Humphrey, Nicholas (2006). Seeing Red: A Study in Consciousness. Cambridge: The Belknap Press of Harvard University Press. 2006.
Un bel libro, che parte lentamente e lasciando qualche perplessità, ma che va crescendo, chiudendosi con un’ipotesi sull’evoluzione della coscienza molto convincente e quasi entusiasmante.
Il libro nasce da un ciclo di lezioni tenute dall’autore ad Harvard nell’aprile del 2004 e mantiene la struttura, la leggerezza, il procedere graduale delle lezioni magistrali.
Le perplessità iniziali nascono dall’approccio filosofico che Humphrey accetta come punto di partenza. Humphrey distingue nell’esperienza di “vedere rosso” due componenti, una “proposizionale” (la rappresentazione di quello che succede “là fuori” e anche degli stessi processi mentali) e una “fenomenica” (le sensazioni visuali – e qui nascono i problemi, perché queste portano dritti dritti ai famigerati “qualia”).
I qualia sono utilizzati, in genere, da coloro che sostengono che la coscienza è qualcosa di mistico, di inafferrabile, di irriducibile al modo in cui funziona il nostro cervello, e di collegato a qualcosa di essenziale a ciò di cui noi umani siamo fatti (una specie di flogisto mentale). I qualia, così, sono utilizzati per riproporre un dualismo cartesiano tra mente e cervello, tra res cogitans e res extensa.
A Humphrey, invece, la distinzione serve per introdurre una differenza tra percezione e sensazione, e per chiedersi: a che serve la sensazione, una volta che hai la percezione. La risposta è evoluzionistica: secondo l’autore, la sensazione si sarebbe evoluta per prima, da canali locali di stimolo-risposta (“Che cosa mi sta succedendo localmente, qui ora e a me?” – cioè “qualitative, present-tense, transient and subjective”), che sarebbero poi stati “privatizzati” dal cervello, una volta che si sono evoluti i canali percettivi (“Che sta succedendo là fuori nel mondo?” – cioè “quantitative, analytical, permanent, and objective”).
Forse non a tutti piacerà pensare che il proprio senso del sé, la propria coscienza, sia una specie di pelo incarnito, una specie di dente del giudizio, il residuato di un cammino evoluzionistico in parte superato. Io lo trovo convincente (anche se molto dovrà essere fatto per confermare empiricamente questa ipotesi), come trovo anche convincente la spiegazione che Humphrey dà della nostra dilatata sensazione del “presente”.
Per convincervi che anche una visione rigorosamente materialistica può essere piena di rispetto e stupore, riporto la poesia di Gerard Manley Hopkins che chiude il volume:
As kingfishers catch fire, dragonflies draw flame;
As tumbled over rim in roundy wells
Stones ring; like each tucked string tells, each hung bell’s
Bow swung finds tongue to fling out broad its name;
Each mortal thing does one thing and the same:
Deals out that being indoors each one dwells;
Selves – goes itself; myself it speaks and spells,
Crying What I do is me: for that I came.