Abracadabra (e Abraxas)

Ero convinto che abracadabra fosse una parola inventata di recente, magari da un illusionista o dalla gilda dei prestigiatori, come sim-sala-bim o come hocus-pocus: anche se per quest’ultima formula si ipotizza persino una blasfema storpiatura di hoc est (enim) corpus (meum). E invece abracadabra è una parola magica antichissima, ancorché di origine incerta.

Secondo il Vocabolario Treccani:

  1. Parola magica, inintelligibile per sé stessa, quantunque ne sia stata proposta un’etimologia (ebr. habĕrakāh dabĕrāh «pronunciare la benedizione»), di uso frequente nella magia mistica antica. Si soleva scrivere in amuleti, intera nella prima riga, diminuendola poi di una lettera a destra in ciascuna delle successive, e formando così un triangolo con il vertice in basso costituito dalla lettera a: questi amuleti erano ritenuti efficaci contro le malattie (quali la febbre terzana), immaginandosi che, come il nome si riduceva gradatamente, così anche la malattia sarebbe scomparsa.
  2. Come s. m., invar., cosa incomprensibile e confusa, gioco di parole volutamente oscuro: è un vero abracadabra!

mainikka.altervista.org

Qualcosa di più dice l’Enciclopedia Treccani, non tanto nell’edizione corrente online, che ripete in buona sostanza il lemma del Vocabolario:

Parola magica, inintelligibile in sé stessa, pertanto divenuta sinonimo di «cosa incomprensibile e confusa». Si scriveva in amuleti, intera nella prima riga, diminuendola poi di una lettera a destra in ciascuna delle successive, in modo da disegnare un triangolo, avente il vertice in basso, e del quale la lettera a costituiva un lato e ciascuna delle altre una linea parallela a esso, mentre nel lato opposto si leggeva, dall’alto al basso, la parola rovesciata (arbadacarba). Questi amuleti erano ritenuti efficaci contro alcune malattie: si pensava infatti che, come il nome si riduceva gradatamente, così anche la malattia sarebbe scomparsa.

Quanto nell’estratto dalla storica edizione del 1929, che ci propone un collegamento con la parola abraxas e una teoria su chi per primo ne avesse proposto l’uso magico-medicinale:

Una tra le formule a cui gli gnostici attribuivano particolare efficacia (v. abraxas). Nel suo Liber medicinalis (v. 941 segg.) Q. Sereno (Sereno Sammonico?) consiglia di scrivere la parola su una carta, dapprima per intero, poi man mano togliendo una lettera […]. La carta con questa formula legata al collo del paziente, avrebbe servito ad allontanare – miranda potentia! – le malattie letali. Si è confusa con questa parola magica l’altra greca, parimenti inintelligibile, A B Λ A N A Θ A N A Λ B A.

Quanto all’abraxas, anche questa è una parola di cui – pur avendola incontrata qualche volta, se non altro nello storico secondo album (1970) del gruppo di Carlos Santana – ignoravo il significato.

Giusto per la cronaca: Abraxas è anche il diciannovesiomo Book of Angels del progetto Masada di John Zorn (di cui abbiamo parlato più volte: qui, qui, qui e qui):

Torniamo ad abraxas. Niente paura, l’Istituto dell’enciclopedia italiana ci viene in aiuto anche su questo:

Parola magica, inintelligibile in sé stessa, di valore numerico pari a 365, somma dei numeri rappresentati in greco dalle singole lettere che la compongono. Rappresentava i giorni dell’anno solare, e nel sistema gnostico di Basilide, il mondo intermedio (costituito da 365 cieli), mediante il quale l’essere supremo era detto comunicare con quello terrestre. [Enciclopedia online]

ABRAXAS (ἀβράξας, ἀβράσαξ). – Amuleti in forma di gemme con raffigurazione di un essere favoloso con corpo umano, testa di gallo e gambe serpentiformi, identificabile con una divinità gnostica detta A., talora accompagnata da iscrizioni (v. gnostiche, gemme). La parola A. si trova incisa anche accanto a simboli varî di divinità egizie, sincretistiche, ebraiche. Essa ha valore numerico corrispondente a 365; esprime i giorni dell’anno solare e, nel sistema gnostico di Basilide, il “mondo intermedio” mediante il quale l’essere supremo, chiamato appunto A., era detto comunicare con quello terrestre.
Bibl: G. Barzilai, Gli A. studio archeologico, Trieste 1873; A. Dieterich, Abraxas, Studien z. Religionsgesch. d. späteren Altertums, Lipsia 1891. [Enciclopedia dell’arte antica, 1958]

  1. s. m. Nome con cui vengono indicate alcune gemme (dette anche gemme gnostiche), adoperate un tempo come amuleti, in quanto portano incisa, accanto a figurazioni e iscrizioni simboliche, la parola magica abraxas o più spesso abrasax, che nel mondo ellenistico-romano, e specialmente nel sistema gnostico di Basilide (2° sec. d. C.), aveva vario significato simbolico.
  2. s. f. Genere di farfalle della famiglia geometridi (lat. scient. Abraxas: così chiamate per il disegno delle ali e con riferimento alle gemme); una sua specie, Abraxas grossulariata, le cui larve vivono su piante rosacee, pomoidee e prunoidee, è nota perché presenta uno dei primi casi osservati, in genetica, di eredità legata al sesso. [Vocabolario online]

Più garrula della Treccani, Wikipedia propone una sfilza di possibili etimologie (nessuna convincente, se volete il mio parere):

  1. Dall’aramaico Avrah KaDabra che significa Io creerò come parlo.
  2. Dall’ebraico Abreq ad habra con significato di invia la tua folgore fino alla morte.
  3. Ancora dall’ebraico ab (“padre”), ben (“figlio”), e ruach hacadosch (“spirito santo”).
  4. Semplicemente un derivato o una storpiatura di Abraxas.
  5. Il nome di un demone ebraico (unita alla precedente, ne scaturisce l’ipotesi Zorn).
  6. Dall’arabo Abra Kadabra, che significa fa che le cose siano distrutte.
  7. Dall’aramaico abhadda kedhabhra, col significato di sparisci come questa parola.

Wikipedia ci informa anche che Quintus Serenus Sammonicus (l’abbiamo incontrato prima, ricordate?) era il medico di Caracalla e che i suoi insegnamenti furono seguiti anche da Geta e Alessandro Severo. E che Carlo Levi, nel suo libro di maggior successo Cristo si è fermato a Eboli, autobiografico, in qualità di medico riferisce di aver notato spesso il triangolo dell’Abracadabra rivolto verso l’alto e portato come ciondolo in metallo o come foglietto scaramantico dai contadini della Lucania.

Dimenticavo: Avada Kedavra è il più letale degli incantesimi contenuti nella saga di Harry Potter e la stessa Rowling riconosce il debito da abracadabra [During an audience interview at the Edinburgh Book Festival (15 April 2004) Rowling said: “Does anyone know where avada kedavra came from? It is an ancient spell in Aramaic, and it is the original of abracadabra, which means ‘let the thing be destroyed.’ Originally, it was used to cure illness and the ‘thing’ was the illness, but I decided to make it the ‘thing’ as in the person standing in front of me. I take a lot of liberties with things like that. I twist them round and make them mine.”] cui va probabilmente aggiunta l’attrazione per assonanza con il latino cadaver.

Qualcuno su YouTube si è preso la briga di fare la compilation di tutti gli Avada kadavra che compaiono nella saga cinematografica:

Apofatico

Ho imparato una parola nuova, apofàtico.

Secondo il Vocabolario Treccani:

apofàtico agg. [dal gr. ἀποϕατικός «negativo», der. di ἀπόϕημι «negare», ἀπόϕασις «negazione»] (pl. m. –ci). – Nella logica aristotelica, di giudizio che nega l’appartenenza di un predicato a un soggetto. Teologia apofatica, quella che procede alla conoscenza di Dio per via di negazioni, dicendo ciò che Dio non è.

Il contrario di apofatico è catafatico (sempre dal Vocabolario Treccani):

catafàtico agg. [dal gr. καταϕατικός «affermativo», der. di κατάϕημι «affermare»] (pl. m. –ci), non comune. [eh già, perché invece apofatico è sulla bocca di tutti – nota mia] – Termine usato quasi esclusivamente nella locuzione teologia catafatica, teologia che svolge il discorso su Dio attribuendo a lui, in sommo grado, tutti i valori; si contrappone come metodo alla teologia apofatica o negativa (con la quale però storicamente a volte si integra).

Curiosamente, su questi aspetti teologici l’Enciclopedia Treccani online si perde in una curiosa circolarità. Infatti:

Catafatica, teologia Teologia che attribuisce in sommo grado a Dio, come causa prima di tutto il creato, le qualità positive che connotano le creature. Si contrappone (ma storicamente a volte si integra) alla teologia apofatica o negativa.

Apofatico Nella logica aristotelica, riferito a ciò che separa una cosa da un’altra, che nega l’appartenenza di un predicato a un soggetto. La teologia apofatica (in opposizione alla catafatica) è quella che procede alla conoscenza di Dio per via di negazioni, dicendo ciò che Dio non è. [è quello che aveva già detto nel Vocabolario e non mi sembra ci faccia fare molti passi in avanti – nota mia]

Per fortuna su questa teologia apofatica ci viene in soccorso Wikipedia:

La teologia affermativa, positiva o catafatica, detta anche catafatismo (dal greco antico katàphasis, che significa “affermazione”), è un metodo teologico che sostiene la conoscibilità di Dio attraverso la ragione e il contatto con la realtà. Il Creato, visto come opera di Dio, diventa lo strumento attraverso cui è possibile individuare gli attributi del Creatore. Questa teoria, nota pure come via positionis o affirmationis, ha per contraltare l’apofatismo già nel Peri hermêneias (De Interpretatione) della Logica (Organon) di Aristotele e si è poi sviluppata eminentemente nel contesto della Scolastica medievale.

La teologia negativa è un tipo di riflessione religiosa e filosofica che si propone di indagare Dio secondo una prospettiva puramente logico-formale, prescindendo totalmente da contenuti sostanziali.
Dio viene studiato cioè come il limite estremo su cui il pensiero logico si attesta e oltre il quale non può andare, dovendo da lì in poi cedere il passo alla fede e a un sapere rivelato. Secondo l’argomento ontologico utilizzato da vari filosofi, infatti, la logica riuscirebbe al massimo ad affermare che Dio non può non essere; per il resto, non ci può dire cosa è Dio, ma ci dice cosa Egli non è. Il metodo negativo, altrimenti noto come via negationis, consiste in definitiva nello studiare e nel definire una realtà a partire unicamente dal suo contrario. Di qui la valorizzazione del limite, dell’errore che pur opponendosi alla verità, permette in qualche modo di circoscriverla. La ragione umana mira così ad avvicinarsi all’Assoluto proprio grazie alla consapevolezza di essere fallibile e limitata. Diventare coscienti di un limite, infatti, è già un modo di trascenderlo e di superarlo. [questo è soltanto l’inizio della voce, che poi percorre la la storia della via negationis da Plotino a Heidegger]

L’apofatismo (dal greco ἀπό φημι che significa letteralmente lontano dal dire, non dire) è un metodo teologico secondo il quale Dio è del tutto inconoscibile attraverso la razionalità, perché trascende la realtà fisica e le capacità cognitive umane.
In quest’ottica, l’approccio più adeguato a Dio è quello che prevede il silenzio, la contemplazione e l’adorazione del mistero, e prescinde cioè da qualsivoglia processo di speculazione o indagine razionale dell’essere divino.
Questa teoria è l’esatto contrario del catafatismo della teologia affermativa, la quale prevede la conoscibilità di Dio attraverso l’uso della ragione e dell’intelletto.
La teologia negativa, tuttavia, che si serve di un tale metodo apofatico, ammette in parte la possibilità di un esercizio discorsivo e razionale per avvicinarsi a Dio, non dicendo cosa Egli è, ma dicendo cosa Egli non è. Essa culmina comunque nel silenzio.

Prima di culminare anche noi nel silenzio, due citazioni.

La prima è di Luigi Lombardi Vallauri, di cui ignoravo tutto fino a qualche minuto fa, ma che ha scritto un libro (pare importante, lo dico senza alcuna ironia) intitolato Nera Luce: Saggio su cattolicesimo e apofatismo:

La mia posizione filosofica generale si chiama apofatismo. Sostengo che l’esercizio strenuo della razionalità in merito agli interrogativi ultimi sulla vita non approda a idee chiare e distinte ma all’irrappresentabile. Anche la singolarità iniziale del Big Bang, preceduta dal puro nulla, è irrappresentabile, come tutte le soluzioni che abbiamo sull’origine dell’universo. L’apofatismo è la nube della non conoscenza, ma non per sfiducia nella ragione.

La seconda è una nota e bellissima poesia di Eugenio Montale, che propongo di eleggere a inno dell’apofatismo.

Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

virna-ogniricciouncapriccio.blogspot.com

Apofatici di tutto il mondo, uniamoci. Ma nel silenzio.

Cervello di gallina

Oggi mi sono imbattuto nel termine inglese hare-brained, che per il Merriam-Webster significa: “foolish, absurd, ridicolous, very silly, stupid”. Secondo l’Oxford English Dictionary compare per la prima volta nel 1548.

Letteralmente significa “dotato del cervello di una lepre”, sia perché le lepri non hanno un cervello particolarmente sviluppato, sia per il loro comportamento nella stagione degli amori: ve la ricordate le Lepre Marzolina di Alice nel paese delle meraviglie?

March Hare

wikipedia.org

Ero pronto a lanciarmi in un’ipotesi sulle diverse abitudini alimentari degli italiani e degli inglesi, e forse anche sulla loro rispettiva ricchezza e povertà misurata dall’apporto calorico all’epoca del formarsi dei modi di dire, quando ho trovato questa riflessione sul sito dell’Enciclopedia Treccani che ha subito ridimensionato le mie aspirazioni:

Cervello d’oca, di gallina

Non infrequentemente, nel parlare comune, si fa riferimento alle caratteristiche, positive o negative, attribuite a un animale, per qualificare diversi aspetti del comportamento o del carattere di una persona: così, per esempio, avere un occhio di lince è detto di chi ha una vista o un’intelligenza molto acuta, mentre chi si rivela maldestro, privo di tatto e di finezza viene tacciato di avere la grazia o la delicatezza di un elefante. A questo stesso ambito appartiene anche l’espressione, di registro familiare, avere un cervello d’oca o di gallina, largamente usata con riferimento a persona alla quale si attribuisca scarsa intelligenza o poco giudizio e basata sulla presunta relazione fra capacità intellettive e dimensioni del cervello, così come altri analoghi modi di dire, oggi poco usati, ma ampiamente diffusi in passato. Così, per esempio, annota il Tommaseo, nel suo Dizionario, alla voce cervello: «Cervel di formica, di passera, di fringuello, d’oca. L’ultimo dice stupidità e goffaggine, il terzo e secondo meschinità e leggerezza, il primo angustia e minuziosità».

Tali espressioni, ed altre simili, continuano ad essere registrate con costanza anche nei lessici e nei vocabolari italiani del Novecento; due interessanti esempi sono offerti dal Vocabolario della lingua italiana, a cura di Giulio Bertoni, pubblicato dalla Reale Accademia d’Italia nel 1941 («Cervello di gatta, d’oca, di grillo, di passerotto, d’uccellino e simili, persona di pochissima intelligenza») e dal Vocabolario della lingua italiana di Giulio Cappuccini e Bruno Migliorini pubblicato nel 1945 («I cervelli di talune bestie si mangiano; altri servono a paragoni poco lusinghieri. E invece di dire che uno ha il cervello matto, storto, o sim., si dice pure che ha un cervello d’oca, di fringuello, di grillo o sim.»). Diversamente, per trovare una delle prime attestazioni lessicografiche di avere un cervello di gallina bisogna attendere la pubblicazione del Dizionario Enciclopedico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, 1955-1961 («avere un cervello d’oca, di gallina, d’uccellino, di passero, di fringuello, di grillo, di formica e sim., esser persona di poco giudizio o di scarsa intelligenza»).

Può essere, infine, non inutile ricordare che espressioni similari sono diffuse anche nell’uso colloquiale di altre lingue e, in particolare, dell’inglese (to have the brain of a bird, to be a birdbrain) e del francese (avoir une cervelle d’oiseau, d’autruche, de moineau).

Luigi Romani