Bourdieu, Pierre (1979). La distinzione. Critica sociale del gusto. Bologna: Il Mulino. 2001.
È un classico della sociologia ed è colpa mia, che non amo i sociologi, non averlo letto prima. Meglio tardi che mai (o, piuttosto, meglio mai che tardi, come afferma uno dei miei proverbi pessimisti?).
Un gran libro, con qualche difetto.
Cominciamo da questi.
È un libro “molto francese”: lo stesso curatore italiano, Marco Santoro, sente il bisogno di affermarlo, quasi a mettere le mani avanti, all’inizio della sua Presentazione. Francese potrebbe voler dire due cose: che il testo è pieno di voli pindarici, di intrecci multidisciplinari mal digeriti, di prestiti dalle discipline scientifiche, di giudizi di valore non corroborati da argomentazioni solide. Insomma, il post-modernismo deteriore cui ci hanno abituato i vari Lacan, Luce Irigaray, Deleuze e Guattari e compagnia cantante. Personalmente non gradisco e penso che la parola definitiva l’abbia detta Sokal con la sua nota beffa e poi con il più riflessivo e convincente Fashionable Nonsense: Postmodern Intellectuals’ Abuse of Science. Bourdieu, per mia fortuna, è sostanzialmente immune da tutto questo, anche se gli scappano un paio di Derrida.
Il secondo modo di essere francese – accademicamente francese – è nella costruzione della frase, inutilmente lunga, complessa, piena d’incisi e di subordinate. Ma non l’avevano inventata i francesi, la chiarezza, le idee chiare e distinte di Descartes? Chi l’ha detto che per scrivere cose intelligenti si deve essere oscuri e contorti, si deve scaricare sul lettore la fatica della comprensione? Per me scrivere chiaro è un lavoro, il cui onere grava su chi vuole farsi capire. Un esempio per tutti (ma veramente estratto a caso):
Composta dai membri delle frazioni dominanti che hanno operato quella riconversione indispensabile per potersi adattare al nuovo modo di appropriazione del profitto, comportato dalla trasformazione della struttura del campo delle imprese, la nuova borghesia è all’avanguardia nel campo di quella trasformazione degli atteggiamenti etici e della visione del mondo che si realizza all’interno della borghesia, la quale, a sua volta (come dimostra la tabella 17) si trova anch’essa all’avanguardia di una trasformazione generale dello stile di vita, che è particolarmente visibile nell’ordine della divisione del lavoro tra i sessi e del modo di imporre il dominio (p. 320).
È un periodo di quasi 100 parole. Per quello che contano nella loro rozzezza, gli indici di leggibilità elaborati da Word rilevano che questo testo è molto difficile, prossimo alla soglia dell’incomprensibilità (indice Gulpease) e che per leggere con facilità il testo in esame è necessario avere frequentato 50 anni di scuola (indice Gunning’s Fog). Se invece che un blog fosse una scuola di scrittura, vi darei come esercizio di riscrivere il pezzo rendendolo comprensibile ai più.
La traduzione di Guido Viale non mi sembra che aiuti (ma non ho letto l’originale francese). Trovo particolarmente irritante l’orgia di -d eufoniche: forse lo pagavano poco e a battuta!
Ancora più grave – ma non so se questa è una pecca originaria del testo di Bourdieu o sia da attribuirsi all’editore italiano – mancano bibliografia e indice analitico.
I pregi sono di gran lunga prevalenti. Bourdieu è un sociologo fortemente orientato quantitativamente: le sue interpretazioni e anche i suoi giudizi di valore sono sempre fondati sul dato statistico, sul dato d’indagine. La statistica è spesso un bersaglio delle sue critiche, ma la statistica che Bourdieu critica è quella che omogeneizza nella media, che non vede o non riesce a interpretare la variabilità. Nonché la statistica che non riesce a comprendere che le sue classificazioni non sono al di sopra del conflitto degli individui e delle classi, ma ne sono un risultato (e, per di più, sempre mobile). Ma su questo tornerò.
Molte analisi di Bourdieu sono di sorprendente modernità, soprattutto se si pensa che il volume sta per compiere trent’anni. Qualche esempio.
Con questi mercanti di bisogni, venditori di beni e servizi simbolici, che vendono sempre anche se stessi, come modelli e come garanti del valore dei loro prodotti, che sono dei bravi rappresentanti, solo perché sanno presentarsi molto bene, e perché credono nel valore di quello che presentano e rappresentano, l’autorità simbolica del venditore, integra e affidabile, assume la forza di un’imposizione, insieme più violenta e più dolce, poiché il venditore imbroglia il cliente solo nella misura in cui si imbroglia, in cui crede sinceramente nel valore di quello che vende. E poiché la nuova industria dell’imitazione – molto abile nel pagare con le parole e nel distribuire le parole invece delle cose a coloro che, non potendo pagarsi le cose, accettano di pagarsi con le parole – trova al suo stesso interno la propria clientela privilegiata, la piccola borghesia di tipo nuovo è predisposta a collaborare, con una convinzione senza limiti, all’imposizione della stile di vita proposto dalla nuova borghesia, meta probabile della sua traiettoria, ed oggetto effettivo delle sue aspirazioni. In poche parole, questa piccola borghesia di consumatori, che vuole appropriarsi a credito, cioè prima del tempo, prima che sia arrivato il suo momento, degli attributi costitutivi dello stile di vita legittimo – “residenze” dai nomi all’antica e appartamenti a Merlin-Plage, automobili di falso lusso e finte vacanze di lusso – è del tutto adatta a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione ed a fare entrare nella corsa ai consumi e nella concorrenza coloro da cui vuole distinguersi ad ogni costo, e da cui si distingue, tra l’altro, per il fatto che si sente legittimata ad insegnar loro lo stile di vita legittimo, con un’attività simbolica, che non ha solo per effetto quello di produrre il bisogno dei propri prodotti, e quindi, alla lunga, di legittimarsi e di legittimare coloro che lo esercitano, ma anche di legittimare l’arte di vivere che propone come modello, cioè quello della classe dominante o, in termini più esatti, delle frazioni che ne costituiscono l’avanguardia etica (pp. 373-374 – Gulpease 40, molto difficile; Fog 53).
A parte Berlusconi, che ci viene in mente subito, non riconosciamo qui anche le difficoltà in cui si dibatte la sinistra, nel mondo e soprattutto da noi? Perse le tradizionali analisi di classe, che cosa sta rincorrendo? I venditori e i sondaggisti?
Fa quasi da corrispettivo quest’analisi dell’alienazione operaia.
Quello che il rapporto con i prodotti culturali “di massa” (e, a fortiori, d’élite) riproduce, riattiva e rafforza, non è la monotonia della catena di montaggio o dell’ufficio, ma il rapporto sociale, che sta alla base dell’esperienza operaia del mondo, che fa sì che il lavoro ed il prodotto del lavoro, opus proprium, si presentino di fronte al lavoratore come opus alienum. E l’espropriazione non è mai disconosciuta tanto completamente, e quindi tacitamente riconosciuta, come quando, con i progressi dell’automazione, all’espropriazione economica si aggiunge l’espropriazione culturale, che apparentemente offre all’espropriazione economica la sua migliore giustificazione. Non possedendo il capitale culturale incorporato, che costituisce la condizione dell’appropriazione conforme (in base alla definizione legittima) del capitale culturale oggettivato negli oggetti della tecnica, i lavoratori comuni sono dominati dalle macchine e dagli strumenti che servono, assai più di quanto siano da essi serviti, e da coloro che detengono i mezzi legittimi, cioè teorici, per dominarli. In fabbrica come a scuola – la quale insegna il rispetto per le conoscenze inutili e disinteressate e stabilisce dei rapporti investiti dall’autorità “naturale” della ragione scientifica e pedagogica tra individui e attività gerarchizzate in modo solidale – essi incontrano la cultura legittima sotto forma di un principio di ordine, che non ha bisogno di giustificare la propria utilità pratica, per essere giustificato (pp. 398-399).
Con buona pace di coloro che pensano che la condizione operaia sia migliorata soltanto perché è diminuita la fatica e di quelli (me compreso) che dell’automazione vedono soltanto il potenziale di liberazione e di aumento della conoscenza.
Una distinzione quasi fulminante (e, come spesso accade per le intuizioni fulminanti, gravida di potenziali sviluppi analitici) è quella tra “coscienza di classe” e “inconscio di classe”, che Bourdieu introduce a proposito di produzione delle opinioni (e che comunque liquida come “formula semplificatrice e semplicistica del linguaggio politico”, anche se più oltre l’utilizza nuovamente):
C’è una contrapposizione completa tra la coerenza intenzionale delle pratiche e dei discorsi, prodotti a partire da un principio esplicito ed esplicitamente “politico”, e la sistematicità obiettiva delle pratiche, prodotte a partire da un principio implicito e, quindi, al di qua del discorso “politico”, cioè a partire da schemi di pensiero e di azione oggettivamente sistematici, acquisiti attraverso una semplice familiarizzazione, al di fuori di qualsiasi inculcazione esplicita, e messi in opera in modo preriflessivo. Senza dipendere in modo meccanico dalla situazione di classe, queste due forme di atteggiamento politico sono ad essa strettamente legate, soprattutto attraverso la mediazione delle condizioni materiali di esistenza, le cui urgenze vitali si impongono con un rigore diverso e che, quindi, si possono “neutralizzare” simbolicamente in misura diseguale; ed anche attraverso la mediazione della formazione scolastica in grado di procurare gli strumenti che consentono una padronanza simbolica della pratica, cioè la verbalizzazione e la concettualizzazione dell’esperienza politica (p. 429).
La conclusione è una condanna del populismo, in quanto credenza ingenua che le classi popolari siano portatrici di una politica nella prima accezione (coscienza di classe) per il fatto di esserlo nella seconda (inconscio di classe).
Per deformazione professionale, come accennavo prima, trovo particolarmente interessante il modo in cui Bourdieu affronta il tema delle classificazioni. I passaggi cruciali mi sembrano questi (un po’ lunghi e densi, ma dovete avere pazienza):
Coloro che si stupiscono per i paradossi creati dalla logica e dal discorso comuni quando si applicano le loro suddivisioni a delle grandezze continue, non tengono conto né di quanto può essere paradossale trattare il linguaggio come se fosse un puro e semplice strumento logico, né della situazione che rende possibile un simile rapporto con il linguaggio. Le contraddizioni o i paradossi a cui portano le classificazioni della prassi normale non dipendono affatto, come ritengono tutti i positivismi, da una specie di insufficienza consustanziale al linguaggio ordinario; bensì dal fatto che questi atti socio-logici non sono affatto indirizzati alla ricerca della coerenza logica, e dal fatto che – a differenza di quanto accade con gli usi filologici, logici o linguistici del linguaggio (che in realtà bisognerebbe chiamare scolastici perché presuppongono sempre la scholè, cioè il tempo libero, la distanza rispetto alla necessità, la mancanza di poste in gioco vitali e l’istituzione scolastica, che, nella maggior parte degli universi sociali, è l’unica in grado di assicurare tutte queste cose) – essi rispondono sempre alla logica del partito preso; e questa logica, proprio come accade in tribunale, ha a che fare non con giudizi logici, da sottoporre unicamente al criterio della coerenza, bensì con accuse e difese. Senza bisogno di ricordare qui tutti i risvolti della contrapposizione, completamente ignorata dai logici e dai linguisti, tra l’arte di convincere e l’arte di persuadere, è ben strano vedere nemmeno che l’uso scolastico sta a quello che del linguaggio fanno l’avvocato, l’oratore o il militante, esattamente come i sistemi di classificazione degli studiosi di logica o di statistica (che si preoccupano della coerenza e della compatibilità con i fatti) stanno alle categorizzazioni e ai categoremi dell’esistenza quotidiana che, come ci insegna anche l’etimologia, rientrano nella logica del processo (nel senso ordinario, ma anche in quello di Kafka, che ci fornisce un’immagine esemplare di questa ricerca disperata della riappropriazione di un’identità sociale, inafferrabile per definizione in quanto costituisce il limite infinito di tutti i categoremi e di tutte le imputazioni). Non esiste un vero problema relativo al modo di tracciare dei confini nel mondo sociale, che non coinvolga gli interessi connessi all’appartenenza o alla non appartenenza: come dimostra l’attenzione dedicata ai gruppi di frontiera – e proprio per questo strategici, come l’aristocrazia operaia, che oscilla tra lotta di classe e collaborazione di classe; oppure i “quadri”, una categoria precipua della statistica burocratica la cui unità nominale, due volte negativa, nasconde la dispersione reale, sia agli occhi degli “interessati”, sia a quelli dei loro avversari e della maggior parte degli osservatori – il modo in cui vengono tracciati i confini tra le varie classi è influenzato dal processo strategico di “contare” o di “contarsi”, di “catalogare” o di “annettersi”, quando addirittura non costituisce una semplice registrazione di un determinato stadio, giuridicamente garantito, del rapporto di forza tra i gruppi classificati. I confini rappresentano in questi casi delle frontiere da attaccare o da difendere a viva forza, ed i sistemi di classificazione che li fissano costituiscono strumenti di conoscenza assai meno di quanto siano invece strumenti di potere, subordinati a precise funzioni sociali e indirizzati, in modo più o meno scoperto, a soddisfare gli interessi di un determinato gruppo (pp. 479-481).
I soggetti sociali comprendono il mondo sociale che li comprende. Ciò significa che non è possibile caratterizzarli attenendosi a quelle proprietà materiali che, a cominciare dal corpo, sono suscettibili di venir misurate ed enumerate come qualsiasi altro oggetto del mondo fisico. Infatti, non esiste una sola di queste proprietà – si tratti dell’altezza, o delle dimensioni fisiche, o dell’estensione delle proprietà fondiarie o immobiliari – che, percepite e valutate in riferimento ad altre proprietà della stessa classe, da parte di soggetti sociali muniti di schemi di percezione e di valutazione socialmente costituiti, non funzioni anche come proprietà simbolica. Ciò implica il fatto che è necessario superare la contrapposizione tra una “fisica sociale”, la quale, ricorrendo ad una utilizzazione oggettivistica della statistica, dovrebbe stabilire delle configurazioni distributive (in senso statistico, ma anche in senso economico) – cioè delle espressioni quantificate del modo in cui una quantità finita di energia sociale, colta mediante degli “indici oggettivi”, si ripartisce tra una molteplicità di individui in concorrenza tra loro per appropriarsene – da un lato, ed una “semiotica sociale”, che dovrebbe invece dedicarsi a decifrare dei significati e a mettere in luce le operazioni cognitive mediante cui i soggetti sociali li producono e li decifrano, dall’altro. È necessario cioè superare la contrapposizione tra la pretesa di accedere a una “realtà” oggettiva, “indipendente dalla coscienza e dalla volontà degli individui”, anche a costo di rompere con le immagini comuni del mondo sociale (le “pre-nozioni” di Durkheim), per scoprire le “leggi”, cioè le relazioni significative, ma nel senso di non aleatorie, tra differenti configurazioni distributive, da un lato, ed il tentativo di cogliere, non la “realtà”, ma le immagini di essa che si fanno i soggetti sociali e che dovrebbero esaurire in sé la “realtà” di un mondo sociale concepito “come rappresentazione e come volontà”.
In poche parole, la scienza sociale non ha affatto da scegliere tra quella versione della fisica sociale rappresentata da Durkheim – che trova il punto di incontro con la semiologia sociale nell’ammettere che la “realtà” si può conoscere solo attraverso il ricorso a strumenti logici di classificazione – e la semiologia idealista, la quale, ponendosi l’obiettivo di fare un “resoconto dei resoconti”, come afferma Garfinkel, può solo limitarsi a registrare le registrazioni di un mondo sociale, che al limite non dovrebbe essere altro che il risultato delle strutture mentali, cioè linguistiche. Il problema è invece quello di introdurre nella scienza della rarità e della concorrenza per i beni rari la conoscenza pratica che di esso si fanno gli agenti, producendo – in base alla propria esperienza delle configurazioni distributive, che a sua volta è il risultato della posizione che essi occupano all’interno di esse – suddivisioni e classificazioni, che non sono certo meno oggettive di quelle dei bilanci contabili della fisica sociale. In altri termini, si tratta di superare la contrapposizione tra le teorie oggettiviste, che identificano le classi sociali (ma anche le classi sessuali e le classi d’età) con gruppi discreti, semplici popolazioni enumerabili, separate da confini oggettivamente iscritti nella realtà, da un lato, e, dall’altro, le teorie soggettiviste (o, se preferiamo, marginaliste), che riducono l'”ordine sociale” ad una specie di classificazione collettiva, ottenuta aggregando classificazioni individuali o, in termini più precisi, strategie individuali, classificate e classificanti, mediante le quali i soggetti si classificano e classificano gli altri. […] Le lotte delle classificazioni, individuali o collettive, che mirano a trasformare le categorie di appercezione e di valutazione del mondo sociale, costituiscono una dimensione dimenticata delle lotte di classe. Ma per capire quali siano i limiti di questa autonomia basta tenere presente il fatto che gli schemi classificatori alla radice del rapporto pratico che i soggetti sociali intrattengono con la propria condizione, e della rappresentazione che essi possono farsene, sono a loro volta il risultato di questa stessa condizione: la posizione che si occupa nella lotta delle classificazioni dipende dalla posizione che si occupa nella struttura di classe, ed i soggetti sociali – a cominciare dagli intellettuali, che non occupano sicuramente la posizione migliore per pensare ciò che definisce i limiti del loro modo di pensare il mondo sociale, che è poi l’illusione di un’assenza completa di limiti – non hanno certo la possibilità di superare “i limiti del proprio cervello” nell’immagine che si fanno, e che offrono, della propria posizione, che è appunto quella che definisce i loro limiti (pp. 488-490).
Ci siete ancora? Non sono sicuro di avere compreso tutto, né tanto meno di essere d’accordo su tutto. Alcuni riferimenti teorici mi sfuggono, altri mi fanno venire qualche brivido: sono tenacemente attaccato alla convinzione (o alla persuasione!) della conoscibilità del reale (anche se condivido l’ipotesi che si tratti di una conoscibilità sociale, e non solipsistica) e se mi danno del positivista non metto mano alla pistola. Ma Bourdieu ha indubbiamente alcuni meriti importanti: quello di farci capire che le classificazioni, in materia sociale, sono il frutto (anche? soprattutto?) dei processi cognitivi dei soggetti che classificano e agiscono; che non c’è una contraddizione insanabile tra procedure di classificazione “oggettive” od “operative” (anche se Bourdieu stesso sembra – all’interno delle analisi statistiche condotte nel volume – più propenso alle classificazioni “automatiche” che scaturiscono dall'”analisi dei dati” che a quelle predefinite dagli schemi classificatori) e un approccio soggettivistico e post-idealistico nella tradizione di Schopenauer; che quanto illustrato a proposito delle classificazioni sociali vale e va generalizzato alle classificazioni tout court; che le classificazioni sono il risultato mobile di una battaglia che si gioca sulle parole – ma abbiamo visto prima quanto le parole “valgano” sul mercato dei beni e servizi simbolici. Infine, è molto interessante che questo – che è anche un discorso sul metodo – sia proposto da Bourdieu come conclusione della sua analisi, piuttosto che come sua premessa.
Tra le mie riserve c’è quella sullo scetticismo con cui Bourdieu liquida la possibilità stessa di una “classificazione collettiva, ottenuta aggregando classificazioni individuali”: mi sembra che su questo punto gli anni trascorsi non siano passati invano e che si intraveda – ad esempio, nella pratica del web 2.0 – la possibilità di forme (mutevoli e mobili) di classificazioni collettive che emergono dall’operare classificatorio di agenti indipendenti. Vedremo.
Due corollari. Il primo: nella lotta per le classificazioni il sistema scolastico ha, comprensibilmente, un ruolo centrale.
Il sistema scolastico – operatore istituzionalizzato di classificazione che a sua volta è anch’esso un sistema di classificazione oggettivato che riproduce, in forma trasmutata, le gerarchie del mondo sociale, con i suoi tagli tra “livelli” che corrispondono a strati sociali, e le sue divisioni in specializzazioni ed in discipline, che riflettono all’infinito delle divisioni sociali, come la contrapposizione tra teoria e pratica, progetto ed esecuzione – trasforma, apparentemente in modo del tutto neutrale, delle classificazioni sociali in classificazioni scolastiche, e stabilisce delle gerarchie (che non vengono affatto vissute come esclusivamente tecniche, e quindi parziali ed unilaterali, ma come gerarchie totali, fondate in natura) che in tal modo spingono ad identificare il valore sociale e il valore “personale”, le dignità scolastiche e la dignità umana. La “cultura”, che si ritiene garantita dal titolo di studio, è una delle componenti fondamentali di ciò che costituisce l’uomo compiuto, nella sua definizione dominante; sicché la privazione viene percepite come una sostanziale mutilazione, che colpisce la persona nella sua identità e nella sua dignità di uomo, condannandolo al silenzio in tutte le situazioni ufficiali in cui si deve “comparire in pubblico”, mostrarsi di fronte agli altri, con il proprio corpo, le proprie maniere e il proprio linguaggio (p. 399).
Il secondo: poiché le classificazioni sono il risultato di un processo, sono sempre alla rincorsa della realtà che descrivono.
L’ordine delle parole non riproduce mai rigidamente l’ordine delle cose. Ed è proprio nella relativa indipendenza della struttura del sistema delle parole che classificano e che sono classificate (all’interno del quale si definisce il valore peculiare di ogni singola etichetta) nei confronti della distribuzione del capitale – e, in termini più precisi, nel divario (che in parte deriva dall’inerzia propria dei sistemi di classificazione, in quanto istituzioni quasi giuridiche, che sanzionano uno stadio determinato dei rapporti di forza) tra il mutamento dei posti, legato al mutamento dell’apparato produttivo, ed il cambiamento dei titoli – che hanno la loro origine le strategie miranti a sfruttare le discordanze tra il reale ed il nominale, ad appropriarsi delle parole per avere le cose che esse designano, oppure ad appropriarsi delle cose, in attesa di ottenere le parole che le sanzionino, ad esercitare le funzioni senza avere il titolo per farlo […] (p. 486).
Un altro passo che ho trovato stimolante, e molto vicino alle mie corde e alle mie riflessioni è questo, sul ruolo e sulla pretesa neutralità dell’informazione (“conoscere è un bene per tutti”, diceva un vecchio slogan: sempre? a ogni condizione?):
Non c’è nulla di più rivelatore della verità di questo quesito interessato, dell’ossessione per l'”informazione economica dei cittadini” che ossessiona i dirigenti, ed in cui si esprime il sogno che i dominati abbiano quel tanto di competenza economica per poter riconoscere la competenza economica dei dominanti. L’informazione che i dominanti forniscono volentieri e con abbondanza è proprio quella che mira a screditare (come fa il medico con le conoscenze dei pazienti) le informazioni che i dominati posseggono in forma pratica, sulla base della loro normale esperienza (per esempio, la conoscenza che hanno dell’aumento del costo della vita, della disuguaglianza delle imposte, ecc.). Di qui, un discorso politico che, lungi dal rendere conto, invita a rendersi conto; che, lungi dal fornire i mezzi per mettere in rapporto l’informazione particolare e pratica con l’informazione generale, si limita ad impartire una lezione, imponendo alle esperienze particolari le cornici generali in cui dovrebbero entrare (pp. 463-464).
Infine, Bourdieu è fulminante (e dunque squisitamente francese) anche nella scelta delle epigrafi dei capitoli: “Se tra due mali devo scegliere il minore, non ne seguo nessuno – Karl Kraus”. Naturalmente non sono d’accordo, per formazione gesuitica; ma mi costringe a fermarmi a pensare.