McEwan, Ian (2012). Sweet Tooth. London: Jonathan Cape. 2012. ISBN 9781448139736. Pagine 338. 14,28 €

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Sono un antico lettore di Ian McEwan. Non mi ricordo come l’ho scoperto, ma ricordo di aver letto In Between the Sheets nel 1979 (ho tirato fuori dalla libreria la mia copia ingiallita, un paperback Picador pagato 7.000 lire in un’epoca in cui, testimonia un biglietto Atac utilizzato come segnalibro, un biglietto dell’autobus costava 400 lire) ed esserne stato turbato. Poi, penso di aver letto quasi tutto quello che ha pubblicato (tranne il primo dei suoi libri per bambini, Rose Blanche, e le sue opere teatrali) e di essermi precipitato a farlo all’uscita del libro. Questo Sweet Tooth non fa eccezione: l’ho prenotato da Amazon e ho cominciato a leggerlo appena me l’hanno scaricato, meno di una settimana fa.
E qui sorge il primo problema: naturalmente ho letto anche il romanzo precedente di McEwan, Solar, e con grande divertimento se è per quello, ma non l’ho recensito. Conto di farlo, come conto di recensire un altro libro che ho letto e non recensito, Operation Mincemeat di Ben Macintyre che – come spiegherò tra breve – è di una qualche rilevanza per il romanzo di McEwan.
Il romanzo di McEwan forse non è uno dei suoi grandi capolavori (la mia predilezione va a Enduring Love e a Black Dogs) ma è molto bello e vi consiglio vivamente di leggerlo.
Ciò premesso, ho una serie di osservazioni da fare. Lascerò per ultima la più rilevante, che ha però il difetto di contenere uno spoiler: lo segnalerò debitamente e chi lo vuole può smettere di leggere (anche se non è un thriller e nemmeno una spy story nel senso usuale del genere).
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Prima osservazione (pedante). Un intero episodio del romanzo (nel capitolo 15) è costruito attorno al Problema di Monty Hall, molto noto e non soltanto agli addetti ai lavori (è un problema di teoria della probabilità). Chi non avesse idea di che cosa stiamo parlando può andare a guardare la pagina che gli dedica Wikipedia. Su questo blog, ne ho parlato ampiamente recensendo Information di Hans Christian von Baeyer. La protagonista del romanzo, Serena Frome, lo illustra così (riporto soltanto l’inizio):
‘This was going the rounds among Cambridge mathematicians when I was there. I don’t think anyone’s written on it yet. It’s about probability and it’s in the form of a question. It comes from an American game show called Let’s Make a Deal. The host a few years ago was a man called Monty Hall. Let’s suppose you’re on Monty’s show as a contestant. Facing you are three closed boxes, one, two and three, and inside one of the boxes, you don’t know which, is a wonderful prize – let’s say a…’ [posizione Kindle 2987]
Qui McEwan (che negli Acknowledgements ringrazia per l’aiuto sull’argomento 2 accademici inglesi, Graeme Mitchison e Karl Friston) è abbastanza prudente da far dire alla sua eroina «I don’t think anyone’s written on it yet.» Ma a me non pare sufficiente. Il problema in questione ha una data di nascita (il 1977, anche se la Lettera al curatore della prestigiosa rivista The American Statistician compare sul numero 1 del 1975, immagino per uno sfasamento tra data di riferimento e data di effettiva pubblicazione abbastanza frequente nelle riviste scientifiche) e un singolo autore (il Dr. Steven Selvin, attualmente professore di biostatistica alla School of Public Health dell’Università di California a Berkeley). Lo stesso Selvin scrive su un suo profilo ufficiale:
A small but surprising “accomplishment” in his classroom teaching career is the “Monty Hall problem”. In 1977, Professor Selvin created a problem using the Monty Hall quiz show to illustrate a specific probability concept. The problem continues to this day to receive unbelievable notoriety, re-publication and internet attention. The “Monty Hall Problem” appears in economic textbooks and periodicals from the New York Times to Parade Magazine, as well as hundreds of internet sites (see http://en.wikipedia.org/wiki/Monty_Hall_problem). Reaction to the Monty Hall problem has created enough letters, emails and other attention to fill two large binders. To paraphrase Andy Warhol, “everyone gets 15 minutes of fame.”
La conversazione che ho trascritto sopra tra Serena e Tom si svolge alla fine del 1973. A me sembra molto improbabile che il problema – un problema così bello ed elegante, credetemi sulla parola, da diventare un meme citato da moltissimi e in moltissime occasioni – potesse circolare a Cambridge, in Inghilterra, 4 anni prima di essere stato ideato e pubblicato da uno statistico operante in California su una rivista prestigiosa come potrebbe essere Nature o Science per un biologo. Se fossi Selvin sarei certamente lusingato di essere anche entrato a far parte di un romanzo di McEwan, ma forse avrei gradito (e forse preteso) un riconoscimento esplicito negli Acknowledgements da parte di McEwan. Magari al posto di quello ai 2, Mitchison e Friston, che non gli hanno evitato la gaffe.
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Alla vigilia di natale del 1973, in piena crisi energetica, Serena torna alla casa paterna in East Anglia (capitolo 17). Il suo cammino è illuminato da una mezza luna. Più tardi la luna è più alta nel cielo. Vediamo insieme:
I took the six thirty, got in just before nine, and walked from the station, crossing the river then following by a clear half-moon the semi-rural path along it, past dark boats tethered to the bank, inhaling air icy and pure, blown in across East Anglia from Siberia. [3338]
The moon was higher now and the touch of frost on the grass was light, even more tasteful than our mother’s efforts with the spray can. [3418]
Freed from Luke’s anecdotes, I went quickly, retracing the route we had come by, and then I cut across the grass, feeling the frost crunch pleasantly underfoot, until I was right by the cloisters, well out of the half-moon’s light, and found in the near darkness a stone protrusion to sit on and turned up the collar of my coat. [3455]
I stepped out onto the moonlit grass and saw my sister and her boyfriend on the path a hundred yards away, and I hurried towards them, keen to apologise. [3470: tutti i corsivi sono miei]
Tutto questo per farvi capire che il riferimento alla lune non è casuale. Un critico letterario potrebbe dire che l’illuminazione della mezza luna è co-protagonista, con Serena, di tutta questa scena algida e notturna. Peccato solo che la luna alla vigilia di Natale del 1973 non splendesse nel cielo inglese: era luna nuova. Una notte illune, direbbe un poeta.
Perché la faccio tanto lunga? Non sono ammesse le licenze letterarie? Vorrei fare, in proposito, 2 osservazioni. Sono opinioni personali e sono certo che molti dei miei pochi lettori non condivideranno:
- Anche se la distinzione non è poi così netta, introdurre una distinzione tra letteratura realistica e letteratura di fantasia mi aiuta a spiegare meglio quello che intendo dire. In una prospettiva fantastica, l’autore è libero di inventarsi la topografia della sua storia, Macondo o la Fortezza Bastiani o il Castello di Kafka o New Crobuzon. Ma se stiamo parlando della New York di Paul Auster o della Londra di Dickens ci aspettiamo una topografia aderente alla realtà; e aderente alla realtà io vorrei anche le fasi lunari, in un romanzo realistico, a differenza del tocco di colore che sono disposto ad accettare in un brano lirico o fantastico.
- Ma non sarà, poi, che la lettura nell’era dell’iPad comincia a essere un’esperienza diversa? Lo so che, detta così, può sembrare un’osservazione elzeviristica alla Francesco Merlo. Eppure, a me capita abbastanza spesso di andare a cercare un riferimento o un’immagine su Google mentre leggo, per pura curiosità e perché il costo di soddisfarla è minimo. [E se in quello che dico c’è un po’ di verità, allora anche il romanziere, quanto meno il romanziere realistico della tradizione cui mi pare appartenere McEwan, ha qualche dovere in più in materia di fact-checking.] Vi faccio un esempio: stavo leggendo il riferimento alla «lattice steel cavern of the Brighton terminus» [4377] e mi è venuta la curiosità di vedere come fosse la stazione di Brighton. Et voilà:

photoeverywhere.co.uk
Naturalmente, un errore tira l’altro. E così, una decina di giorni dopo la vigilia di natale, «[i]t must have been January 3rd or 4th, another of our Friday evenings» [4529] «[t]here was supposed to be a waning half-moon, but it had no chance against the heavy lid of tangerine cloud.» [3625]. E invece, venerdì 4 gennaio (almeno questo McEwan l’ha controllato) la luna aveva oltrepassato il primo quarto (crescente gibbosa), ma era tramontata poco prima delle 9: non l’avrebbero vista comunque i nostri 2 amanti. E poiché a McEwan, in questo contesto narrativo ed emotivo, quello che stava a cuore era «the heavy lid of tangerine cloud», la frase sulla presenza o l’assenza della luna è alla fine solo d’impiccio.
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Basta pedanterie. Il romanzo si svolge, per lo più, tra il 1972 e il 1974, in un periodo di crisi economica, disordine sociale e terrorismo che è quasi il corrispettivo di quello che il nostro paese avrebbe attraversato qualche anno più tardi. A me ha fatto venire voglia di rileggere The Rotters’ Club (La banda dei brocchi) di Jonathan Coe, ambientato nello stesso cupo periodo, ma in una prospettiva tutta diversa (tra l’altro Coe ha 13 anni meno di McEwan).
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Proprio nelle pagine finali, Ian McEwan capovolge la metafora abituale a proposito delle spalle dei giganti – cui abbiamo dedicato attenzione qui e qui, ma anche qui e qui – e fa scrivere a Tom, a proposito del declino britannico: «Our moment was thirty years ago. In our decline we live in the shadow of giants.» [4653]
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Finora abbiamo (quasi) scherzato. Qui viene il cuore della mia recensione, che però è uno spoiler per chi volesse leggere il romanzo come una storia di spionaggio. Quindi lo scrivo bello grande.
SPOILER
Il romanzo si chiude con un colpo di scena nel capitolo finale, come ogni spy story che si rispetti. Si scopre, nell’ultima lettera di Tom a Serena, che il romanzo che abbiamo appena finito di leggere, scritto in prima persona da Serena, che ne è cioè l’io narrante, è stato in realtà scritto da Tom, che nel romanzo è uno scrittore alle prime armi (e tanto per non lasciarci dubbi sulla sovrapponibilità Tom/Ian nel testo del romanzo sono contenuti alcuni racconti di Tom che sono in realtà prove giovanili di Ian). Fin qui nulla di particolarmente sconvolgente o rivoluzionario: un romanzo a forma di rosa in cui i petali più interni sono rappresentati dalla narrazione in prima persona di Serena, che rinviano alla storia scritta fittiziamente da Tom (strato intermedio) ma realmente da Ian (petali esterni).
Non può sfuggire, almeno a me che l’ho appena riletto, il lieve senso di vertigine che questa struttura ci dà, che è poi lo stesso che ci regala Calvino alla conclusione di Se una notte d’inverno un viaggiatore:
Ora siete marito e moglie, Lettore e Lettrice. Un grande letto matrimoniale accoglie le vostre letture parallele.
Ludmilla chiude il suo libro, spegne la sua luce, abbandona il capo sul guanciale, dice: – Spegni anche tu. Non sei stanco di leggere?
E tu: – Ancora un momento. Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. [4782]
Ma il punto che – mi pare – preme a Ian McEwan è il capovolgimento, nel rivelatore capitolo finale, tra lo spionaggio della spia di mestiere (Serena) e lo spionaggio del romanziere (Tom). Sono abbastanza convinto che al cuore di questa riflessione, dell’affinità tra spionaggio e romanzo, o meglio tra spia di professione e professione di scrittore, ci sia la consapevolezza che lo scrittore deve, senza darlo a vedere, essere capace si sottrarre ai suoi personaggi, o meglio alle persone reali che ne costituiscono potenzialmente il modello, abbastanza informazioni da consentire la creazione ex nihilo dei personaggi e per di più di soppiatto, in modo da non guastarne la naturalezza. E che questa riflessione abbia origine dalla lettura della ricostruzione che Ben Macintyre fa di Operation Mincemeat, una vicenda di spionaggio culminata nel 1943. Ma lasciamo raccontare a Tom/Ian e poi commentiamo:
[L]et me tell you my favourite spy story. MI5 had a hand in it, as well as Six. 1943. The struggle was starker and more consequential than it is now. In April that year the decomposing body of an officer of the Royal Marines washed up on the coast of Andalucia. Attached to the dead man’s wrist by a chain was a briefcase containing documents referring to plans for the invasion of southern Europe through Greece and Sardinia. The local authorities contacted the British attaché, who at first seemed to take little interest in the corpse or its luggage. Then he appeared to change his mind and worked frantically to get both returned. Too late. The Spanish were neutral in the war, but generally more favourable to the Nazi cause. The German intelligence community was on to the matter, the documents in the briefcase found their way to Berlin. German High Command studied the contents of the briefcase, learned of the Allies’ intentions and altered their defences accordingly. But as you probably know from The Man Who Never Was, the body and the plans were fake, a plant devised by British intelligence. The officer was actually a Welsh tramp, retrieved from a morgue and, with thorough attention to detail, dressed up in a fictional identity, complete with love letters and tickets to a London show. The Allied invasion of southern Europe came through the more obvious route, Sicily, which was poorly defended. At least some of Hitler’s divisions were guarding the wrong portals.
Operation Mincemeat was one of scores of wartime deception exercises, but my theory is that what produced its particular brilliance and success was the manner of its inception. The original idea came from a novel published in 1937 called The Milliner’s Hat Mystery. The young naval commander who spotted the episode would one day be a famous novelist himself. He was Ian Fleming, and he included the idea along with other ruses in a memo which appeared before a secret committee chaired by an Oxford don, who wrote detective novels. Providing an identity, a background and a plausible life to a cadaver was done with novelistic flair. The naval attaché who orchestrated the reception of the drowned officer in Spain was also a novelist. Who says that poetry makes nothing happen? Mincemeat succeeded because invention, the imagination, drove the intelligence. [4636-4647]
Ecco nelle sue tappe principali la sequenza di intervento romanzesco/azione di spionaggio ricostruita da McEwan (e da Macintyre, che McEwan non può citare senza commettere un anacronismo, dal momento che la sua “definitiva” ricostruzione storica è stata pubblicata nel 2010):
- Sir Basil Home Thomson, agente segreto britannico, ufficiale di polizia, direttore di carcere, amministratore coloniale della Nuova Guinea e scrittore, pubblica nel 1937 un romanzo, della serie dell’Ispettore Richardson, in cui a un morto viene erroneamente attribuita una diversa identità, sulla base delle carte e dei documenti falsi trovati (ma in precedenza impiantati) sul cadavere.
- Il romanzo non ha alcun successo, ma viene letto da un giovane ufficiale della marina inglese che amava la serie: Ian Fleming, il futuro “padre” di James Bond.
- Allo scoppio della guerra, Fleming manda ai suoi superiori un memo riservato in cui suggerisce 51 azioni di controinformazione per ingannare i servizi segreti tedeschi.
- Il suggerimento n. 28 è il seguente:
A suggestion (not a very nice one). The following suggestion is used in a book by Basil Thomson: a corpse dressed as an airman, with dispatches in his pockets, could be dropped on the coast, supposedly from a parachute that had failed. I understand there is no difficulty in obtaining corpses at the Naval Hospital, but, of course, it would have to be a fresh one. - L’azione viene realizzata nel 1943, in forma leggermente diversa, e ha successo.
- Nel 1950, Duff Cooper, diplomatico britannico che aveva occupato posti di responsabilità durante la guerra, pubblica un romanzo di spionaggio, Operation Heartbreak; al centro della trama, un cadavere galleggiante sulle coste spagnole con documenti tesi a ingannare i tedeschi.
- Benché Cooper abbia probabilmente inventato autonomamente la trama, i servizi inglesi decidono di correre ai ripari e autorizzano Ewen Montagu, che aveva guidato l’operazione Mincemeat, a raccontarne i tratti principali in The Man Who Never Was (il testo citato da Tom/Ian a Serena).
- Dopo l’apertura degli archivi del controspionaggio per prescrizione dei termini, Ben Macintyre ricostruisce Operation Mincemeat.
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Come di consueto, le mie annotazioni. Riferimenti numerici all’edizione Kindle.
[…] thinking in circles […] [1023]
And feeling clever, I’ve always thought, is just a sigh away from being cheerful. [1246]
[…] it had been raining heavily and the place had a canine smell of damp jeans and hair. [1616]
Let me put it another way. In this work the line between what people imagine and what’s actually the case can get very blurred. In fact that line is a big grey space, big enough to get lost in. You imagine things – and you can make them come true. The ghosts become real. [1975]
He has been doggedly faithful throughout his marriage. His fidelity now seems like one more aspect of the general constriction and failure in his life. His marriage is over, there can be no going back, for how can he live with her now? How can he trust a woman who has stolen from him and lied? It’s over. But here is the chance of an affair. An affair with madness. If she needs help, then this is what he can offer. [2320]
What is missing now is the love, or the guilty memory of love, or the need for it, and that is a liberation. She has become another woman, devious, deceitful, unkind, even cruel, and he is about to make love to her. [2332]
It’s a matter of dishonour, and when it gets out, which it’s bound to, this will be the one act you’ll be remembered for. Everything else you achieved will be irrelevant. Your reputation will rest only on this, because ultimately reality is social, it’s among others that we have to live and their judgements matter. Even, or especially, when we’re dead. [2514]
Looking at pictures with a stranger is an unobtrusive form of mutual exploration and mild seduction. [2574]
No single element of an imagined world or any of its characters should be allowed to dissolve on authorial whim. The invented had to be as solid and as self-consistent as the actual. This was a contract founded on mutual trust. [2835: è importante che McEwan lo dica perché, nonostante la struttura del romanzo, mantiene fede a questo impegno nella sostanza]
Love doesn’t grow at a steady rate, but advances in surges, bolts, wild leaps, and this was one of those. [2956]
Then I kept my thoughts off the worst possibilities by dreaming up a Poisson distribution. [4342]
He said I had to understand, any institution, any organisation eventually becomes a dominion, self-contained, competitive, driven by its own logic and bent on survival and on extending its territory. It was as inexorable and blind as a chemical process. [4456]
I didn’t want to get drunk, not at five in the afternoon. I didn’t want to be sober either. I didn’t want anything, even oblivion.
But beyond existence and oblivion there’s no third place to be. [4467]
I could feel a comfortable bed around me, but who and where I was lay beyond my grasp. It lasted only a few seconds, this episode of pure existence, the mental equivalent of the blank page. Inevitably, the narrative seeped back, with the near details arriving first – the room, the hotel, the city, Greatorex, you; next, the larger facts of my life – my name, my general circumstances. [4487]
martedì, 28 agosto 2012 alle 11:03
[…] Ian McEwan – Sweet Tooth McEwan, Ian (2012). Sweet Tooth. London: Jonathan Cape. 2012. ISBN 9781448139736. Pagine 338. 14,28 € Sono un antico lettore di Ian McEwa… […]
domenica, 2 settembre 2012 alle 18:22
[…] Ian McEwan – Sweet Tooth […]
martedì, 9 ottobre 2012 alle 11:39
grazie. A volte uno sguardo ingenuo e poco “dotto” aiuta a colgliere lo spirito della storia, senza complicazioni. Tuttavia concordo sulla contraddizione palese tra esigenza di fatti, fatti, fatti nella narrazione e l’evidente imprecisione dei riferimenti di sfondo. A McEwan perdono (quasi ) tutto. Enduring love è tra i miei preferiti. Mi piace molto il tuo riferimento a Calvino. Certo è difficile inventare qualcosa di nuovo nel raccontar storie. Ma io provo, ogni volta che leggo un libro, anche di Ian, a godermi la miscela che alla fine viene fuori dal nuovo mix di vecchi ingredienti.
mercoledì, 10 luglio 2013 alle 18:33
[…] ne ho parlato, in quest blog, recensendo il romanzo di Ian McEwan (Ian McEwan – Sweet Tooth) e il bel libro di Ben Macintyre (Ben MacIntyre – Operation […]
martedì, 27 agosto 2013 alle 19:54
[…] per il Nobel della letteratura. Sul primo terreno si muove, non a caso, Ian McEwan il cui Sweet Tooth è ampiamente ed esplicitamente debitore a le Carré (ne sono testimoni gli acknowledgment). In […]