Chiara Andolina: un Nobel subito!

La ricercatrice che vedete nella foto qui sotto è Chiara Andolina, un’italiana che lavora in un centro-studi sulla malaria in Thailandia. Sta nutrendo le zanzare oggetto delle sue ricerche.

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Il suo spirito di sacrificio e il suo amore per la ricerca mi sembrano difficili da battere, no?

Traduco per voi la storia originariamente scritta da Ed Yong e pubblicata su Mosaic (The Mosquito breeder | Mosaic).

La cosa peggiore del nutrire centinaia di zanzare con il tuo sangue non è il prurito – se lo fai abbastanza volte il corpo si abitua e non lo senti più. Non è neppure il dolore, anche se le zanzare devono pur sempre lacerare la pelle per raggiungere i vasi sanguigni. È che se la prendono comoda.

«Ti camminano su e giù sul braccio senza pungerti. Sei lì immobile e pensi: ‘Forza! non ho mica tutto il giorno’» dice Chiara Andolina.

Chiara lavora al Shoklo Malaria Research Unit, un laboratorio di fama mondiale al confine tra Thailandia e Myanmar. Dirige la sezione in cui le zanzare sono generate, allevate, infettate con il plasmodio della malaria e sezionate [eh sì, mi spiace, un altro crudele esempio di ricerca sugli animali].

Ci sono pochi centri di questo tipo in Thailandia, perché la zanzara del Sud-est asiatico è un animale delicato. In Africa, la malaria è trasmessa dall’Anopheles gambiae – un animale robusto e di bocca buona, che può digiunare per giorni, affrontare condizioni ambientali difficili e nutrirsi del sangue di molti animali.

La loro cugina asiatica, l’Anopheles dirus, è molto diversa. «Ci soffi sopra e loro sembrano pensare: ‘no, oggi non mi accoppio, sono un po’ turbata’». E poi si nutre esclusivamente di sangue umano: ecco perché Chiara deve nutrirle con il suo.

Come si vede nella foto, ogni quattro giorni infila il braccio nella gabbia attraverso la zanzariera e resta ferma per mezzora. «Sono viziate,» commenta.

Chiara ieri ha nutrito 600 zanzare ma a guardarle il braccio non lo diresti: a forza di farlo è diventata resistente agli allergeni presenti nella saliva delle zanzare (sono loro a causare il prurito e il gonfiore). Ma il suo capo, François Nosten, che ha dovuto sostituirla due settimane fa, ha il braccio ancora coperto di ponfi.

Le gabbie contengono due tipi di zanzare strettamente imparentate: Anopheles dirus B e C. Ma le due colonie devono essere tenute separate: se entrassero in contatto, l’errore sarebbe irreparabile. Sono identiche, anche al microscopio. La differenza è genetica. Trasmettono due parassiti diversi: l’Anopheles dirus B trasmette solo il Plasmodium falciparum, la principale causa della malaria da queste parti; l’Anopheles dirus C trasmette solo il  P. vivax. Chiara Andolina lo ha dimostrato sperimentalmente alcuni anni fa.

Solo le femmine pungono e usano le proteine del sangue umano per l’involucro delle uova. Ma devono essere fecondate da un maschio. Peccato che siano schizzinose sul sesso oltre che sul cibo.

Chiara deve costringerle. Si fa così: prima decapiti un maschio e anestetizzi la femmina. Poi inserisci i genitali del maschio nel corpo della femmina addormentata. Se lo fai bene, i due insetti (OK, un insetto e mezzo) si incastrano e lo sperma feconda le uova. Chiara ormai lo fa a mano e senza usare il microscopio.

Le uova galleggiano sull’acqua come zattere. Dopo due giorni si schiudono e diventano larve, che stanno a pelo d’acqua, respirando dal didietro e catturando con i peli che hanno sulla bocca particelle di cibo in sospensione.

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Le larve sono molto delicate. Ci vogliono due settimane perché diventino zanzare adulte, pronte per essere infettate e per le sperimentazioni. Chiara Andolina preleva il sangue dai malati di malaria e lo mette in un contenitore coperto da una membrana. Le zanzare – parecchie dozzine in un altro contenitore – bucano la membrana e succhiano il sangue.

Adesso sono infette. A questo punto la sicurezza è essenziale. La legge prescrive che almeno quattro porte sigillate si frappongano tra le zanzare e il mondo esterno. Chiara conta le sue zanzare tutti i giorni. Se ne mancasse anche una soltanto – ma non è successo mai – non potrebbe lasciare il laboratorio prima di averla trovata e uccisa.

«Non faccio questo lavoro per amore delle zanzare. Lo faccio per fornire parassiti alla ricerca, a due laboratori a Parigi e Singapore dove si sperimentano nuove medicine.» In particolare, si vuol scoprire se la primachina, efficace nel trattare le forme intraepatiche, sia in grado di interrompere il ciclo della trasmissione della malaria, impedendo l’infezione nelle zanzare stesse. Chiara Andolina vuole scoprire se le zanzare che si nutrono del sangue di pazienti trattati con primachina a basse dosi abbiano minori probabilità di essere infettate dal plasmodio.

A dosi elevate, la primachina può provocare effetti collaterali gravi. Ma se fosse in grado di interrompere il ciclo di trasmissione anche a basse dosi potrebbe essere alla base di una campagna per la completa eliminazione della malaria dal Sud-est asiatico, attraverso un trattamento di massa della popolazione.

46 regole per diventare un genio [8]

Ottava puntata (per la settima, andate qui).

L’ottava regola è (con le mie rudimentali traduzioni del pensiero di Neumeier, che non sempre condivido):

Stay in the dragon pit

Resta nella fossa del drago

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La “fossa del drago” è lo spazio tra ciò che esiste e ciò che potrebbe esistere. È uno spazio pieno di disagio, oscurità e dubbio. I più si getterebbero sulla prima fune gettata loro – ciò che esiste – piuttosto che restare e affrontare i draghi che fanno la guardia a ciò che potrebbe esistere. Ma ciò che potrebbe esistere è il luogo delle idee. Un genio è uno che può sopportare disagio e incertezza per generare quante più idee è possibile.

Il conflitto irrisolto della fossa del drago è in effetti una fonte primaria di energia creativa. Lo spazio tra visione e realtà genera tensione creativa, che può essere risolta soltanto con una nuova idea. Senza tensione creativa, non c’è spinta verso una realtà alternativa. È inevitabile: il risultato dell’assenza di tensione creativa è il solito tran-tran.

Un segreto della creatività è quello di tenere le idee allo “stato liquido.” Lasciare che, via via che cozzano l’una contro l’altra, mutino, si trasformino, si combinino. Evita la tirannia del no e l’ingenuità del ; mantieniti nella speranza del forse. Ci vuole coraggio, soprattutto se la posta è alta. Ma – dice un vecchio proverbio – è nella caverna in cui hai paura di entrare che si nasconde il tesoro che cerchi.

Il pensiero creativo ti chiede di abbandonare il noto e avventurarti nell’ignoto. Farlo è tanto più difficile, quanto più sei esperto nel tuo settore d’attività, nella tua disciplina, nel compito che ti è stato affidato. Il noto è un attrattore, è la posizione di default che attrae il tuo pensiero come un magnete.

Se ti trovi bloccato dalla tua stessa conoscenza, cerca di sbloccarti subito. Chiediti che cosa ti blocca. Ti manca un’informazione? Trovala. Ti manca un’abilità? Sviluppala. Non esiste una soluzione? Avanti, affronta il prossimo drago!

46 regole per diventare un genio [7]

Settima puntata (per la sesta, andate qui).

La settima regola è (con le mie rudimentali traduzioni del pensiero di Neumeier, che non sempre condivido):

Think whole thoughts

Pensa pensieri interi

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La mente umana ama le scelte binarie: o/o. A o B. Sì o no. Pollo o vitello. Le scelte semplici ci danno sicurezza, quelle aperte ci mettono in ansia. Preferiamo scegliere tra due che tra molti.

Allo stesso modo, preferiamo scomporre i problemi complessi nelle loro componenti. È più facile concentrarsi su una singola parte che  considerare il problema nella sua interezza. E tuttavia, se non riusciamo a vedere bene il problema nella sua interezza, è difficile capire come le singole componenti si tengono insieme.

Per complicare ulteriormente le cose, spesso a trarci  in inganno sono le nostre emozione e intuizioni – proprio gli strumenti su cui facciamo affidamenti per guidarci nel folto dell’innovazione.

In realtà, la mente umana è una massa di pregiudizi: i principianti sono ingannati da quello che credono, gli esperti da quello che sanno. Il pregiudizio più grande è quello di pensare di non averne.

L’antidoto ai pregiudizi è pensare per pensieri interi, non per frammenti. Strizza gli occhi della mente per annebbiare i dettagli. Guarda come le parti del problema si tengono insieme. Osserva una situazione complessa da molti punti di vista, in modo da vedere i collegamenti nascosti e le possibilità inattese. Comincia da tre posizioni privilegiate:

Prima posizione: il tuo punto di vista. Facile, ma non sempre affidabile.

Seconda posizione: i punti di vista degli attori rilevanti. Più difficile: richiede capacità di osservazione ed empatia.

Metaposizione: il punto di vista esterno al sistema. Il più difficile: richiede oggettività e pensiero critico, cose che non vengono immediate ai più.

La parola chiave di questo stile di pensiero “innaturale” è systems thinking. È un metodo per comprendere i problemi complessi studiando le interrelazioni tra le parti e il tutto. È un modo per vedere il quadro d’insieme e come cambia nel tempo: un po’ come guardare un film piuttosto che una serie di istantanee.

Il systems thinking ti consente di risolvere i problemi rispettando il contesto. Per esempio, se devi progettare una sedia, considera la stanza in cui andrà inserita. Se devi arredare una stanza, considera la casa di cui è parte. Se devi concepire una casa, rispetta la comunità cui appartiene. Se devi governare una comunità, considera l’ambiente che la sostiene.

Se consideri l’insieme invece dei frammenti, crei soluzioni, prodotti o esperienze in sintonia con il contesto più generale, e che hanno, pertanto, più valore.

A me questa cosa del valore mi fa venire il cimurro, e il systems thinking è un po’ banalizzato, ma il resto non è male.

46 regole per diventare un genio [6]

Sesta puntata (per la quinta, andate qui).

La sesta regola è (con le mie rudimentali traduzioni del pensiero di Neumeier, che non sempre condivido):

Frame problems tightly

Inquadra i problemi rigorosamente

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Un mito molto diffuso: il genio ha bisogno di una tela grande. Eppure qualunque persona creativa sa che non è vero. Troppa libertà conduce alla mediocrità. Perché? Perché senza confini non c’è incentivo a violarli. Un vero genio non trova difficile violare una convenzione o ridefinire un compito: è la sua seconda natura. Ma lascia troppa libertà a una persona creativa e otterrai un risultato finale troppo pensato, troppo rifinito, troppo costoso e troppo sfocato. Il più bel regalo che puoi fare un genio è dargli un limite, non carta bianca.

L’idea di fondo è questa: Assegnare un compito ben strutturato incanala l’energia, assegnarne uno troppo vasto la dissipa. Quando una persona creativa si impantana, non è perché non riesce a vedere la soluzione; è perché non riesce a vedere il problema. Ecco allora una formula per inquadrare un compito in modo da vederne con chiarezza i contorni:

  1. Definisci il compito: riassumi il problema in poche righe, poi descrivi gli esiti più probabili se non si intervenisse.
  2. Elenca i vincoli: i vincoli sono i confini alla creatività imposti dal problema. Ci sono tetti di spesa? termini temporali? barriere tecnologiche? ostacoli politici? vincoli commerciali? problemi di marchio? deficit cognitivi?  ostacoli alla libera concorrenza? I vincoli sono importanti perché definiscono un quadro rigoroso e orientano verso le soluzioni.
  3. Elenca le potenzialità implicite (affordance): le potenzialità implicite sono possibilità creative presenti all’interno del problema stesso. Se i vincoli chiudono la porta, le potenzialità implicite aprono finestre. Vincoli e potenzialità definiscono lo spazio entro il quale le idee nuove possono muoversi, danzare. Che cosa manca nel mercato? Su quali competenze posso puntare? Che forze ho in squadra? Come posso migliorare la tecnologia? Che cosa mi suggerisce il problema? Dentro ogni problema c’è una soluzione nascosta.
  4. Definisci il successo: nella definizione del problema hai suggerito l’esito più probabile dell’inazione. Ora descrivi i risultati più importanti che intendi conseguire.

Un problema ben definito è un problema quasi risolto.

Anche qui cose su cui riflettere, con i consueti caveat anti-fuffa.

Le tavole rotonde sono noiose: aboliamo il moderatore

Non lo dico io. Lo sostiene  Jody Avirgan in un articolo comparso su The Atlantic il 12 marzo 2014 sotto il titolo How to fix boring conference panels: Get rid of the moderator.

qzprod.files.wordpress.com

Il ragionamento di Avirgan è piuttosto lineare: le tavole rotonde sono noiose perché sono prevedibili, e sono prevedibili perché c’è il moderatore. Il moderatore fornisce una stampella strutturata su cui tutti i partecipanti possono appoggiare le proprie argomentazioni più trite. Ergo: meglio abolire il moderatore.

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Zan zan zan, le belle rane

Questa non è una ranocchia (grazie a Jerry Coyne: Ceci n’est pas une grenouille).

whyevolutionistrue.files.wordpress.com

Ed ecco spiegato l’arcano:

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Ma vi mancava poi così tanto, il morbillo?

Di tutte le cose dei bei tempi andati che rimpiangete, era proprio il morbillo quella che vi mancava di più?

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Se è così siete fortunati, perché a New York è tornato. Leggi il seguito di questo post »

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L’apocalisse dei droni

Su Quartz dell’11 marzo 2014 è apparso un articolo inquietante di Noah Smith, un professore associato di finanza alla Stony Brook University.

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La tesi di Smith è abbastanza semplice. Per 700 anni – scrive Smith – abbiamo vissuto nell’era del fucile o, se volete, nell’era della fanteria. Immaginate di tornare nel 1400. A quell’epoca, e per molti secoli prima, il campo di battaglia era stato dominato dal cavaliere, un guerriero nobile che aveva dedicato tutta la sua vita a esercitarsi nell’arte della guerra. Immaginatevi la sorpresa di quel cavaliere quando si trovò disarcionato o ferito a morte da un ex-contadino armato di un lungo tubo di metallo e con un addestramento militare di un paio di settimane. Leggi il seguito di questo post »

L’anima della «Bestia mod. 3»

È la seconda volta che mi imbatto in questo testo, abbastanza noto negli Stati Uniti e (per quanto ne so) del tutto sconosciuto da noi. La prima volta è stato quando ho letto The Mind’s I di Douglas R. Hofstadter e Daniel C. Dennett, di cui ho parlato fuggevolmente poco tempo fa, qui. La seconda è stata qualche giorno fa, in un libro che sto ancora leggendo: Wetware di Dennis Bray.

È tratto da un romanzo di Terrel Miedaner, The Soul of Anna Klane. Non è mai stato tradotto in italiano, e non è facilissimo da trovare neppure in originale. Ma The Mind’s I è stato tradotto (L’Io della mente) e, quindi, una traduzione di questo brano esiste ed è dovuta a Giuseppe Longo, traduttore di The Mind’s I per Adelphi.

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Io però ho deciso di non utilizzare quella traduzione e cimentarmi nell’impresa in proprio.

* * *

I personaggi e interpreti sono: Dirksen, una donna; Hunt, un avvocato; Klane, nella cui casa si svolgono i fatti ma che non compare nell’episodio.

* * *

Mezz’ora dopo Dirksen entrava nella casa di Klane in compagnia dell’avvocato. Il cancello si era aperto automaticamente all’avvicinarsi della macchina, così come s’era aperta la porta, senza bisogno della chiave.

Seguì nel laboratorio del seminterrato Hunt, che aprì uno dei tanti armadietti e ne estrasse un grosso coleottero d’alluminio, con alcune spie luminose e qualche protuberanza su una superficie per il resto assolutamente liscia. Lo girò e Dirksen vide tre ruote di gomma sul lato inferiore, che era piatto e riportava incisa la scritta «BESTIA MOD. 3».

Hunt appoggiò l’aggeggio sulle piastrelle del pavimento e fece scattare il piccolo interruttore sulla pancia. Con un lieve ronzio il giocattolo cominciò a muoversi avanti e indietro sul pavimento, come se cercasse qualcosa. Esitò un attimo davanti a una grossa struttura, poi si fermò davanti a una presa di corrente, fece uscire una spina da una piccola apertura del suo corpo metallico e la infilò nella presa. Alcune delle spie si accesero sul verde e dall’interno si produsse un suono simile alle fusa di un gatto.

Dirksen guardò con interesse il congegno: “Un animale meccanico. Carino: a che serve?”

Hunt prese un martello dal bancone e glielo porse. “Vorrei che lo ammazzassi.”

“Ma che dici?” disse Dirksen un po’ allarmata. “Perché dovrei ammazzare… rompere… quella macchina?” E fece un passo indietro senza prendere in mano il martello.

“È solo un esperimento,” rispose Hunt. “L’ho fatto anch’io qualche anno fa su richiesta di Klane e l’ho trovato istruttivo.”

“E che cos’hai imparato?”

“Qualcosa sul significato della vita e della morte.”

Dirksen guardò Hunt perplessa.

“La ‘bestia’ non ha difese che ti possano fare del male,” la rassicurò. “Devi solo stare attenta a non andare a sbattere contro qualcosa mentre l’insegui.” E le porse di nuovo il martello.

Esitò, fece un passo in avanti, prese l’arma, guardò di sottecchi la strana macchina che ronfava beatamente e succhiava corrente elettrica. Si avvicinò, si chinò e alzò il martello. “Ma… sta mangiando,” disse, girandosi verso Hunt.

Hunt si mise a ridere. Allora Dirksen, punta nel vivo, sollevò il martello con entrambe le mani e lo calò con forza.

Ma con un rumore acuto come un grido di paura la bestia aveva ritratto le mandibola dalla presa ed era scappata. Il martello si abbatte sul pavimento dove poco prima c’era il corpo della macchina. La piastrella si scheggiò.

Dirksen alzò lo sguardo. Hunt rideva di nuovo. La macchina si era spostata di un paio metri e poi s’era fermata, tenendola d’occhio. Ma no, si disse Dirksen , non mi sta tenendo d’occhio.

Irritata con sé stessa, Dirksen riprese in mano il martello e avanzò cauta. La macchina indietreggiava, e un paio di spie rosse lampeggiavano, a volte più intense e a volte meno, all’incirca al ritmo delle onde alfa dell’elettroencefalogramma umano. Dirksen prese lo slancio, martello in mano, e fece cilecca …

Dopo dieci minuti tornò da Hunt, accaldata e affannata. Era dolorante dove era andata a sbattere contro qualche oggetto del laboratorio e le faceva male la testa dove aveva sbattuto contro un bancone. “È come cercare di prendere un topone! Quando si scaricano quelle stupide batterie?”

Hunt guardò l’orologio: “Un’altra mezzoretta, direi. Sempre che tu lo faccia correre.” Indicò sotto un bancone, dove la bestia aveva trovato un’altra presa elettrica. “Ma c’è un modo più facile di prenderlo.”

“Dimmelo.”

“Posa il martello e prendilo con le mani.”

“Tutto qui… con le mani?”

“Sì. Riconosce il pericolo soltanto nei suoi simili: in questo caso nel martello perché è di metallo. Ma non è programmato per percepire il protoplasma disarmato come una minaccia.”

Dirksen allora appoggiò il martello sul bancone e si avvicinò piano piano. La macchina non si mosse. Aveva smesso di fare le fusa e gli indicatori emanavano una pallida luce ambrata. Dirksen si chinò e provò a toccarlo: sentì una leggera vibrazione. Allora lo prese cautamente con tutte e due le mani. Le luci virarono al verde brillante e attraverso il confortevole tepore della pelle metallica si sentiva il quieto ronzio dei motori.

“E adesso che me ne faccio di questa stupida cosa?” chiese con un pizzico d’irritazione.

“Mettilo sul bancone a pancia all’aria. In quella posizione non può fare niente e lo puoi colpire con tutto comodo.”

“Uffa, ne ho abbastanza di antropomorfismi,” borbotto Dirksen, ma seguì i consigli di Hunt, decisa a farla finita una volta per tutte con quella storia.

Quando capovolse la macchina e l’appoggiò, le spie tornarono sul rosso. Le ruote girarono brevemente e poi si fermarono. Dirksen riprese il martello, gli fece percorrere un arco di cerchio e colpì la macchina indifesa: però di lato, danneggiando una delle ruote ma facendola ritornare nella posizione giusta. Si sentì il raschiare metallico della ruota rotta e la bestia, a scatti, cominciò a muoversi  in tondo. Poi si senti che qualche cosa all’interno si schiantava  e la macchina si fermò di nuovo. Le spie emanavano un chiarore triste.

Dirksen serrò le labbra e calò il martello per il colpo finale. In quel momento la bestia emise un suono, un grido tenue e lamentoso come un bambino piagnucoloso. Dirksen lasciò cadere il martello dalle mani e fece un balzo indietro, gli occhi fissi sulla pozza rosso sangue di lubrificante che si spandeva sul tavolo sotto la creatura. Guardò Hunt con orrore: “Ma è… è…”

“È soltanto una macchina,” disse Hunt, ora tutto serio. “Come queste, quelle che l’hanno preceduta nella sua storia evolutiva,” disse indicando le macchine appoggiate sugli scaffali del laboratorio, che sembravano osservarli mute e minacciose. “Ma a differenza di loro, può sentire l’avvicinarsi del suo fato e chiamare aiuto.”

“Spegnilo,” disse con voce sorda.

Hunt si avvicinò al bancone e trafficò intorno al piccolo interruttore. “Mi sa che l’hai incastrato.” Raccolse il martello dal pavimento, dove era caduto. “Ti va di dargli il colpo di grazia?”

Dirksen fece un passo indietro, scuotendo la testa. Hunt calò il martello. “Non potresti provare ad aggiustar…” Ci fu un breve schianto metallico. Dirksen sobbalzò e distolse lo sguardo. Il lamento cessò. Risalirono le scale in silenzio.

* * *

Non siamo di fronte a un capolavoro, direi. Però, c’è molta abilità artigianale nella costruzione del testo. Questo è il motivo per cui ho voluto tradurlo da solo (non che Longo abbia fatto un cattivo lavoro, ma è certo stato meno severo e meno attento di me nel seguire gli equilibrismi sottilmente calcolati da Miedaner). Tutto l’episodio è giocato sull’ambiguità della BESTIA MOD. 3. Sulla continua ambiguità di parlarne, a volte nella stessa frase, come di un macchina o come di un animale.

Per me il gioco è abbastanza trasparente: assumere la prospettiva intenzionale, attribuire cioè a qualcosa che c’è là fuori – e ha determinati comportamenti e le caratteristiche di un essere senziente dotato di credenze e obiettivi – è razionale e comporta un vantaggio evolutivo. Ne va letteralmente della pelle: meglio scambiare una roccia macchiettata per un leopardo nascosto (e prendersi una grande paura senza altre conseguenze), che scambiare un leopardo nascosto per una roccia macchiettata (#pitecantropostaisereno, ma non lo racconterai ai tuoi nipoti). Bersani docet.

Mi è più facile pensare che io sono una macchina come BESTIA MOD. 3 o come un astice, che non pensare che BESTIA MOD. 3 e l’astice siano esseri senzienti.

Ma questo lo sospettavate, no? E voi, che ne pensate?

Che cosa ha detto veramente Krugman di Padoan

Premessa.

Tra le cose che mi irritano di più delle abitudini dei giornalisti italiani c’è il vizio di far prevalere il commento e l’opinione sul “fatto” sottostante e quello, parallelo e complementare, di non agevolare l’accesso alla fonte. Eppure, adesso, l’accesso alla fonte è semplicissimo: basta un link e se la fonte è in italiano o in inglese (o in altra lingua conosciuta o traducibile anche rozzamente via Google Translate) ci possiamo fare un’opinione in proprio senza la mediazione dei giornalisti. Che è esattamente quello che i giornalisti non vogliono che noi facciamo (renderli più inutili di quanto già non siano). E che è esattamente il diritto che ci dobbiamo prendere.

Lo spunto.

Sui social network (soprattutto Twitter e Facebook) ma anche su qualche sito e qualche quotidiano (per esempio, su La Stampa di venerdì, in un articolo per la verità ben documentato) è circolata la notizia che Paul Krugman, che è un  premio Nobel per l’economia, ha duramente criticato Pier Carlo Padoan, neo Ministro dell’economia e delle finanze del gabinetto Renzi. Messaggio implicito: se un Nobel lo critica aspramente, Padoan deve essere un incompetente.

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Io non intendo difendere Padoan, che sarà senz’altro capace di farlo da sé qualora lo ritenesse opportuno (io, fossi in lui, non lo farei, ponendomi al di sopra di questi pettegolezzi da bar interno del ministero), ma solo mettere in fila fonti e fatti.

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Il contesto.

Da tempo volevo scrivere una cosa, e sono stato tentato di farlo anche molto di recente, su questo post a proposito di Coase e Williamson: i premi Nobel istituiti da Alfred Nobel, inventore della dinamite, nel suo testamento e conferiti dal 1901, sono 5: quelli per la pace, la letteratura, la chimica, la medicina e la fisica. Quello per l’economia non è un premio istituito da Alfred Nobel, ma è stato istituito e conferito dalla Banca di Svezia a partire dal 1969 (nel 300° anniversario dalla fondazione) e denominato Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel (in svedese Sveriges Riksbanks pris i ekonomisk vetenskap till Alfred Nobels minne), con il chiaro intento di giocare un po’ sul facile equivoco. Ciò non toglie che il premio sia molto prestigioso.

Krugman è un neo-keynesiano in economia e un democratico in politica. È un polemista abile e tagliente. Oltre a essere un editorialista del New York Times, tiene sul sito del quotidiano un blog intitolato The Conscience of a Liberal: è sul blog che il 30 aprile 2013 (quasi 10 mesi fa) ha criticato Padoan in quanto Chief Economist dell’OECD.

Ma poi – e nessuno, mi pare, se ne è accorto finora – è tornato sul tema l’altroieri, 21 febbraio 2014, attaccando l’istituzione e non il suo Chief Economist.

E adesso godetevi gli articoli, che sono più testimonianza della brillantezza di Krugman che delle supposte pecche di Padoan.

L’articolo dell’anno scorso (30 aprile 2013).

The Beatings Must Continue

Sometimes economists in official positions give bad advice; sometimes they give very, very bad advice; and sometimes they work at the OECD.
It’s almost exactly three years since the Paris-based OECD gave what may have been the worst advice of any major international organization — worse than the European Commission, worse than the ECB. Not only did it join in the demand for fiscal austerity, it also demanded that the US start raising interest rates rapidly, so as to head off the threat of inflation — even though its own models showed no such threat.
So here we are three years later. No inflation takeoff in America (and the Fed trying to find ways to boost demand at a zero rate); austerity economics has crashed and burned; the latest numbers from Eurostat look like this:
And what is the OECD’s chief economist (still the same person) saying?

The euro zone is at risk of snatching defeat from the jaws of victory by abandoning efforts to cut budget deficits and fix long-standing economic problems, the Organization for Economic Cooperation and Development‘s chief economist warned Monday.

Mr. Padoan said the growing perception that austerity has been futile is incorrect.
“Fiscal consolidation is producing results, the pain is producing results,” he said.
He added that euro-zone policy makers need to do a better job of communicating their successes to a weary population.

I believe that’s eurospeak for “the beatings will continue until morale improves.”

L’articolo dell’altro ieri (21 febbraio 2014).

Structural Reform is the Last Refuge of Scoundrels

OK, let’s be clear: I’m in favor of structural reform (as long as it’s the right kind of reform). I’m also in favor of peace, kindness, and good coffee for everyone.
But when I see influential people calling for structural reform as the universal answer to all economic problems, I get angry.
Hence my morning ire at the OECD.
Some background: the OECD is definitely one of the bad guys of this crisis. Back in 2010, it not only enthusiastically endorsed fiscal austerity, it demanded sharply higher interest rates too. When austerity and inadequate monetary stimulus led Europe to an economic performance now in line with that of the 1930s, the OECD warned vociferously against any change in course.
Now, with growth terrible and disinflation-heading-toward-deflation a real threat — largely thanks to the tight fiscal and inadequate monetary policies the OECD cheered on — the OECD warns that things don’t look good. And the answer is … structural reform!
I’m sorry: This may sound serious, but it’s intellectually lazy and cowardly.