempo ho comprato il nuovo disco di Guccini, quando usciva, proprio quel giorno preciso lì, e lo studiavo quasi religiosamente (ancora adesso posso recitarvi a memoria lunghi brani, come di Foscolo o dell’Odissea). Posso persino raccontare di avergli scroccato un’MS una volta nel retropalco del Palalido.
Tutto questo per potervi dire in tutta tranquillità che questa è un’opera minore del nostro. Non perché l’idea sia cattiva, no, ma perché è troppo scontata, troppo raccontata in mille occasioni (dalle canzoni alle affabulazioni durante i concerti, alle interviste, alle altre sue opere letterarie).
E poi, sinceramente, un divertissement leggero leggero: la cosa che ricorda di più, anche come stile letterario, è La Genesi di Opera buffa. Ecco, la cosa che poteva scrivere uno bravo ma non secchione sul giornalino autogestito del liceo (non ci provo nemmeno a usare l’aggettivo goliardico, perché sono post-sessantottino e me ne vanto, e mi rattrista non poco aver dovuto veder cadere con ignominia anche l’ultima conquista del Sessantotto: che la laurea fosse una cosa di cui andare orgogliosi ma tutto sommato “normale” – “hai fatto la metà del tuo dovere”, ci dicevano, quando portavamo a casa un bel voto – da festeggiare tra amici, senza rituali tra il nonnismo e il bullismo).
D’altro canto, questa nuova collana di Mondadori è volutamente leggera, come il nome Libellule della nuova collana Mondadori rivela.. Ma in questo caso forse dovrebbe chiamarsi Pappi.

wikipedia.org
E allora continuerò anch’io questo gioco leggero e, avendo una dozzina d’anni meno di Guccini ma venendo quasi dalla stessa area geografica, ripercorrerò l’indice del libro scrivendovi quello che ricordo io.
- La banana: direi che l’ho scampata. Ma la foto prono a culo nudo no. e i capelli il barbiere me li tagliava con la sfumatura alta, con la macchinetta. Odio tuttora tagliarmi gli ormai pochi che mi restano.
- Il chewing gum: proibitomi dai miei per anni, e dunque perdutamente desiderato e invidiato.
- La siringa: ahimè sì.
- I cantastorie: ahimè no. Ricordo però i venditori ambulanti “porta a porta” e le giostre della sagra.
- Il flit: certo che sì. E ricordo anche i lunghi studi (proibiti, e dunque fatti di nascosto) per capire come funzionasse.
- La maglia di lana: sì, ma non fatta in casa, ma comprata (marca Alpina); ho smesso di soffrire di tosse e bronchite soltanto quando, in seconda media, mi sono rifiutato di portarla. E ricordo anche, e ho indossato, i micidiali costumi da bagno di lana.
- Le targhe che invitavano a non bestemmiare e a non sputare per terra: oltre che nei negozi c’erano anche sui tram di Milano.
- Il lattaio no, ma la carta moschicida sì.
- Il chioccaballe: no.
- I coperchini (tollini a Milano): sì. I miei figli qui a Roma giocavano a pignette, una variante più vicina alla natura ma sostanzialmente equivalente.
- Le palline: sì, ma soprattutto quelle di plastica per metà trasparenti con la foto del ciclista.
- La fionda: vietata, pochi timidi tentativi. Un po’ di più artigianali archi e frecce.
- La cerbottana: no.
- I cariolini: sì, il nonno me li faceva con i cuscinetti a sfere presi alla Rovere (era un fabbrica, un deposito?), ma in pianura non c’erano discese.
- Il carro armato: un vago ricordo.
- La lippa: da noi si chiamava sciàncul, ma io non ero capace.
- Il Meccano: l’aveva qualche amico ricco, io l’ho sognato tanto da regalarlo appena in età al mio figlio maggiore, che l’ha schifato. Sic transit …
- Shangai e pulce: sì, e condivido i giudizi di Guccini (pallosi ma incredibilmente conducive alla rissa).
- I taxi (neri con la riga verde allo chassis): sì, e Guccini dimentica di dire che, soprattutto le 600 multiple, mandavano all’interno un odore di fintapelle e fumo stantio che a me faceva immancabilmente vomitare.
- Il postino e il bigliettaio: ma certo!
- Il tubetto del dentifricio: Guccini dimentica di dire che il dentifricio era rigorosamente bianco (salvo l’esotica Pasta del Capitano, che era rosa) fino agli anni Sessanta, quando arrivarono quelli a strisce colorate bianche rosse e blu.
- I balli: ero da festicciole casalinghe (un fatto di classe, mi sa).
- I liquori: ho odiato la zuppa inglese (che ora invece mi piace, quando la trovo: è rarissima) per quell’alchermes schifoso.
- I treni a vapore: il Parma-Suzzara, che si vede in qualche film di Don Camillo, detto la rana, aveva i vagoncini separati da balconcini da far west; sul Modena-Verona (via Carpi-Suzzara-Mantova, che Guccini cita ampiamente in Vacca d’un cane) le carrozze ex-terza classe con una porta per scompartimento e i sedili di legno hanno resistito fino ad anni Settanta inoltrati.
- Le braghe corte: tutto vero!
- La naia: fortunatamente “scartato” ai 3 giorni.
- La ghiacciaia: in casa d’altri, a casa mia da che ricordo io c’era il frigo (un vero monumento), ma il camioncino con le stecche di ghiaccio lo rammento.
- Il telefono: tutto vero. Lo zio in farmacia (è stato il primo ad averlo) aveva il modello che si vede nei film americani, che si gira la manovella.
- I pennini: quando racconto la storia del calamaio, della bidella con la brocca dell’inchiostro, delle palline di carta assorbente lasciate a macerare, mi guardano come se fossi pazzo. La mia maestra imponeva dei pennini razionalisti con tre fori (bellissimi, con il senno di poi) mentre mia sorella usava i barocchissimi Torre (che le invidiavo).
- La topolino: no.
- Il caffè d’orzo: non a casa mia, la ricordo a casa d’altri (sia La Vecchina che la Miscela Leone). A me hanno provato a dare l’orzo solubile Ecco (aveva una scatola a fasce diagonali bianche e nere e la o finale rossa) che odiavo. E dell’orzo odiavo anche la pubblicità, per il ricordo (sia Orzobimbo – bim bum bam – sia Orzoro con gli odiosi Guardacampo e Beccofino).
- Il prete: ineludibile nei gelidi inverni. E conserviamo ancora sul balcone una mitica stufa Becchi di terracotta.
- Le sigarette: anch’io ho sperimentato e ricordo le Turmac bleu ovali che fumava il mio raffinato nonno materno e le Giubek del più spartano nonno paterno, oltre alle più tarde Muratti Ambassador di mio padre (che prima però fumava le Nazionali esportazione). Io ho cominciato in Irlanda nel 1966, con le fighette Benson & Hedges.
- Il cinema: epoche diverse, da quello dell’oratorio (né sigarette né brustolini, ma le stringhe di liquirizia per me), alle sale di terza visione (anche con due spettacoli), ai cineforum, alla cineteca nazionale di Milano durante l’università.
sabato, 31 marzo 2012 alle 13:55
Essendo una femmina di città ho avuto esperienze molto diverse, ma a casa mia il chewing gum era consentito, anzi quando si andava in Svizzera a fare benzina ci compravano una bubble gum di tipo americano che si chiamava Bazooka. Era rosa accesso, dolcissima e faceva bolle enormi che quando scoppiavano sporcavamo tutta la faccia.
Poi a casa mia vedeva la regola che il caffè si beveva solo al compimento dei 18 anni e quindi chi voleva qualcosa di simile prima doveva bersi il liun, cioè la miscela Leone sopra ricordata.